Modi giusti e sbagliati di aiutare le lavoratrici incinte
Ho visto oggi sulla Harvard Business Review un interessante articolo sulle condizioni migliori di lavoro per le donne incinte. Lo traduco perché lo trovo interessante e anche perché si tratta di un argomento del quale non ho mai parlato qui sul blog; resto però perplesso per un approccio del tutto psicologico strettamente interpersonale: anche considerando che l’orizzonte di riferimento sono gli Stati Uniti e che la normativa in materia di salute delle lavoratrici è sicuramente diversa, l’articolo si apre con l’affermazione sorprendente che l’80% delle lavoratrici rimane in servizio fino a un mese prima della data prevista del parto, senza che apparentemente questo abbia suggerito alcuna riflessione in termini di livelli di retribuzione, servizi medici e sociali, welfare e così via se non in un paio di occasioni di passaggio. Un po’ questo può suscitare riflessioni sulla capacità degli psicologi di illuminare fino in fondo determinate questioni con le loro sole competenze, un po’ mi ha fatto pensare che si dovrebbe sempre avere molta attenzione quando si “traducono” politiche di genere da un contesto all’altro, laddove oggi il dibattito in Italia sembra seguire in maniera pedissequa le linee di quello americano (si, sto pensando ai temi del linguaggio, dello shaming e del diritto di parola sulle questioni di genere da parte di chi si trova in posizione privilegiata, per citare i primi che mi vengono in mente).
Qui si trova la versione originale dell’articolo. Nella traduzione ho omesso soltanto i riferimenti lavorativi delle quattro autrici (cosa insegnano, eccetera) ma ho messo invece il link alle loro pagine sui loro vari siti universitari, dove sono reperibili le stesse informazioni se non di più.
I modi giusti e sbagliati di aiutare le lavoratrici incinte
Judy Clair, Kristen Jones, Eden King, Beth K. Humberd
Secondo uno studio del 2015 del Pew Research Center, lavorare mentre si è incinte sta diventando sempre più frequente. Nei tardi anni ’60 circa il 40% delle donne lavorava a tempo pieno durante la loro prima gravidanza; nel 2008 questo numero è salito fino a quasi il 60%. Lo studio ha riscontrato anche che otto donne su dieci (82%) hanno lavorato fino a un mese dalla data prevista del parto.
Le donne rappresentano ora circa metà dell’intera forza lavorativa. Sono una parte chiave della talentuosa forza lavoro di un’organizzazione. Tuttavia la gravidanza mentre si lavora può porre le donne in una posizione difficile. Le donne incinte possono essere etichettate in maniera negativa sul luogo di lavoro; sono viste come meno competenti e capaci e più irrazionali delle loro pari non incinte. Questo risultato è in accordo con la ricerca sulle madri lavoratrici, che sono descritte in maniera negativa come “accoglienti” ma “incompetenti”. Le donne in stato di gravidanza sono anche discriminate sul luogo di lavoro – vengono loro negate opportunità positive, non vengono promosse, e sono addirittura licenziate. Le donne sono spesso ben coscienti di questi rischi e l’esperienza e le aspettative di etichettatura e di discriminazione durante la gravidanza possono indurle con maggiore probabilità a lasciare il proprio lavoro dopo che la nascita.
Cosa possono fare quindi le organizzazioni? La risposta sembra in linea di principio piuttosto diretta: fornire alle lavoratrici un maggiore sostegno. E effettivamente le persone tentano di aiutare le colleghe incinte. Due diversi studi, uno una ricerca sul campo e l’altro una rassegna di interviste a donne lavoratrici in gravidanza, dimostrano che l’aiuto è offerto sia in maniera formale attraverso le regolamentazioni dell’organizzazione che in via informale dai colleghi. Tuttavia non abbiamo a disposizione una comprensione completa di quanto questo sia effettivamente di aiuto agli atteggiamenti delle donne nei confronti della carriera e alle loro scelte.
Per ottenere una maggiore conoscenza di questo argomento, abbiamo intrapreso un progetto di ricerca longitudinale (attualmente in fase di revisione presso una rivista accademica), nel quale centoventi donne lavoratrici incinte hanno compilato un questionario settimanale per parte della loro gravidanza, restituendoci più di milleduecento questionari completamente compilati. Abbiamo intervistato poi le donne nove mesi dopo il parto per verificare come l’aiuto ricevuto al lavoro durante la gravidanza avesse influenzato i loro atteggiamenti e aspirazioni riguardanti la carriera dopo il parto. Delle ottantacinque donne che hanno compilato il questionario di follow up, ottantuno erano tornate al lavoro.
Abbiamo rilevato che l’aiuto non ha aiutato le carriere delle donne. Di fatto più aiuto le donne hanno ricevuto al lavoro durante la gravidanza, più volevano lasciare il loro lavoro nove mesi dopo il parto. Inoltre, le donne che avevano ricevuto più sostegno al lavoro avevano anche sviluppato una visione maggiormente negativa di se stesse riguardo alla propria capacità di essere contemporaneamente buone lavoratrici e madri lavoratrici rispetto alle donne che dichiaravano di avere ricevuto meno sostegno sul luogo di lavoro mentre erano incinte. Quindi piuttosto che avere un impatto positivo sugli atteggiamenti e le scelte lavorative, avere ricevuto aiuto aveva avuto l’effetto opposto.
