Di canoni sherlockiani, ragazze ebree e della differenza fra gialli e romanzi d’avventura
The beekeeper’s apprentice, di Laurie R. King, è il primo di una serie di romanzi con protagonista Mary Russell, pubblicato nell’ormai lontano 1994. Le storie di Mary contano ormai una dozzina di episodi e, senza essere mai arrivate alla grande notorietà, godono di una solida cerchia di estimatori: proprio quel tipo di combinazione che di solito individua un cult. Io ci sono arrivato grazie a un po’ di tracce rinvenute su Anobii, e i giudizi complessivamente positivi mi hanno spinto a iniziare la serie, vincendo la mia abituale diffidenza verso gli spin off. Alla fin fine sono contento, ma certo non c’è la stoffa per il cult.
Il beekeeper del titolo, cioè l’apicultore, è infatti un invecchiato Sherlock Holmes (siamo nel 1915), ritiratosi a vita semiprivata in campagna e dedito, appunto, all’apicultura (si rispetta così quanto previsto dallo stesso Conan Doyle nella raccolta tardiva His last bow). Nella stessa regione del Sussex si viene a stabilire Mary Russell, una ragazzina americana sedicenne, orfana e infelice ma dotata di una intelligenza superiore, in grado di rivaleggiare con quella dello stesso Holmes. Nonostante tutto li separi i due faranno amicizia e Holmes, dapprima come un divertissement e poi in maniera più seria, addestrerà Mary a essere la sua assistente e, forse, il suo successore.
Contrariamente alle apparenze The bekeeper’s apprentice non è un pastiche umoristico. La King pone gran cura nel vincere le diffidenze iniziali del lettore – e dell’esperto del canone sherlockiano – e la coppia improbabile Holmes-Mary funziona e si fa seguire con piacere. Più o meno tre quinti del romanzo sono dedicati al rapporto via via più stretto fra i due e ai loro primi casi in comune, e questa è senz’altro la parte migliore.
Ci sono solo due problemi. Uno è che per poter inserire Mary nel ruolo di assistente la King deve sbarazzarsi di Watson, che viene trattato un po’ male e, secondo me, in maniera complessivamente irrispettosa del canone originale. Il tutto è fatto con eleganza, ma il Watson della King non è il Watson di Conan Doyle, e questo segnala e anticipa le mie perplessità sulla seconda parte del romanzo.
Il secondo problema riguarda Mary. Allora: abbiamo deciso di dare a Holmes un compagno improbabile. Va bene. Niente di più inaspettato che una donna. D’accordo. La donna in questione è poco più che adolescente (uhm), è americana (ok), è orfana (ma si, va bene), ha una storia complicata alle spalle (d’accordo). Deve anche essere ebrea, studiare teologia, essere alta, maldestra come Bella Swann e avere una sessualità vagamente repressa? C’è un po’ di sovracaratterizzazione, come se la King avesse avuto un personaggio pronto per tutto un altro romanzo e, ricevuto l’incarico di scrivere questo, avesse riciclato la protagonista – che un pochino sembra infilata in questa storia a forza. Oppure sono io che sono politicamente scorretto e mi irrito per un po’ d’ombra di propaganda religiosa mascherata: anche perché Mary dice frequentementedi essere ebrea ma fa poche cose religiose: e per quanto una possa essere laica un’ombra di ritualità, di abitudini, di frequenza con la Parola (anche se ha palesemente letto i Salmi) dovrebbe pur esserci.
Anche con queste riserve, comunque, la prima parte del romanzo prende ed è piacevole. La seconda scricchiola parecchio di più. Dall’ombra emerge e si coagula un Grande Mistero, dietro al quale, naturalmente, sta un Avversario Misterioso e Inafferrabile. Sfortunatamente questo figuro non ha mai apparentemente studiato da cattivo-cattivo e il lettore è portato più volte a chiedersi perché continui a giocare con Mary e Holmes come il gatto col topo invece di farla finita. Mettiamola così: se io fossi un supercattivo e sapessi che Mary e Holmes, vestiti da gran sera e del tutto indifesi, passeranno in un certo luogo a una certa ora, non devasterei la loro carrozza per il puro gusto di crogiolarmi nella mia superiorità, ma convocherei una mezza dozzina (facciamo una dozzina, per sicurezza) di accoltellatori malesi per liberarmi di loro in maniera definitiva. Ci perdo il gusto di vederli dibattersi senza scampo giorno dopo giorno nelle spire del mio diabolico piano di vendetta, ma ehi, nella vita bisogna fare dei sacrifici. Anzi, dodici accoltellatori malesi già sono troppo esotici: una trentina di criminali londinesi armati di pistole andranno benissimo.
Insomma, la King deve mantenere alta la tensione dell’ultima parte con parecchia artificiosità, e già questo non va bene. In secondo luogo, per reazione Holmes e Mary architettano un piano: un piano che metterà a dura prova la loro fiducia reciproca, comporterà rischi e sacrifici, ma col quale potranno battere il loro nemico al suo stesso gioco. Insomma, non un piano qualsiasi: un piano, ragazzi, di quelli sui quali, appunto, si costruiscono i migliori romanzi d’avventura. Peccato che quale sia questo piano, apparentemente, non lo sappia neanche la King, la quale, dopo averlo reso l’oggetto di lunghe (ed efficaci) pagine di approfondimento della relazione fra Holmes e Mary (mi sacrifico io, no tu no, faccio io, no io) è costretta semplicemente a far andare la trama da un’altra parte in modo da non dover spiegare, esattamente, come avrebbe dovuto funzionare questo benedetto piano. Il problema, mi pare, è che la King è incerta sul come leggere le storie di Sherlock Holmes originali: se come romanzi d’avventura, in cui l’intreccio, la costruzione dei personaggi e degli ambienti e i colpi di scena sono gli elementi fondamentali, oppure come gialli (per la precisione whodunit) in cui quello che conta è la soluzione del puzzle. Conan Doyle ha usato Holmes come pretesto per scrivere storie dell’uno e dell’altro tipo, la King sembra non sapersi decidere e alla fine opta per il giallo, in maniera un tantino insoddisfacente.
D’altra parte lo scioglimento finale (che ovviamente non posso anticipare) è legato alla negazione di un altro consolidato assunto fondamentale del canone, una violazione ben più grave del trattamento riservato a Watson, e questo inchioda definitivamente il romanzo alla sufficienza risicata: Mary Russell è un personaggio che si fa seguire volentieri (a me sarebbe piaciuto vederla all’opera da sola in un’altra ambientazione, pazienza) e la relazione Holmes-Mary è piacevole; ma la King non sembra tantissimo a suo agio nella costruzione della trama e prende un po’ troppe scorciatoie per i miei gusti: può essere, naturalmente, che la serie abbia un seguito affezionato di lettori perché più avanti migliora sotto questo aspetto e credo che, se capita, almeno la seconda puntata me la leggerò. Se capita.
Note editoriali: The beekeeper’s apprentice è stato pubblicato in italiano da Neri Pozza (nel 2006); il resto della serie, se non ho visto male, è inedito in Italia.
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