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Sull’eterno ciglio dell’americanata

Money Monster (Foster, USA 2016)

C’è un momento decisivo, più o meno a un terzo di Money Monster, in cui Jodie Foster dichiara le sue intenzioni allo spettatore.

A quel punto i parametri del dramma sono già stati abbondantemente delineati: c’è Lee Gates, analista finanziario a metà strada fra l’imbonitore da avanspettacolo e il grande giornalista, come solo la TV permette, che si trova, in diretta, in ostaggio di un risparmiatore tradito e rovinato. E c’è il consueto contorno di co-protagonisti: la curatrice del programma (un’ottima Julia Roberts) e i cameraman anch’essi prigionieri che si barcamenano fra condurre lo spettacolo dell’anno e portare a casa la propria pelle e quella di Lee; all’esterno la SWAT, il capitano della polizia duro e inflessibile e l’esperto negoziatore; il pubblico attonito, incuriosito, turbato; e infine tutto un giro di altri protagonisti del mondo finanziario in vario modo toccati dalla vicenda, soprattutto i manager della società che con le sue perdite ha scatenato la crisi.

Fino a quel punto, a parte l’ambientazione interessante dello show finanziario, è tutto molto ben fatto ma anche molto già visto.

In quel momento Lee guarda fisso in camera e, per togliersi dalla sua scomoda posizione, fa appello al suo pubblico, sperando che l’effetto mediatico e la sapiente manipolazione dei media di cui è esperto scatenino una reazione globale che risolva così, magicamente, la crisi finanziaria da cui tutto è partito e portando alla sua liberazione.

Addio, pensa lo spettatore appena scafato. Adesso parte l’americanata.

E invece non parte: la Foster sceglie un’altra strada, tiene alta la tensione e ci avvisa: siamo da un’altra parte, vuol fare un altro film. Da lì in poi, ogni volta che potrebbe partire l’americanata, come quando la fidanzata del sequestratore deve fare l’appello per invitarlo ad arrendersi, le aspettative tradizionali sono sempre tradite, platealmente. E questo naturalmente rende Money Monster un film molto più interessante.

Così interessante che può permettersi una buona quantità di osservazioni di costume, un discreto grado di cinismo, la possibilità di dibattere, sia pure superficialmente, opposti punti di vista sul ruolo della finanza nelle nostre vite e un finale (parzialmente) non consolatorio.

Il problema è però che, fondamentalmente, Money Monster resta, comunque, un’americanata. Un’americanata più fine, più interessante, più di classe, ma comunque un’americanata.

Lo so che americanata non è una categoria semiologica comunemente accettata.

Diciamolo meglio: sembra che la Foster e i suoi sceneggiatori abbiano l’aspirazione a mettere in scena un film che sia anche un’istantanea di questa epoca e una puntuta critica sociale (della TV, della finanza); magari a questa ambizione si accoppia anche una lettura della realtà e un certo numero di bersagli da mettere alla berlina con i quali non si può che concordare.

Ma tutto questo, alla fine, è trasposto dentro una struttura narrativa convenzionale, che si rivela non adatta: i personaggi sono tutti archetipici – il giornalista spregiudicato ma con un goccio nascosto di umanità, il cameraman fedele e disincantato, la curatrice dalla scorza ferrea, il capitano burbero e l’andamento della storia, abituale in tutti i film “d’avventura” – scontri ripetuti, intesa, crisi brillantemente superata, nuova crisi e scioglimento finale – è quanto di più tradizionale si possa immaginare. È chiaro che una struttura del genere, a prova di bomba, garantisce una gradevolezza e una fruibilità notevole: il personaggio del cameraman, per esempio, arriva a spiccare e ad affermarsi grazie a non più di quattro battute.

Ma è, al fondo, un linguaggio insufficiente rispetto alle ambizioni dichiarate, e non bastano a elevarlo le violazioni programmatiche dei luoghi comuni di cui parlavo all’inizio e una robusta dote di cattiveria profusa qui e là: anzi, è proprio la cattiveria evidente a cui si aspira a evidenziare come, complessivamente, il film non ce la faccia a portare a segno il colpo, come un pugile che al posto dei guantoni avesse un cuscino.

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