A Scivu, di nuovo
Non ho raccontato mai qui che nel fine settimana della festa di Tutti i Santi sono andato con Maria Bonaria a rivedere i posti del mio famoso campeggio adolescenziale a Scivu.
Anzi: è stata Maria Bonaria, dopo aver letto l’articolo, a propormi – a decidere – di andarci e organizzare tutto: una bellissima idea che dimostra qual è il cuore pulsante della nostra famiglia e della quale le sono molto grato.
Sono stati due giorni molto belli, benedetti fra l’altro da un tempo splendido – abbiamo fatto perfino il bagno, guarda un po’ – con un po’ di puntate in giro per la Costa Verde, fra Fluminimaggiore, Buggerru e Nebida, coccolati da Francesco Missoni a Fighezia e dai suoi vicini dell’agriturismo Majori quando una transumanza di motociclisti francesi ha occupato tutte le stanze e ci ha costretto a spostarci per la notte successiva.
E soprattutto abbiamo passato quasi un’intera giornata a Scivu, praticamente in beata solitudine: appena tre o quattro coppie di bagnanti per svariati chilometri di spiaggia. Ho ritrovato senza difficoltà il luogo del campeggio, ora ricoperto dai ginepri e mi sono aggirato per luoghi che riconoscevo istantaneamente pur non avendoli più visti da quarant’anni, quasi.
È stata un’esperienza piuttosto forte – per questo ne scrivo qua. Tutto cospirava: la solitudine, la bellezza straziante dei luoghi, il carico emotivo che mi portavo dietro, il fatto che tanti particolari fossero pressoché immutati, finché un po’ mi sembrava di provare un senso di straniamento.
C’è un film, non mi ricordo il titolo, nel quale uno sceriffo texano dei giorni nostri indaga su un fatto di sangue che ha scosso la sua cittadina ai tempi di suo padre, sceriffo anch’esso. A un certo punto il regista lo inquadra che, in un classico diner, allunga la mano verso una ciambella. La macchina segue la mano, c’è una transizione impercettibile e quando il campo si allarga nuovamente il locale è sempre più o meno lo stesso ma i presenti sono il padre – che con gli stessi atteggiamenti del figlio si mangia la ciambella – e altri avventori. Il tempo si capovolge, si riannoda su se stesso, verrebbe da dire: si ripete continuamente.
Quel che ho provato quel giorno, a Scivu, è un po’ lo stesso. Mentre camminavo sulla battigia mi sono immaginato la stessa transizione: la macchina che mi inquadra camminando, poi si sposta magari sui piedi, si sente una voce che mi chiama («Roberto!») e quando si riallarga il campo non è Maria Bonaria a chiamarmi ma Carlo, o Alberto.
Ecco: lo so che sono melenso, ma è un po’ quello che ho provato. Oppure potrei dire che mi sono immaginato di camminare fianco a fianco con il me stesso di quarantanni fa; e mi sono chiesto: se mi potesse vedere, cosa penserebbe di questo suo altro se stesso di mezza età? E io, che penso di quel ragazzino di tanto tempo fa?
Lo ripeto: sono melenso. Ma è davvero stata un’esperienza forte.
E del resto, prima di scuotere il capo per il rimbambimento sentimentale del vostro amichevole Rufus, guardate un po’ che posti.
In posti come questi, tutto può accadere.