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L’età del trumpismo

Il mio amico Domenico Licheri, che è sempre prodigo di suggerimenti di lettura dalla stampa estera, mi ha suggerito un articolo del Guardian che prova a fare un primo bilancio del “fenomeno Trump”.

È un articolo molto molto interessante e mi è sembrato una buona idea tradurlo, soprattutto per poterlo discutere: per poterne parlare era necessario che le argomentazioni esposte fossero chiare per tutti, prima di andare direttamente a dire che forse è un’analisi che ha dei limiti.

Ho infatti l’impressione che offra conclusioni che sono più verosimili che vere.

È da un po’ che leggendo la stampa estera mi sembra che tutti trascurino un importante caso internazionale che può gettare luce sul successo di Trump, ed è quello di Berlusconi – un parallelo molto più rilevante, mi pare, di Orbán o Geert Wilders, e qui il Guardian invece sta in quella scia. Il che non vuol dire che non sia vera la relazione fra Trump e la crisi del discorso democratico che questo articolo illustra: solo che la crisi è diversa e non rimanda, credo, a Weimar ma piuttosto a Depretis e Crispi o al colpo di stato di Luigi Napoleone. Per non parlare del fatto che questi articoli ogni tanto sembrano scoprire l’acqua calda. Ma su questo tornerei domani: oggi vi lascio alla lettura preliminare, che è già abbastanza lunga (l’articolo originale fa parte di una rubrica del Guardian chiamata, non a caso, “la lettura lunga”).

Una sola nota di contesto: i link contenuti sono quelli dell’articolo originale. Le illustrazioni invece sono vignette di un bravo illustratore e umorista americano, Clay Bennett, e le ho scelte io (ma se date un’occhiata all’articolo originale, le foto sono molto interessanti).

Benvenuti nell’era di Trump

di Jonathan Freedland

Che vinca o meno le presidenziali USA la sua ascesa dimostra una crescente attrazione nei confronti dei politici demagoghi – e indica una più vasta crisi della democrazia

«Userò la Farsa!»
Guerre Stellari: il risveglio della Farsa

Era la notte che i media americani sono troppo perbene per chiamarla Fighettagate. A quel punto Donald Trump non aveva vinto niente. Ventiquattrore più tardi avrebbe festeggiato la sua prima vittoria nella lotta per la nomination presidenziale repubblicana, che lo avrebbe messo sulla strada per affrontare Hillary Clinton a Novembre. Ma in questa gelida notte di un lunedì di febbraio, con una tempesta di neve che fischiava all’esterno, Trump si ergeva di fronte all’affollata Verizon Wireless Arena di Manchester nel New Hampshire e si preparava a scatenare la sua lingua.

Dopo uno sconnesso monologo che vagava dalla sua carriera televisiva al felice e solare mondo che sarebbe scaturito dalla sua ascesa alla Casa Bianca, Trump arrivò a un altro dei suoi temi favoriti: l’inadeguatezza dei suoi rivali. Stava attaccando il senatore del Texas Ted Cruz perché troppo poco entusiasta rispetto alla tecnica di tortura del waterboarding quando una donna nell’area per il pubblico in piedi direttamente davanti al palco, una sorta di pozza trumpiana per pogare [moshpit nell’originale, NdRufus], gridò: «È una fighetta!». Trump fece finta di essere allibito, perfino allontanandosi dal podio con un’aria di disgusto, per poi alla fine, come se fosse stato costretto, ripetere l’insulto a beneficio delle telecamere che potevano non averlo colto. «Ha detto: «È una fighetta». È terribile… signora, si consideri rimproverata» disse alla disturbatrice, al modo di un insegnante benevolo che ripete senza prenderlo troppo sul serio il rimprovero previsto.

E così Trump si assicurò il dominio dell’ennesimo ciclo di notizie – man mano che i talkshows, le TV via cavo e i suoi colleghi candidati tutti dibattevano la sua caduta nella volgarità. Così come è stato lungo tutto l’arco della campagna elettorale, a partire da luglio dello scorso anno, Trump era l’idolo dello spettacolo.

Nello stesso momento inviava un segnale potente. È lo stesso che trasmette ogni volta che attacca la “correttezza politica” o viola uno dei suoi supposti vincoli: deridendo i disabili, giudicando le donne dal loro aspetto, vantandosi della sua ricchezza, insistendo che, quando sarà al potere, i commessi dei negozi diranno di nuovo: «Buon Natale», invece che: «Buone vacanze». Il messaggio è lo stesso ongi volta. Dice: io sono fuori del sistema. Non obbedisco alle regole. Io sono diverso.

Da mezzogiorno all'una: appuntamento con Donald TrumpDall'una alle cinque: appuntamento con Jack Daniels
Da mezzogiorno all’una: appuntamento con Donald Trump
Dall’una alle cinque: appuntamento con Jack Daniel’s

Perché è così efficace? Come hanno fatto queste intemperanze – che dapprima ci si aspettava che fossero esiziali per la sua candidatura – a procurargli invece infinità attenzione dai mezzi di comunicazione e, soprattutto, milioni di voti?

