La morte, soprattutto
Ho trovato per caso un articolo di un anno fa del National Geographic che si chiede perché muoiano tanti BASE jumper, cioè quegli atleti che si lanciano da postazioni fisse (BASE è un acronimo che indica i luoghi dai quali ci si può lanciare: edifici, antenne e torri, ponti e, infine, scogliere o rilievi montani). Originariamente lo sport prevedeva l’uso di paracadute, ora sempre più spesso si usano anche le tute alari.
Si tratta di uno sport estremo e penso che diversi che leggono abbiano avuto un moto magari di stizza: come, perché ne muoiono tanti??i Casomai uno si dovrebbe chiedere come mai non ne muoiano di più!
Il fatto è che non è così semplice. Per esempio ho scoperto che la tuta alare, usata con lancio da un aereo, è piuttosto sicura: è l’uso sportivo ed estremo che comporta un gran numero di incidenti. Quindi l’idea che l’aumento di morti dipenda dal fatto che progressivamente nel BASE il paracadute è stato sostituito (cioè integrato) dalla tuta alare è ovviamente vero, ma va specificato.
L’articolo è un tipico pezzo di (buon) giornalismo d’analisi anglosassone: riunisce raccolte di dati, interviste e il racconto di casi concreti – ed è estremamente ben scritto. Ma la complessità della questione lo tormenta: gira intorno senza poter dare risposte definitive. La base di praticanti dello sport è aumentata, quindi un aumento delle morti è statisticamente comprensibile, giusto? Soprattutto perché si pensa che ci sia un gran numero di persone che si improvvisano con poca preparazione, no?
Già, però il fatto è che alcune delle morti più recenti sono di praticanti espertissimi, veri e propri campioni della disciplina.
Allora dipende dal fatto che i confini sono spinti sempre più avanti? Che è necessario essere sempre più audaci, puntare a prestazioni sempre più estreme? Il progredire di cui si parla nella comunità, il fare cose sempre più difficili, comporta semplicemente l’avvicinarsi più speditamente alla morte, come sembra sostenere una delle più forti atlete esistenti?
C’è un limite a quanto vicino si può volare, specialmente se hai il terreno sotto di te. A un certo punto, andare avanti comporta sbattere sul terreno – è per questo che non vedo questo tipo di volo come una progressione. Abbiamo avuto una discussione costante sulla progressione nel BASE con le tute alari. Penso che possa essere che stiamo usando la definizione sbagliata. Forse la progressione implica qualcosa di molto differente. Forse vuol dire raffinare l’esperienza, diventare più sicuri, più eleganti e più consapevoli. Forse vuol dire sostenibilità.
E però si nota che molti degli atleti esperti che sono morti sono caduti durante l’allenamento, o in voli considerati sicuri, non nelle loro prestazioni più difficili.
In questo suo girare e dibattersi, l’articolo svela perle notevoli. Come la citazione qui sopra: potete immaginare che la parola sostenibilità, anche in un giro di parole inaspettato come sport estremo sostenibile, possa colpirmi. Ma ci sono anche altre cose: per esempio chi parla è una donna; la maggior parte di chi fa BASE sono uomini giovani, che magari ragionano un po’ di più degli altri col testosterone: ci sarà una qualche sensibilità di genere diversa nello sport, che spinge a praticarlo in maniera più o meno fatale? Anche qui, non è proprio uno sport estremo il luogo più ovvio per ragionare di generi, eppure forse ci si può scoprire qualcosa.
In realtà oltre al testosterone ci possono essere motivi più prosaici che spingono a prestazioni sempre più estreme: il BASE jumping è uno sport che sembra fatto apposta per le riprese video e per la pubblicità (fin dal povero de Gayardon, no limits e l’orologio), e molti atleti hanno contratti con l’una o l’altra azienda che associa la propria immagine alle loro prestazioni eccezionali: è chiaro che non puoi proporre alla tua azienda qualcosa che fanno anche tutti gli altri: ti devi distinguere e distinguersi vuol dire avvicinarsi sempre qui al limite – e come detto copra, il limite corrisponde all’impatto finale.
Ci sono un paio di passaggi nell’articolo molto interessanti, sotto questo punto di vista, perché permettono di ragionare sui meccanismi economici della società dello spettacolo: per esempio la Clif Bar, che fa barrette energetiche e altro cibo per sportivi, ha ritirato la sua sponsorizzazione ai suoi BASE jumper e free climber: vedo che adesso sul suo sito ci sono immagini di surfer e fra gli atleti testimonial soprattutto corridori e ciclisti. Ma altre aziende, almeno alla data nella quale l’articolo è stato scritto, insistono o anzi entrano nel mercato: c’è una battuta notevole di un pubblicitario intervistato che dice, sostanzialmente, che nel lungo periodo sarà il bilancio fra il rischio di un ritorno negativo nel caso di una morte celebre (l’avete voluto voi! L’avete pagato perché morisse!!) e il vantaggio di essere associati a imprese estreme che portano a milioni di visualizzazioni su YouTube che deciderà il futuro:
Viviamo in un mondo dove le doppie morali abbondano. È il saper gestire i due lati di questo rischio ciò che ogni marchio vive al giorno d’oggi.
