Zeus bless America
Sto leggendo il primo libro della serie di Percy Jackson, Percy Jackson and the lightining thief.
Non avevo mai frequentato prima la serie (ho anche visto solo spezzoni dei film, senza peraltro rimanerne troppo impressionato) ed ero convinto che fosse materiale young adult: invece sono rimasto stupito nello scoprire che si tratta palesemente di letteratura per ragazzi.
Sotto questo punto di vista la trovo veramente tirata via: o forse non tradisce scarso impegno quanto piuttosto cattiva qualità punto e basta, tanto che non posso che chiedermi come possa aver avuto tanto successo (magari è un effetto di ritorno che dipende dai film, non so, oppure quello che piace ai preadolescenti è il tono di disincanto con il quale Percy racconta la sua storia).
D’altra parte la sto prendendo come l’occasione per confrontarmi almeno una volta ogni tanto con la letteratura per ragazzi, e leggendo mi sto convincendo che tutto sommato Harry Potter ha avuto un effetto negativo sul genere.
Mi spiego: fino agli anni ’90 la letteratura fantastica per ragazzi si divideva in tre categorie. C’era quella che era semplicemente una versione alleggerita e semplificata del fantasy per adulti e come tale aveva confini abbastanza labili, nel senso che non si capiva bene al di sotto di quale età dovesse iniziare e fino a quando la si potesse leggere (viene alla mente Terry Brooks, ma oggi Licia Troisi è equivalente).
Poi c’erano due linee di sviluppo della fantasy propriamente per ragazzi. Una, che viene da Peter Pan e passa per Narnia, è sostanzialmente la versione letteraria del facciamo finta e delle partite a guardie e ladri o ai cowboy; i ragazzini protagonisti delle storie sono eccezionali e giocano ruoli da adulti, sono trattati come tali dai comprimari e affrontano problemi da adulti: battaglie, cerche magiche o problemi di tipo politico; è la stessa logica di Tintin o dei mille e mille piccoli investigatori dei Gialli per ragazzi della nostra infanzia. Sono storie di taglio realistico, per quanto lo consente l’ambientazione, e la psicologia dei personaggi da una parte e la fisica del mondo sono i nostri; d’altra parte non importa a nessuno: è evidente che ciò che conta è per il lettore il piacere di annullare le distanze di età e perché questo sia efficace è meglio che ciò avvenga in un contesto ben definito e riconoscibile.
La seconda categoria, invece, vede dei bambini normali affrontare l’irruzione del fantastico nella loro vita e nel loro ambiente quotidiani (un venerando antenato è Mary Poppins), oppure le cose inanimate prendere vita o gli animali farsi protagonisti (penso al Dottor Doolittle), o altri meccanismi fantastici simili: qui è chiaro dall’inizio che siamo in un campo favolistico dove tutto è possibile, e spesso il piacere della narrazione e dell’invenzione prende il sopravvento sulla credibilità delle situazioni e sulla coerenza interna del mondo. I bambini, in questa seconda situazione, non devono fare i piccoli adulti: come mostra bene Roald Dahl (o il Gaiman di Coraline) lo scopo di queste storie non è annullare la distanza d’età ma affrontare e sconfiggere, trasfigurate, le paure dei bambini, nella loro età e condizione di bambini, non nella loro proiezione verso il futuro.
La Rowlings con le storie di Harry fa un’operazione che mette insieme queste due tradizioni e le trasfigura. Apparentemente siamo nel campo nel quale il fantastico fa irruzione nella vita normale e porta il bambino altrove: la scena iniziale di Harry Potter e la pietra filosofale con gli animali che parlano fra loro davanti alla casa di Privet Drive è puramente favolistica e i temi iniziali (la paura dell’abbandono, l’amicizia, la scuola, il babau) sono le paure di tutti i bambini. Ma il trattamento che la Rowlings ne fa, fin dal primo volume, è realistico: l’Inghilterra di Harry Potter è la stessa nostra Inghilterra, Hogwarts è una riconoscibilissima scuola inglese d’élite, le meccaniche sociali che la muovono sono quelle di una scuola d’élite, il modo dei maghi è il nostro stesso mondo con tutte le caratteristiche sociali, psicologiche e di funzionamento del nostro mondo; man mano che i volumi si susseguono sempre più ci si accorge che l’ambientazione fantastica è puramente cosmetica: se gli alieni dei film di fantascienza degli anni ’50 erano semplicemente uomini con lo scafandro, il mondo di Harry Potter è l’Inghilterra con la bacchetta magica, tanto è vero che se si riscrivesse Harry Potter come ambientato in una scuola per nobili e figli di magnati, in un ambiente nel quale poche grandi famiglie decidono i destini del mondo, funzionerebbe lo stesso.
Nella serie di Harry Potter man mano che si va avanti i limiti dell’operazione della Rowlings emergono sempre più, compresi i difetti di costruzione del mondo: il disprezzo per la coerenza interna tipico del filone favolistico non si adatta bene al racconto realistico, per esempio; però la Rowlings è brava e riesce a tenere fino in fondo, sostituendo con intelligenza i temi più legati alle paure infantili con quelli da piccoli adulti e con la trama avventurosa: i maghetti della scuola vincono la guerra a fianco ai loro genitori, giocandosela da pari a pari.