Parte di questo è puro intrattenimento. Da quando si è procurato uno spazio quotidiano sui giornali scandalistici negli anni ’80, Trump sa che l’indignazione vende. Molto prima che il consulente politico australiano Linton Crosby consigliasse ai suoi clienti di cambiare argomento sbattendo un gatto morto sul tavolo, Trump ha capito che la gente si sintonizzerà sempre per vedere lo spettacolo della rottura di un tabù.

Una parte sottovalutata della ricetta è l’umorismo. Trump è divertente. Il suo modo di parlare è divertente, il suo uso della parola così è divertente – «Sarà così fantastico» – la sua autostima esuberante è divertente, il suo prendere in giro i suoi nemici è divertente.

Ma più forte è il brivido che Trump genera nella sala, e nel pubblico che guarda alla TV, quando osa rifiutare le regole del gioco. Per quegli elettori che sentono che il gioco è truccato – che sentonoche il gioco li ha trasformati in eterni perdenti – la visione di qualcuno disposto a sfidare le sue convenzioni è esilarante. Segnala l’arrivo di un forestiero, un cane sciolto non collegato al vecchio ordine e pronto a distruggerlo a favore di qualcosa di interamente nuovo.

Per i suoi seguaci, la disponibilità di Trump a mettersi sotto i tacchi le giaculatorie dei discorsi pubblici convenzionali è un segno della sua buona fede, perfino una dichiarazione di intenti. Se è capace di dire quello in faccia a Carly Fiorina, forse sarà capace di picchiare giù duro su un’azienda americana che sta per delocalizzare una fabbrica dagli USA al Messico. Dopo tutto è palesemente non impastoiato dai legacci che frenano il resto di quei politicanti.

Secondo questa logica, Trump è l’intrepido campione della verità. Che può sembrare uno strano riconoscimento da dare a un uomo che è stato beccato più volte a mentire una volta dopo l’altra ed è forse il più conclamato disonesto candidato che abbia mai cercato, per non dire vinto, la nomination di uno dei principali partiti statunitensi. Ma questo vuol dire dimenticarsi che il nocciolo duro dei sostenitori di Trump credono che sia la classe dirigente – le élite della comunicazione e della politica – che gli ha mentito per almeno due decenni. Così quando quelle stesse élite bollano Trump come un bugiardo i suoi sostenitori  non ci credono, oppure non gli importa.

Obama: i ricchi devono portare la loro parte di peso
«Quando cesserà la mia sofferenza?»

Per i prossimi cinque mesi Trump affronterà Hillary Clinton – l’incarnazione definitiva dell’élite politica degli USA – in quella che sembra destinata a essere la campagna più sgradevole a memoria d’uomo. Ma anche se perde ha provato che ha un gradimento profondo in una parte dell’elettorato statunitense che è giunta a considerarlo il proprio campione.

La loro ira, a cui Trump ha così abilmente attinto, va oltre questo o quel partito, o anche oltre l’attuale situazione economica. Egli sta facendo da sfogo a una rabbia che riguardo lo stato del sistema politico americano. E questa furia non è confinata agli Stati Uniti. Ce ne sono altre versioni che erompono in tutto il mondo, bollenti di indignazione contro lo status quo. In quasi ogni caso coloro che gli danno voce dichiarano di parlare per il popolo e per la vera democrazia. Ma nelle loro forme più estreme rischiano di sfumare in qualcosa di più sinistro: una rivolta contro le norme, i confini riconosciuti, che rendono la democrazia possibile.

Il giorno dopo il Pussygate Trump ottenne una vittoria schiacciante nel New Hampshire, sconfiggendo il suo rivale più prossimo di venti punti percentuali. E tuttavia anche allora veniva preso sottogamba. Gli editorialisti restavano rigidamente convinti che si sarebbe afflosciato, che presto o tardi l’elettorato repubblicano si sarebbe raccolto attorno all’uno o all’altro degli avversari, che Trump non poteva essere vero. Dopo tutto, nonostante lo scontento crescente nelle democrazie occidentali, le persone che vincono effettivamente le elezioni nelle nazioni più ricche della Terra continuano a essere sul genere di BArack Obama, Angela Merkel e David Cameron, senza un singolo arruffapopolo fra loro.