Vale per la decisione di sponsorizzare un BASE jumper come per quella di usare una materia prima che viene dal Sud del mondo o per qualunque altra cosa.
Ma soprattutto quello attorno a cui gira tutto l’articolo è la domanda di fondo: perché uno fa uno sport dove potrebbe morire? Meglio: dove probabilmente morirà?
Anche qui ci sono risposte ovvie che però non funzionano. È molto interessante leggere, ripetutamente, testimonianze sull’incredibile esperienza adrenalinica data dal volo pressoché libero realizzato con la tuta alare. Però i racconti ottocenteschi narrano di sensazioni simili date dalla roulette russa, eppure questa non si è mai affermata come sport di nicchia per una fascia di uomini giovani e prestanti desiderosi di mettersi alla prova. Risposta ovvia: ai tempi i giovanotti avevano la guerra, a disposizione, e i duelli, con riconoscimenti sociali maggiori della roulette russa. Temo che dire così sia un tantino superficiale e comporti una conoscenza dell’800 più da Conte di Monte Cristo che da libro di storia serio, però il segnale esiste: gli sport estremi – molto estremi – sono in crescita, i frequentanti sono principalmente giovani uomini, ci sarà qualcosa nello spirito del tempo che lo può spiegare andando oltre il discorso banale della botta adrenalinica: il bisogno di affermarsi come maschi alfa? la creazione di comunità autoreferenziali nelle quali la percezione del rischio o della realtà della vita sono (parzialmente?) distorte? La spettacolarizzazione crescente di ogni aspetto della vita, il che ci riporterebbe alle dinamiche economiche già citate? La rivincita di una aspirazione eroica che altri contesti sociali reprimono?
Mi sono fatto un giro sul sito della BASE Fatality List, che raccoglie i dati di ogni incidente mortale a fini che sono sia commemorativi che educativi: sono indicati i problemi riscontrati, le attrezzature usate, le condizioni meteo e l’ora del giorno e le cause dell’incidente. Fra gli altri ho trovato il caso di due jumper morti assieme: lei ha mancato il punto d’atterraggio ed è finita oltre, nell’oceano, dove la presenza del paracadute ovviamente l’ha messa gravemente in difficoltà. Lui è atterrato, si è tolto l’attrezzatura e si è lanciato in mare: sono morti tutti e due. Correttamente il database segnala che in caso di emergenza la priorità è quella di non mettere in pericolo anche se stessi, per non complicare ulteriormente le operazioni di soccorso – peraltro i due erano da soli in un posto deserto. Poi, però, aggiunge mestamente che è da azioni come quella di lui che nascono le leggende. Viviamo in un’epoca poco eroica, forse, e abbiamo difficoltà a comprendere il sentire di una comunità per la quale invece questa è una dimensione quotidiana e la considerazione della morte molto diversa da quella usuale?
A proposito di considerazione della morte e percezione del rischio l’articolo nota che questa non è, per i praticanti, evidentemente simile a quella degli osservatori; ritornano più volte espressioni del tutto simili a quelle di Guccini
Quando si è giovani è strano
poter pensare che la propria sorte
venga e ci prenda per mano
e l’impossibilità dell’idea che, fra tutti, debba toccare proprio a te è probabilmente una delle spiegazioni più forti del perché uno sport rischiosissimo continui a essere praticato. Ma in realtà non è solo questo: gira gira saltano fuori molteplici dimensioni di negazione della morte
Non sono sicura del perché la nostra cultura in generale sembri pensare che le persone vivranno per sempre o che le persone possano vivere per sempre e che possa in qualche modo essere possibile cancellare tutto ciò che possa inavvertitamente causare la morte. La morte è parte della vita.
È vero in molti sensi: il video eccezionale di un famoso jumper, morto nel frattempo, continua a fare milioni di visualizzazioni su YouTube: non è gusto del macabro, è rimozione. Ma anche la BASE Fatality List, con le sue discussioni tecniche degli incidenti, talvolta non sembra adeguata alla gravità delle situazioni che racconta, come se correggendo tutti gli errori fosse possibile azzerare le morti: il problema invece è che nel mondo gli errori sono una situazione ineliminabile, e qui la situazione è tale che l’esito probabile di un errore anche minimo è fatale. Anche questo dice molto della nostra società: ci sono tanti campi nei quali dei paradigmi tecnocratici impongono scelte sociali rischiosissime nella convinzione che non possa succedere niente. Solo che poi succede.