Ballata brechtiana
Ho finito oggi di leggere Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini (Mondadori 2016, € 24), il libro da cui è tratto lo spettacolo Lehman Trilogy, segnalatomi dal mio cugino Paolo, il grande libraio universale.
Devo dire che è un testo affascinante; Massini lo definisce romanzo/ballata, e si capisce: è tutto in versi liberi, con un andamento e un guazzabuglio di materiali che avrebbero reso felici Palazzeschi o Marinetti – a un certo punto ci sono sei pagine a fumetti, per dire, e quando si parla del maccartismo il testo acquista tutto un altro senso per la presenza di parole scritte in rosso – ma la struttura è robustamente narrativa e nella narrazione è il verso a predominare.
A me ha ricordato le ballate brechtiane – dopotutto Brecht è soprattutto un poeta drammatico, e questo testo è scritto già con l’occhio al teatro – e sarà anche per questo che mi è piaciuto tanto, anche se la somiglianza in realtà è probabilmente superficiale e non reggerebbe al confronto con il testo tedesco originale, che probabilmente ha tutta un’altra impostazione poetica. Devo dire che oggi sono andato a riprendere in mano Brecht e mi è+ sembrato del tutto diverso: eppure durante la lettura di Qualcosa sui Lehman il rihciamo era irresisitibile.
Il testo è diviso in tre libri (Tre fratelli, Padri e figli e L’Immortale), ciascuno composto a sua volta di diversi capitoli: data la diversità stilistica e di contenuto di ciascun capitolo in realtà sarebbe più esatto dire che non è una ballata ma una collezione di ballate.
Il primo libro va dall’arrivo in America nel 1844 di Henry Lehman, il fratello maggiore, fino al trasferimento dell’azienda a New York dall’Alabama delle origini, con la trasformazione definitiva da grossisti di materie prime in banchieri. Il secondo libro copre il periodo di sviluppo della banca a cavallo del cambio di secolo che coincide anche con l’avvento della nuova generazione familiare. Il terzo capitolo dal crollo del triumvirato dei primi tre figli subentrati nella gestione dell’azienda, attraverso la diarchia e poi il governo di un solo ramo, fino poi alla dissoluzione dell’azienda (che non è, come credono tutti, il grande fallimento di Lehman di pochi anni fa, ma l’acquisizione ad opera di American Express a fine anni ’80 (il finale, in realtà, è ambiguo). Rispetto al teatro, nel quale tutta la famiglia Lehman è riassunta in soli sei componenti (i primi tre fratelli, due figli e un nipote), qui c’è una selva di personaggi, spesso figure indimenticabili, che si alternano sul palcoscenico familiare.
Per raccontarli – e per raccontare un secolo e mezzo di storia americana: i Lehman, si scopre, hanno messo le mani dappertutto – Massini adopera una meravigliosa varietà di toni, che va dall’epico al malinconico, dal grottesco al gentile umorismo, e un procedimento di accumulo di metafore e di figure retoriche impressionante. Se non ci si perde la testa è perché, in realtà, sono fatte per aiutare il lettore: Dreidel è la trottola, Sigmund il coniglietto, Emmanuel il braccio, Meyer la patata; altrimenti vattelapesca a ricordarti chi è chi (anche se a me sarebbe piaciuto un albero genealogico alla fine, giusto per riassumere). Lo stesso vale per un processo di semplificazione delle vicende, spesso intricate da un punti di vista societario o storicamente complesse: l’invenzione fantastica aiuta Massini a risolvere icasticamente in poche parole cose che altrimenti avrebbero richiesto un libro a sé per ciascuna.
Una delle cose che mi ha più sorpreso è stato osservare quanto l’opera teatrale – che pure dura sei ore – abbia riassunto e scorciato i libro, che si presenta quindi, per certi aspetti, come un deposito di materiali narrativi grezzi pronti per essere utilizzati: suggerirei agli amici attori e teatranti di meterci le mani dentro, e magari un monologo dedicato, che so, a Arthur o a Sigmund Lehman ci può scappare. D’altra parte se l’esigenza di rendere maneggevole il materiale è comprensibile, le scelte fatte a teatro (non so se di Ronconi o dello stesso Massini) danno alle varie parti del racconto un equilibrio che nel libro è palesemente diverso, enfatizzando per esempio il lungo regno di Bobbie (che nel libro occupa mi pare meno spazio, e soprattutto lo snaturamento finale quando la banca cade in potestà d’estranei, che nel libro è riservata agli ultimi due capitoli.
Il che naturalmente ci porta al confronto, inevitabile, fra libro e teatro. Qual è più bello? Ovviamente non vale rispondere: sono diversi, ognuno a suo modo, che è vero ma forse un po’ vigliacco. A teatro il verso di Massini, la sua tessitura continua di rimandi incrociati, di parole e espressioni ricorrenti, come è proprio di un patrimonio di memorie, una saga e un lessico familiari, acquista una forza che, temo la parola scritta da sola non ha: me ne rendo conto nella lettura al confronto fra i capitoli che sono entrati nella versione teatrale rispetto a quelli che sono rimasti fuori – i primi ovviamente hanno una forza molto maggiore. Non è solo questo: a teatro i fili narrativi erano (quasi) tutti portati a compimento, mentre nel libro alcune cose svaniscono sullo sfondo e si ha l’impressione che l’invenzione di Massini non l’abbia sorretto fino in fondo (d’altro canto è la famiglia, e le famiglie hanno le loro storie: se a un certo punto un filo si interrompe si è interrotto e non c’è niente da fare, con buona pace del narratore). D’altra parte il libro ha a suo vantaggio l’ampiezza ondivaga, il getto continuo di invenzioni, la maggiore complessità e un affresco molto più soddisfacente di centocinquant’anni di storia americana: direi che questo è abbastanza salomonico da giustificare il suggerimento di leggere il libro e anche, appena possibile, recuperare l’opera a teatro.