Ma quello voleva dire non fare i conti con una tendenza visibile lungo tutto il mondo democratico. Sebbene ogni singolo caso sia differente, è innegabile che populisti e demagoghi stiano facnedo balzi in avanti straordinari, gli esempi quasi troppo numerosi per elencarli tutti. La più grande democrazia del mondo, l’India, è ora guidata da un nazionalista hindu, uno caratterizzato da quella che i suoi critici temano sia un’ampia vena di autoritarismo. In Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, il cui partito AK ha vinto una sonora vittoria contro i partiti tradizionali nel 2002, è divenuto via via più dittatoriale ogni anno che è passato. In Francia Marine Le Pen e il suo xenofobo Front National dichiarano che la classe dirigente politica ha, secondo loro, tradito il popolo (bianco, non islamico) francese. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha un ritornello simile. Agli inizi di quest’anno le elezioni regionali tedesche hanno generato un’ondata a favore di un partito che sostiene buona parte delle stesse idee: l’Alternative für Deutschland di estrema destra. E lo stesso accordo risuona anche nel Partito del Popolo danese, nei Democratici svedesi, che ha le proprie radici nel neonazismo, nel partito precedentemente conosciuto come Veri Finlandesi così come nel Partito del Popolo della Svizzera. In Olanda il noto Geert Wilders, anti-islamico, è ancora una figura dominante. La Gran Bretagna ne ha la propria versione a basso contenuto di nicotina in Nigel Farage, leader del Partito dell’Indipendenza, che ha raccolto quattro milioni di voti alle elezioni del 2015. Considerato che si è verificato in un sistema parlamentare costruito esattamente per prevenire questo tipo di rivolta, mostra che anche la Gran Bretagna non è immune al richiamo del populismo.

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L’elefantino è il simbolo del Partito Repubblicano

Le singole personalità e i contesti sono differenti, ma questa raccolta disparata di partiti e candidati si nutre dello stesso scontento. Di solito gli elettori che raccolgono l’appello dei rivoltosi populisti sono quelli che sentono di essere stati traditi dalla politica convenzionale, lasciati indietro o economicamente o culturalmente. Sono coloro i cui redditi sono stati spremuti, i cui impieghi sono stati trasferiti all’estero o che semplicemente hanno visto i loro quartieri trasformarsi davanti ai loro occhi da una popolazione mutevole e più diversificata. Se due decenni di globalizzazione hanno avuto i loro vincitori e perdenti sono, brutalmente, i perdenti che stanno innalzando la bandiera del populismo – sebbene quella bandiera abbia insegne e colori che cambiano di paese in paese.

Infatti può essere anche rosso intenso. Poiché gli scontenti sentono anche il richiamo che viene dalla sinistra, da Bernie Sanders a Podemos, da Jeremy Corbyn a Syriza, appelli che adottano gli usuali schemi del populismo – farsi portavoce di una maggioranza oppressa contro un’élite politica corrotta – insieme con l’attacco a una dirigenza economica disprezzata.

Ciò che connette molte – non tutte – queste figure è il rifiuto del sistema politico nella sua forma attuale. I nuovi populisti non dicono semplicemente che il partito al governo ha fallito e che ora tocca all’opposizione. Essi insistono sul fatto che è l’intero sistema a non funzionare.

È per questo che Trump si scaglia contro i Repubblicani nella stessa maniera con cui lo fa contro i Democratici. E questo, vale la pena di notarlo, è il significato del Fighettagate e del resto delle violazioni ripetute dell’etichetta politica comunemente accettata: attraverso loro Trump segnala che lui rappresenta una rottura totale con un sistema che lui sostiene che ha fallito.

Tutto questo funziona meglio con un pubblico che non concorda solo con il messaggio di Trump, ma lo sente nel profondo. Concorda con la loro esperienza di vita. Le legioni più devote di Trump sono quelli che sono pronti a rompere col sistema perché sentono che il sistema ha rotto con loro molto tempo fa, che li ha abbandonati e messi da parte.

Il gruppo in questione è il segmento di popolazione che era noto nel gergo giornalistico statunitenese di vent’anni fa come i maschi bianchi arrabbiati, ora più educatamente citati come la classe operaia bianca.

La prosperità è proprio dietro l'angolo...
La prosperità è proprio dietro l’angolo… ma è una comunità recintata.

La delusione – alcuni lo chiamerebbero tradimento – più facilmente misurabile per questo gruppo è economica. Per quasi due decenni, più a lungo secondo certe stime, hanno visto i propri salari stagnare e perfino declinare in termini reali. Mentre il resto dell’economia è cresciuto, sebbene in maniera contraddittoria, e mentre i ricchi sono diventati ancora più ricchi, essi hanno visto il proprio potere d’acquisto e il livello di vita rimanere statici. Addirittura il patrimonio netto mediano è calato negli Stati Uniti fra il 1998 e il 2013 per tutti i gruppi , tranne uno: il 10% più ricco. Gli americani della classe operaia hanno visto il proprio patrimonio netto in questo periodo calare di uno sconcertante 53%. Nel frattempo il decile più ricco è diventato ancora più ricco del 75%. Negli Stati Uniti questo rappresenta una rottura fondamentale dalla promessa americana di base: se lavori sodo e giochi secondo le regole avrai una vita confortevole.

Per di più per molti di coloro che appartengono ai redditi medi la stretta finanziaria è solo una parte di un doppio tradimento. Gli Stati Uniti sono diventati marcatamente più liberali negli ultimi due decenni, con un rilassamento dell’atteggiamento riguardante la diversità, l’eguaglianza di genere e la sessualità, una tendenza che è specialmente pronunciata fra i giovani e le persone istruite. I simboli sono evidenti, che si tratti dell’uomo nero alla Casa Bianca o della legge che permetta alle coppie omosessuali di sposarsi.