Perché il supporto alle donne durante la gravidanza dovrebbe avere un effetto negativo? Una teoria psicologica – chiamata il modello della minaccia all’autostima – offre una spiegazione: l’aiuto può essere particolarmente dannoso per individui che stanno lottando per dimostrare che sono pienamente capaci di avere le prestazioni della loro vita normale. In altre parole quando una persona è già preoccupata di non essere in grado di soddisfare le aspettative, ricevere aiuto conferma le paure e insinua il dubbio di stare in effetti rendendo meno del necessario.
I commenti qualitativi della nostra ricerca mostrano che le donne hanno effettivamente timori circa il proprio rendimento lavorativo durante la gravidanza. Prima di tutto esse fronteggiano diverse sfide per poter rendere normalmente: devono conciliare esigenze contraddittorie come le esigenze del lavoro con i vincoli della gravidanza (come visite mediche o necessità di riposare a letto) e i sintomi della gravidanza come le nausee mattutine o la stanchezza. Inoltre le donne vogliono mantenere la propria professionalità durante la gravidanza e molte tentano di evitare di segnalare che sono meno capaci o indipendenti rispetto al passato.
Secondo il modello della minaccia all’autostima, queste preoccupazioni e sfide pongono le donne in una condizione di profezie che si autoavverano. Quando si riceve aiuto le donne lo interpretano come il segno che non ce la possono più fare. L’aiuto può portare le donne a sentirsi più dipendenti dagli altri per riuscire a portare a termine i propri compiti e sentirsi meno capaci di svolgere il proprio lavoro a causa della gravidanza – anche quando non è così. Ci sono spesso sentimenti contrastanti perché le donne possono provare gratitudine per l’aiuto che ricevono, ma vogliono anche essere capaci di provare a se stesse e agli altri che possono fare il loro lavoro da sole.
Abbiamo rilevato che le donne apprezzavano positivamente l’aiuto fisico e pratico, come avere la possibilità di uscire i anticipo per una visita medica, ma erano meno entusiaste di altro tipo di aiuto, come quando avevano l’impressione che i colleghi tentassero di proteggerle o quando credevano che gli veniva negata l’opportunità di svolgere un lavoro sfidante. Questo risultato riflette una reazione negativa di tipo generale quando sul luogo di lavoro si sentono “protette” o gli si negano opportunità positive perché sono viste come più deboli o meno capaci. In maniera importante nel nostro studio l’aiuto sembra influenzare negativamente la visione delle donne di se stesse in maniera indifferente sia che sia stato accolto positivamente che nel caso contrario.
Questi risultati potrebbero spiegare come mai alcune donne sembrano scegliere di uscire completamente dal mercato del lavoro dopo aver avuto un figlio. Sebbene sia difficile stimare quante donne possano lasciare il lavoro a causa di questo, ricerche precedenti suggeriscono che le donne sono più inclini a lasciare quando si sentono incapaci di contemperare esigenze diverse. I nostri risultati mostrano che le donne che ricevono più aiuto dagli altri durante la gravidanza possono perdere fiducia nella propria abilitò di lavorare e contemporaneamente allevare i figli, il che le renderebbe più inclini a lasciare dopo la nascita.
Per essere chiari: questo non vuol dire che i lavoratori non dovrebbero tentare di aiutare le colleghe incinte. Ciò che conta è il modo con il quale il sostegno alle lavoratrici in stato di gravidanza aumenta, o piuttosto fa diminuire, la loro fiducia nella loro capacità di gestire le richieste dei luoghi lavorativi e non lavorativi. I dirigenti e i lavoratori dovrebbero assicurarsi che la loro offerta di aiuto non mandi alle donne dei messaggi involontari, per esempio che sono incapaci di conciliare esigenze contrastanti. E dovrebbero fare molta attenzione a non togliere lavoro o negare opportunità.
L’aiuto sarà più ben accetto quando giungerà in risposta alla richiesta di qualcuna, sarà negoziato con lei e incoraggerà l’autonomia invece che la dipendenza. Se le donne chiedono aiuto e concessioni, come un carico di lavoro più leggero o libere uscite per visite mediche, dovrebbe esser loro concesso. Ma le società dovrebbero cercare di capire che tipo di sostegno le donne desiderano di più. Per esempio, una donna nel nostro campione ricevette il permesso di uscire in anticipo per le visite mediche – ma non un carico di lavoro complessivo più leggero. Nelle sue parole: «Al momento mi sono sentita sopraffatta ma mi ha consentito di provare che posso gestire sia la gravidanza che il lavoro anche nei momenti più indaffarati».
Questo dimostra che il genere di aiuto offerto ha influenza nel rafforzare la fiducia delle donne nel fatto che possono gestire le sfide. Il sostegno alle lavoratrici in gravidanza non è un approccio a un metodo uguale per tutte e la qualità del supporto ricevuto quando si è incinte può fare la differenza nel mantenere al proprio interno il miglior talento lavorativo femminile. I dirigenti non dovrebbero avere ipotesi precostituite sul genere di aiuto che una lavoratrice incinta vuole o di cui ha bisogno – ma dovrebbero fare domande, tenere aperto il dialogo e essere aperti e flessibili sulle esigenze specifiche delle lavoratrici in gravidanza.