Bolle culturali
Grazie a una segnalazione di Patrick Rothfuss ho visto sul New York Times (in realtà il sottosito Upshot che si occupa di statistiche) un articolo sulla diversa diffusione dei diversi telefilm e produzioni televisive nelle varie zone degli Stati Uniti.
Il risultato è riportato nella sintesi dell’articolo:
Gli americani si stanno aggregando in bolle culturali così come si sono aggregati in bolle politiche. Le loro preferenze TV lo confermano
il che, incidentalmente, è uno dei mantra della fase post elezione di Trump: «I cittadini, abitanti della Costa, istruiti, non hanno saputo prevedere Trump perché chiusi in una propria bolla culturale che non ascolta il resto dell’America». Che è una tesi buona come tante e che probabilmente contiene più di un grano di verità, ma che trovo sospetta per la sua pervasività: magari ripetere il mantra serve anche a non dire altre cose che non si sono fatte, oltre che non ascoltare: per esempio non scegliere un candidato impresentabile come la Clinton.
Per esempio.
L’articolo ha anche altri problemi: come spesso in questi siti di statistiche la sua metodologia non è affidabilissima e i risultati andrebbero presi con un po’ di buon senso:
Quando abbiamo controllato quanti utenti di Facebook con un determinato codice di avviamento postale avevano messo Mi piace a determinati show televisivi…
e quindi vale l’avvertenza che il campione è comunque distorto (non tutti sono su Facebook, non tutti gli utenti mettono l’area di residenza con precisione, manca l’indicazione del rapporto fra popolazione totale di quell’area e percentuale che usa Facebook, che può essere diversa da zona a zona) e che all’interno del campione ci possono essere all’opera ulteriori fattori distorsivi (non tutti mettono Mi piace in generale, per certi show magari lo si può mettere anche se non lo si guarda davvero e viceversa per certi ci si può vergognare di metterlo, soprattutto se non corrisponde ai gusti del proprio gruppo sociale).
Detto questo, il risultato è comunque interessante. Prima di tutto perché molti di questi show sono trasmessi anche in Italia, e magari ci sfugge il tipo di riferimento che ha ciò che guardiamo rispetto a un determinato pubblico americano, cioè chi è negli USA che ha i nostri stessi gusti. E in secondo luogo perché, pur con tutte le avvertenze del caso, sembra dire qualcosa di interessante sulle suddivisioni politiche e culturali degli Stati Uniti.
…abbiamo scoperto che i cinquanta show più popolari si concentravano in tre gruppi con diverse distribuzioni geografiche.
Nel loro insieme rivelano una frattura culturale fra tre grandi regioni: le città e i loro sobborghi; le aree rurali; e ciò che chiamiamo la Fascia Nera allargata – una striscia che si estende dal Mississipi lungo la costa atlantica fino a Washington, ma comprendendo anche centri urbani e altri luoghi con una forte popolazione non bianca.
La televisione, un tempo la grande unificatrice, ora amplifica le nostre divisioni.
Questo riflette la dimensione economica della televisione tanto quanto una cultura nazionale in via di frazionamento. Nel passato, fa notare James Poniewozik, principale critico televisivo per il New York Times, i programmi dei grandi network televisivi come «The Beverly Hillibillies rispecchiavano una dimensione economica nella quale i puri numeri dell’audience erano la cosa più importante». Ora gli introiti pubblicitari sono spinti meno dal volume complessivo dell’audience e più dalle variabili demografiche. Si fanno più soldi con la pubblicità, spiega Poniewozik, facendo riferimento a spettatori più giovani, più ricchi, e urbanizzati.
La cosa interessante, però, è che evidentemente sulla base dello stesso meccanismo (convenienza a rivolgersi a segmenti di pubblico specializzati) ci sono soldi, fama e possibilità di durare nel mondo dello spettacolo anche per chi si rivolge ad altre fasce della popolazione. E la lezione evidentemente, vale anche per la politica.
Non ho il tempo di tradurre tutto l’articolo. Ci sono cinquanta programmi TV di punta, ognuno con brevi spiegazioni che non dovrebbe essere difficile comprendere. Ciascuno può verificate per conto suo la tesi di fondo dell’articolo: a occhio ci sono altre bolle oltre quelle citate e quindi vale più l’idea di una crescente segmentazione cultural-sociale che non quella dell’opposizione città-campagna funzionale alla discussione politica post-Trump.