Per molti di quei maschi bianchi arrabbiati questo è profondamente disturbante. Una società che dà un posto di rilievo a, diciamo, uomini neri o donne lesbiche può sembrare in contraddizione con i valori nei quali questi tradizionalisti (alcuni vorrebbero chiamarli reazionari) sono stati allevati. Detto più crudamente, una delle consolazioni disponibili per un maschio bianco eterosessuale della classe operaia americana del passato era la consapevolezza che c’erano altri sotto di lui nella gerarchia sociale. Si trovava in una società che lo poneva al di sopra dei gay, dei non bianchi e delle donne. Ora quella consapevolezza, insieme con il lavoro e con la casa a un prezzo accessibile, è andata. Ricordatevi che il titolo di un libro che è stato una pietra miliare sui maschi bianchi del sud nell’epoca dei diritti civili si intitolava There goes my everything [“Così se ne va il mio tutto” dello storico Jason Sokol, citando il titolo di una canzone di Elvis Presley, NdRufus].

Restano cinque candidati: quello indicato dalla freccia è Trump
Restano cinque candidati: quello indicato dalla freccia è Trump

C’era in mostra un piccolo indizio in proposito alla festa della vittoria di Trump nel New Hampshire. Non c’era bisogno di essere un consulente politico per vedere in quale segmento demografico si inseriva Walter Collings: le sue mani nodose e coperte di vesciche lo svelavano. A sessantacinque anni si era offerto volontario come parcheggiatore in diciotto diversi eventi di Trump nel corso delle primarie del New Hampshire. La sue dedizione al miliardario era totale, sebbene i due abitassero differenti mondi economici. Ma l’indizio era nella spilla sul bavero di Collings: Blue lives matter [“le vite in blu contano”, dove il blu è il colore delle uniformi dei poliziotti, NdRufus]. Non era solo una dichiarazione di solidarietà con gli agenti di polizia caduti: era un colpo di risposta contro il movimento Black lives matter, un posizionamento contro la correttezza politica e un modo per dire: «Anche i bianchi come me contano». Buon Natale invece che Buone vacanze.

E per gente come Collings la lamentela è diretta contro il Partito Repubblicano tanto quanto contro i Democratici. Casomai essi criticano il primo più del secondo. Dopo tutto il Partito Repubblicano ha offerto alla classe operaia bianca una sorta di tacito accordo sin dai tempi di Richard Nixon: dateci i vostri voti per amore dei vostri valori – Dio o armi da fuoco o omosessuali o, senza dirlo, razza – e noi avremo le maggioranze che ci servono per perseguire le nostre amate politiche di basse tasse per i ricchi e deregulation per i grandi affari (un programma che, vedi un po’, lavora a vostro danno economicamente).

Per decenni quel patto ha pagato dividendi positivi per i Repubblicani dal punto di vista elettorale: pensate come gli elettori evangelici, molti dei quali operai, si siano presentati a respingere il matrimonio gay in un referendum in Ohio nel 2004 – e già che c’erano assicurando la rielezione di George W. Bush [nelle elezioni presidenziali del 2004 il voto dell’Ohio si rivelò decisivo. Per la verità ci sono sospetti che la macchina elettorale repubblicana abbia vinto non solo grazie al voto della classe operaia, ma anche grazie a dei brogli, NdRufus]. Ma ora le prove sono sul tavolo. L’accordo può avere aiutato il Partito Repubblicano, ma ha fatto poco per i suoi elettori. Hanno perso i loro lavori e i loro protettori conservatori non sono riusciti a trattenere la marea del cambiamento sociale. Sono disoccupati e in Modern Family [una serie TV, NdRufus] Mitchell e Cam si sono sposati.

Schiacciati economicamente, col mondo attorno a loro sempre più irriconoscibile, questi sono gli elettori che credono che entrambi i partiti, e perciò il sistema stesso, è fallito. E così acquista senso rivolgersi a qualcuno interamente al suo esterno – qualcuno che promette di farlo a pezzi.

Trump vignetta e
Spiaggia chiusa. «Allora, vuoi ancora un governo che si comporta come un’azienda?»

La rabbia contro il sistema – l’insistenza furente che la democrazia sta fallendo nel dare al popolo ciò che sarebbe destinata a fornire, che il sistema che porta il suo nome è non più davvero democratico – alimenta non solo Trump ma molti dei movimenti populisti che ora si agitano in tutto il mondo.

Parte di questa furia spinge la candidatura di Sanders, per esempio, quando sostiene che entrambi i partiti principali sono le facce gemelle di una democrazia farlocca, venduta a Wall Street e alle grandi multinazionali (è rivelatore il fatto che sia Trump che Sanders siano dei cani sciolti nei partiti cdei quali cercano di assumere la guida: non molto tempo fa, entrambi non erano neppure iscritti). Definisce anche la campagna per la Brexit, con la sua argomentazione di base che la Gran Bretagna ha perso il controllo democratico sul proprio destino, che solo una rottura con l’Unione Europea permetterà agli inglesi di governarsi di nuovo da soli, non importa chi ci sia in Downing Street.

Le posizioni di Sanders o della Brexit sono specificate dall’idea che la democrazia è ancora l’ideale: il problema è che la sistemazione attuale non la realizza. Ma c’è una disaffezione che scorre più oltre e più a fondo. Questa chiede se la democrazia rimanga ancora un ideale da perseguire.

Pensate all’Ungheria, dove Viktor Orbán governa da uomo forte, senza temere di dichiarare, come ha fatto nel 2014, che: «il nuovo stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno stato illiberale», uno che pone i bisogni «nazionali» al di sopra di valori liberali come la libertà. In Polonia, il partito Legge e Giustizia viene accusato di calpestare la stessa Costituzione del paese per stabilire una propria «democrazia illiberale». Una delle ragioni per le quali Trump appare sinistro piuttosto che semplicemente buffonesco è l’indizio che sia contrario non solo all’attuale sistema bipartitico degli Stati Uniti, ma alle norme stesse che reggono la democrazia liberale: la separazione dei poteri che tiene sotto controllo i governanti eletti; la stampa libera e indipendente che svolge lo stesso compito; il civile dibattito argomentativo che rende possibili le pubbliche deliberazioni collettive.

Pensate al modo con cui Trump si ponga come la soluzione a ogni problema, l’uomo forte capace di tagliare il nodo della burocrazia e della complessità e rendere migliori le cose, anche se ci volesse la forza bruta. In che altro modo dare un senso alla sensazione nascosta di violenza che accompagna la sua campagna? Ai comizi Trump ha parlato di prendere a pugni in faccia in contestatori, invocato con rimpianto i giorni nei quali i disturbatori sarebbero stati gestiti fisicamente invece che con educazione, e giunto fino a un passo dal suggerire ai suoi seguaci di picchiare coloro che alzano la voce in dissenso. In diversi differenti raduni i devoti di Trump hanno seguito l’imbeccata. Lo stesso direttore della campagna di Trump, Corey Lewandowski, è stato inquisito per lesioni per avere messo le mani addosso a una giornalista. Le accuse sono state ritirate, ma Lewandowski ha avuto il sostegno del suo capo per tutta la vicenda.

Trump vignetta gLa minaccia di violenza non è confinata a questi scontri. È centrale nel messaggio di Trump. Si trova nella sua promessa di infliggere «dannatamente molto peggio» che il waterboarding ai sospetti di terrorismo, e di non uccidere solo i terroristi ma «far fuori le loro famiglie», un’azione che comporterebbe un crimine di guerra. Si trova nella sua descrizione della Convenzione di Ginevra come «un problema» da sradicare, così come nel suo rifiuto di escludere un attacco nucleare sul Medio Oriente o sull’Europa. Si trova nella sua presuntuosa ignoranza della Costituzione degli Stati Uniti, la sua insistenza che i comandanti militari faranno ciò che lui gli dirà di fare, che sia legale o meno.

Si tratta di più di un rifiuto dell’attuale ingorgo Democratici-Repubblicani. Si tratta del disprezzo per la nozione stessa di democrazia costituzionale. E se Trump lo sta proponendo con insistenza, può essere che sia perché sa che c’è un pubblico pronto a un simile messaggio.

Il rapporto del World Values Survey [un rapporto statistico mondiale, NdRufus] del 2011 comprendeva un danno stupefacente. Aveva scoperto che il 34% degli americani era a favore di: «avere un forte leader che non deve preoccuparsi di Congresso o elezioni», con il dato che saliva al 42% fra coloro che non avevano istruzione oltre le scuole superiori. Vale la pena di rileggere, per lasciarlo penetrare. Vuol dire che un elettore statunitense su tre preferirebbe un dittatore a una democrazia. Quegli americani non stanno ripudiando questo o quel governo, ma abbandonando l’idea stessa della democrazia.

Questi dati rinforzano uno schema riscontrato dalla ricerca accademica recente che mostra che c’è una parte dell’opinione pubblica statunitense che inclina verso il polo opposto alla democrazia liberale: l’autoritarismo.

«Dai ragazzi, non sto mica cercando di votare»
«Dai ragazzi, non sto mica cercando di votare».

Usualmente questo sentimento cova sotto la cenere. Comprensibilmente, gli elettori esitano ad ammettere pubblicamente opinioni del genere. Quando sono interpellati che ammettere inclinazioni autoritarie è dare la risposta sbagliata. Lo studioso di politica Stanley Feldman ha scoperto che il modo più semplice di spezzare la barriera è fare quattro domande che apparentemente non riguardano la politica ma l’educazione dei figli. Cosa è più importante per un bambino: indipendenza o rispetto per gli anziani? Obbedienza o autosufficienza? Una tendenza a essere premuroso o bene educato? Curiosità o buone maniere? Il come con cui si risponde a queste quattro domande rivela tutto quel che i ricercatori hanno bisogno di conoscere per sapere quanto più di valuti ordine e il conformismo rispetto ad altri valori.

Sorprendentemente la ricerca ha rivelato che circa il 44% degli americani bianchi si sono rivelati di tendenza autoritaria, con il 19% risultanti al livello «molto alto» sulla scala dell’autoritarismo. E questi sentimenti non sono nuovi: sono stati riscontrati dagli studi da quando Feldman ha iniziato a fare queste domande negli anni ’90. Principalmente questi sentimenti “autoritari” restano in letargo sotto la superficie. Ma gli studiosi hanno scoperto che vengono «attivati» quando gli elettori inclini all’autoritarismo sono sotto pressione, specialmente quando l’ordine sociale o la gerarchia a cui danno valore è minacciata dal cambiamento. Quel cambiamento potrebbe essere un passaggio verso una maggiore diversità etnica, potrebbe essere il matrimonio omosessuale, potrebbero essere i salari stagnanti – qualunque cosa che sembri mettere in pericolo lo status quo che un tempo offriva a quegli elettori un posto sicuro nella società.

Trump vignetta mOltretutto, hanno scoperto i ricercatori, quando la minaccia è combinata con una minaccia esterna o fisica percepita – come l’Isis – non solo i sentimenti di autoritarismo vengono attivati ancora più intensamente, coloro che ordinariamente darebbero risposte non-autoritarie alle quattro domande sull’educazione dei figli possono slittare, per paura, verso il campo autoritario. Nelle parole di Amanda Taub di Vox, queste intuizioni si combinano per suggerire «una teoria terrificante: se il cambiamento sociale e le minacce fisiche vengono a coincidere nello stesso momento, possono risvegliare una massa potenzialmente enorme di americani autoritari, che chiederebbero un condottiero forte e le misure estreme necessarie, secondo loro, per affrontare le minacce all’orizzonte». Il che assomiglia molto a Trump. In effetti i sondaggi mostrano che il miglior singolo predittore del sostegno a Trump è l’autoritarismo. Se segni la casella dell’autoritario, probabilmente voti per Donald.

Ma allora cosa potrebbe spiegare questa erosione della fede democratica, sufficiente ad attrarre un largo numero di Americani verso il desiderio di un uomo forte non impastoiato dall’irritante maneggio delle elezioni?

Negli Stati Uniti c’è un colpevole diretto, nella forma del Partito Repubblicano e della più ampia destra americana. Per più di vent’anni l’ala più rumorosa del conservatorismo ha dichiarato – nei discorsi alla radio, su Fox News – che il governo e, per deduzione, la politica democratica in se stessa è moralmente sospetta. Parte di questo è stato espresso attraverso il loro disgusto per l’era di due presidenti democratici, entrambi descritti non solo come in torto, ma fondamentalmente illegittimi. Questa era l’inflessibile visione della destra riguardo a Bill Clinton, che suggeriva negli angoli più oscuri della sua conversazione collettiva che solo una cospirazione criminale poteva avere installato un uomo simile alla Casa Bianca. È giunta alla fine nel tentativo di rimuoverlo dalla carica tramite l’impeachment. Contro Barack Obama hanno distilalto l’accusa di illegittimità nella questione tradizionale della nascita, insistendo che il presidente avesse ottenuto la presidenza con l’inganno, mentendo sul fatto di essere segretamente un Mussulmano nato in Africa. È bene ricordare che il gran sacerdote del cosiddetto movimento della nascita [birther, da birth, “nascita”, NdRufus] era un certo Donald J. Trump.

Clay Bennett editorial cartoonPer una certa ala della destra americana, non è solo Obama o Clinton o anche il Partito Democratico che è illegittimo. È lo stesso governo federale, perfino la stessa idea di governo (naturalmente il sospetto nei confronti dell’autorità è vecchio quanto la repubblica, che fu creata, non dimentichiamolo mai, in un atto di ribellione contro un governo onnipotente). Mi è capitato assistervi personalmente nei primi anni ’90, quando le sponde più incontrollate della destra repubblicana iniziarono a sovrapporsi al movimento della milizia, che era in ascesa – sempre in polemica con i «burocrati federali» e il «grande governo», abitualmente ferocemente critici di Washington come la remota, corrotta capitale imperiale, senza mai dire quale avrebbe potuto essere l’alternativa, senza mai ammettere che coloro che stavano a Washington vi erano inviati dai voti della gente e che se si era convinti che i rappresentanti eletti fossero sempre destinati a essere irrimediabilmente malvagi e incompetenti, allora si stava alla fin fine dicendo lo stesso riguardo alla democrazia in se stessa.

Considerato quel che ha fatto negli ultimi venticinque anni, il Partito Repubblicano non può certo alzare le mani in segno di disgusto verso Donald Trump. Egli sta solo portando alla sua logica conclusione una tesi che il partito stesso ha proposto a lungo, sebbene dietro la spinta in anni recenti del movimento del Tea Party – in sé un altro fiotto di populismo, che ha accusato Washington e chiunque vi stia di essere corrotti in modo innato.

E non sono solo parole. Per gli ultimi otto anni, i repubblicani del Congresso sonostati ampiamente espliciti nel dichiarare che la loro missione legislativa era il sabotaggio. Il leader del Senato Mtich McConnell ha detto chiaramente che il suo obiettivo chiave nel 2010 era di fare di Obama un presidente di un solo mandato. A guidare era uno sprezzo per l’essenza stessa del compromesso, per il negoziato, per il bilanciamento degli interessi e per lo stringere accordi – un disprezzo per la politica, di fatto. E così se un largo numero di americani hanno deciso che il governo rappresentativo non funziona, non è affatto un caso: una parte politica si è proposta di assicurarsi che non funzionasse. Tuttavia, sebbene Trump e le degenerazione repubblicana che lo ha reso possibile sono la manifestazione più vivida del fenomeno, non è affatto limitato a un partito o un paese. C’è uno spostamento evidente in tutto il mondo democratico.

In effetti, la misurazione dell’opinione pubblica in tutti i paesi dell’UNine Europea dell’Eurobarometer racconta una storia rivelatoria. Il disincanto europeo con il sistema democratico ha raggiunto un picco dopo il crollo del 2008, così come ha fatto negli Stati Uniti. Nel 2007 meno del 39% degli europei erano scontenti del modo con cui la democrazia funzionava nel loro paese. Nel 2009, dopo il crollo, il dato era salito al 45%. Questo sicuramente si deve in parte al fatto che il crollo e le sue conseguenze hanno mostrato i limiti della democrazia, perché ciò che ha colpito molte persone in quel periodo, compresi coloro che non si erano considerati particolarmente ingenui o creduloni, è stata l’impotenza dei propri leader democraticamente eletti di fronte alla tempesta finanziaria. L’idea che ci fossero banche che erano troppo grandi per fallire, che dovevano essere salvate senza badare al loro passato comportamento o all’immenso costo per il contribuente, l’idea che il governo fosse alla mercé dei signori dell’alta finanza, uomini che dovevano essere ricoperti di denaro per garantire la sopravvivenza economica del mondo – tutto questo giunse come un momento di brutale rivelazione.

Trump vignetta oL’epoca di austerità che è seguita è stata ugualmente rivelatrice. Agli elettori è stato detto che i loro leader avrebbero dovuto tagliare la spesa sulle scuole o gli ospedali o le strade – non importa quanto loro, gli elettori, fossero contrari a questi tagli – per poter placare gli dei senza volto dei mercati finanziari internazionali, che si sarebbero rifiutati di prestare a quei governi considerati deficienti di disciplina fiscale. Da Londra a Atene si è diffusa la sensazione nauseante che la sovranità non risiedesse esattamente dove gli elettori pensavano che stesse, che qualcuno di diverso dagli eletti fosse al potere. Improvvisamente gli elettori venivano messi a parte del piccolo sporco segreto della democrazia, quello espresso con rabbia dal presidente Bill Clinton quando, due decenni prima e apparentemente l’uomo più potente del mondo, si rivolse furibondo ai suoi consiglieri che lo avevano avvisato che doveva regolare i suoi progetti sulla spesa pubblica, per non irritare i mercati: «Mi state diendo che il successo del mio programma e della mia rielezione dipende dalla Federal Reserve e da un fottuto mucchio di agenti di borsa?».

Queste polemiche non erano una novità a sinistra. Gli analisti di sinistra avevano da tempo sostenuto che il potere si stava spostando, che le società che si estendevano attraverso le nazioni stavano diventando più potenti di qualunque governo nazionale, che le privatizzazioni di massa avevano lasciato i governanti senza il controllo di vaste aree dell’economia e delle infrastrutture alle quali nominalmente presiedono. Dopo il 2008 quell’impotenza non era più astratta, ma fin troppo visibile.

Ora il pubblico più vasto iniziava a sentire la sua stessa frustrazione all’apparente incapacità dei governi di domare il potere delle corporazioni o anche di ottenere che le multinazionali più grandi paghino le tasse. Gli elettori dicevano ai sondaggisti di essere furenti alla vista di governanti eletti che apparivano pateticamente riconoscenti quando realtà come GoogleStarbucks decidevano di pagare una modesta somma in tasse, offerta al modo di una donazione caritatevole, eseguita come se fosse un gesto volontario degno di lode.

Che si tratti di elusione fiscale, globalizzazione – nella forma di libero commercio, delocalizzazione e migrazione di massa – la sfida ancora maggiore del cambiamento climatico o il sempre crescente divario fra l’1% e il resto, la democrazia è giunta a sembrare impotente, incapace di proteggere le persone dalle forze che le affrontano. In Europa, Farage o Le Pen giocano su una rabbia simile sull’immigrazione, Farage sostenendo che la democrazia inglese è svanita – con il potere che si è spostato non nei consigli d’amministrazione aziendali, ma a Bruxelles.

E così la fiducia degli elettori nella democrazia è stata scossa. Si sarebbe potuto immaginare che il crollo avrebbe incanalato la furia in una direzione differente, che il colpo di frusta sarebbe stato contro il capitalismo piuttosto che contro al democrazia. E tuttavia forse troppi elettori credono che il sistema economico non possa essere cambiato, che non ci sia un’alternativa percorribile al capitalismo. nonostante tutto il successo di Sanders, la parola socialismo rimane difficile da piazzare negli Stati Uniti e nella maggior parte d’Europa. E si ritiene che le alternative da terza via associate a Bill Clinton e Tony Blair abbiano fallito anch’esse. Tecnocratiche e non ideologiche promettevano lealtà solo a ciò «che funziona». Ma considerato il modo con il quale si è permesso che le disuguaglianze si impennassero nel periodo del New Labour/New Democrat, troppi ne hanno concluso che «ciò che funziona» non funziona neanch’esso. E così viviamo in un’era nella quale un cambiamento radicale del sistema economico è giunto a sembrare del tutto impossibile. Nessuna meraviglia che gli elettori abbiano volto la loro ira invece contro la democrazia.

Ma non è solo l’economia che continua a divulgare le debolezze della democrazia. Le esplosioni a Parigi o Bruxelles terrorizzano gli elettori, non ultimo perché sembra che ci sia così poco che i loro governi possono fare per impedire a persone decise di uccidere altre persone negli spazi pubblici: stazioni, aeroporti, sale per concerti. È possibile che un governo tirannico intento alla repressione più dura non se la caverebbe meglio, ma l’attuale incapacità delle attuali democrazie liberali di sradicare questa minaccia sicuramente alimenta la fantasia del pugno di ferro che disperderebbe i terroristi con un unico colpo. È questa fantasticheria antidemocratica che Trump ha espresso in un tweet caratteristico dopo gli attacchi di Bruxelles: «Solo io posso risolvere il problema!». È grossolano e megalomane, ma la sua attrattività risiede nella frustrazione per le meccaniche lente, attente, ritardatarie dellad emocrazia. E questo è sicuramente ciò che Trump (e diversi altri populisti, Farage compreso) hanno in mente quando esprimono la loro non-così-segreta ammirazione per Vladimir Putin: ecco un uomo che porta a fine le cose. Perché Putin non è trattenuto. Non porta il peso della democrazia.

Trump vignetta iNon stiamo ancora vivendo in un mondo post-democratico. Ci sono ancora elezioni e la maggior parte di loro non sono ancora vinte da ricoltosi populisti – perlomeno non ancora. La struttura demografica in fase di mutamento degli Stati Uniti dice che questo varrà anche per Trump, sebbene in una sfida a due con un candidato così viziato e impopolare come Hillary Clinton si dovrebbe esitare prima di giocarcisi la camicia. Tuttavia, che vinca o perda, che un uomo come Trump sia giunto così lontano deve pure dire qualcosa. Vuol dire che il mondo non è più lo stesso che era.

Come appare il nuovo panorama? È un posto dove le istituzioni chiave della democrazia liberale – il parlamento, le università, la pubblica amministrazione, la stampa – sono considerati con profondo scetticismo, se non direttamente con cinismo. Laddove un tempo il dibattito pubblico avrebbe potuto concordare che si poteva confidare qualche organizzazione fra i mezzi di comunicazione, poniamo, dicesse la verità, ora non c’è nessuna ipotesi del genere. La parola della BBC o del New York Times non sarà solo discussa ma si presupporrà che sia falsa e ingannatrice, al servizio di qualche altro progetto proprio come tutto il resto degli odiati mezzi di comunicazione più diffusi, gli odiati MSM [main-stream media, NdRufus]. Questo sospetto è enunciato altrettanto appassionatamente alla sinistra come alla destra, ma l’effetto è nel mezzo. Ciò fa sì che quel terreno comune si ritiri un pochino ogni giorno, lasciando una nauseante sensazione che ci sia un posto comune sempre più ristretto nel quale ci si può trovare e dove possiamo condurre un dibattito pubblico in maniera civile, uno nel quale tutti concordiamo sui fatti di base.

Altrove, se gli elettori suppongono in maniera crescente che la democrazia sia impotente, essi si fideranno sempre meno di quei politici che provano anche appena a ispirare speranza. Ascolteranno invece, se pure ascolteranno qualcosa, coloro che sfruttano la paura. Con poche eccezioni l’ondata attuale di rivolta populista traffica tutta con la paura. La sola promessa che fanno è una impossibile da mantenere: proteggere i fedeli dal cambiamento, fermare il mondo per coloro che vogliono scendere.

Questo è il mondo di Trump e Le Pen e Orbán e Wilders. Non hanno bisogno di vincere per cambiare il modo con il quale il nostro mondo funziona. Non hanno bisogno di vincere per far inacidire di più il sentimento comune, per volgere le maggioranze contro quelle minoranze che sono più vulnerabili, per farci dubitare della possibilità di azione collettiva, per renderci cinici riguardo alla possibilità della verità.

Il miliardario stella dei reality TV non ha neppure bisogno di diventare presidente – perché stiamo già vivendo nell’era di Trump.

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