Riordan non è altrettanto bravo, e dimostra tutti i problemi che la fusione di favola e realismo comporta nelle mani di un autore malaccorto: l’irruzione del fantastico nella vita di Percy è poco interessante, il suo mondo alternativo piattamente simile al nostro, il tono fantastico privo di qualunque ricaduta interessante sul nostro mondo reale, l’inevitabile quest richiede molta pazienza da parte del lettore (tra l’altro Riordan si esibisce nell’ennesima variante del caso del Mago Potentissimo Ma Casualmente Troppo Impegnato Per Salvare Il Mondo Quindi Ci Penserai Tu, Piccoletto: con bizzeffe di divinità dell’Antica Grecia disponibili il compito ricade sul ragazzino appena arrivato perché, uhm, c’è una profezia…). Probabilmente cosciente dei limiti della sua operazione, Riordan mette le mani avanti: Percy, che fa il narratore, è il primo a non crederci ed è questo il tono disincantato che probabilmente piace ai ragazzi ma che per qualunque altro lettore è insipido.
Hail Zeus
In realtà tutto questo discorso è solo una premessa che mi ha un po’ preso la mano: quel che volevo raccontarvi è che, sorprendentemente in un libro che evidentemente si pone altri obiettivi, c’è un passaggio così smaccatamente nazionalista – e anche un po’ razzista, mi pare – che lascia piuttosto sorpresi. Quando Percy arriva finalmente al sicuro e incontra Chirone mostra stupore all’idea che gli dei siano ora in America. Il centauro risponde con un discorso che non stonerebbe in bocca al professore Dubois di Fanteria dello spazio, se non fosse che Dubois non era ignorante (la traduzione è mia):
«Intendi dire che gli dei Greci sono qui? Cioè… in America?»
«Ma certamente. Gli dei muovono con il cuore dell’Occidente».
«Il cosa?»
«Dai, Percy, sforzati. Ciò che chiami “civiltà occidentale”. Credi che sia solo un concetto astratto? No, è una forza vivente. Una coscienza collettiva che ha bruciato luminsamente per migliaia di anni. Gli dei ne sono parte. Si potrebbe perfino dire che ne sono la fonte, o almeno che gli sono così strettamente legati che essi non possono assolutamente svanire, non a meno che tutta la civiltà occidentale non sia cancellata. Il fuoco fu acceso in Grecia. Poi, come sai bene – o come spero che tu sappia, visto che hai passato il mio corso – il centro della fiamma si è spostato a Roma, e così pure gli dei. Oh, diversi nomi, magari – Giove per Zeus, Venere per Afrodite e così via – ma le sesse forze, gli stessi dei».
«E poi sono morti».
«Morti? No. È morto l’Occidente? Gli dei si sono semplicemente spostati, in Germania, in Francia, in Spagna, per un po’. Laddove la fiamma era più intensa, là erano gli dei. Hanno passato diversi secoli in Inghilterra. Tutto quel che ti serve è guardare all’architettura. La gente non dimentica gli dei. In ogni posto dove hanno dominato li puoi vedere nei quadri, nelle sculture, negli edifici più importanti. E sì, Percy, naturalmente adesso sono in America. Guarda al vostro simbolo, l’aquila di Zeus. Guarda alla statua di Prometeo al Rockfeller Center, le facciate grecizzanti degli edifici governativi a Washington. Ti sfido a trovare una città americana dove gli Olimpi non siano mostrati con evidenza in una varietà di luoghi. Che piaccia o no – e credimi, molti non amavano particolarmente neanche Roma – l’America è ora nel nucleo centrale della fiamma. È il grande potere dell’Occidente. E noi siamo qui».
Mah, non mi trovo d’accordo, anche perché ho riletto da poco i primi cinque libri – gli unici che ho – dunque sono un po’ fresco…
Per cominciare, i libri su Percy sono scritti con una capacità tecnica maggiore rispetto a quella mostrata dalla Rowling (ma non escludo che possa esserci un’influenza di una traduttrice più abile).
Il punto di vista è ben saldo sul narratore – cioè Percy: un dodicenne, all’inizio della storia, con problemi scolastici dovuti a deficit di attenzione, iperattività e dislessia provocati dal suo essere un semidio.
Un underdog per il mondo umano, ma con un certo numero di poteri che gli permette di giocarsela con gli altri underdog come lui, nel mondo del mito.
Sono queste fragilità umane, probabilmente, che hanno reso la sua saga popolare presso gli adolescenti, che da che mondo è mondo tendono a sentirsi fuori posto per tanti motivi: sentimenti nuovi o diversi da capire; insofferenza verso l’autorità di persone che l’adolescenza spesso non se la ricordano (adulti) se non come una bizzarra età dell’oro mista all’Inferno dantesco; il corpo che cambia, non sempre nel modo desiderato; le responsabilità che aumentano, comprese quelle che uno non desidera; i cambiamenti dei rapporti famigliari, magari dovuti a separazioni e divorzi, con famiglie allargate (e Riordan ha scelto di gestire il Dodekatheon come la più allargata e disfunzionale tra le famiglie, considerando che ogni volta che nasce un semidio, c’è una divinità che non rispetta i vincoli coniugali e ne vengono fuori parentele sbilanciate, tipo Percy che è cugino di Ares).
Riguardo al fatto che gli dei stiano in panciolle mentre gli eroi si fanno il mazzo, accade perché gli dei non possono agire quando pare a loro: rispondono a leggi che li vincolano – viene detto in altri libri – comprese quelle del Fato, a cui anche le divinità devono piegarsi (e alle profezie dell’Oracolo di Delfi non si sfugge, non perché sia il potere dell’Oracolo, ma perché così viene decretato dal Fato, una forza cosmica che anche nel mito non aveva rivali).
Certo, ogni tanto, nella storia, gli dei fanno qualcosa, ma per lo più si tratta di piccoli interventi, a volte perfino sottili, almeno fino a quando un semidio decide di sfidare un dio per qualche motivo: nei romanzi, i semidei sono a metà tra i due mondi e questo permette loro maggior spazio di manovra, ma li rende soggetti ai pericoli di entrambi gli ambienti.
Il mondo parallelo del mito, sin dal periodo antico, era simile a quello umano e tale rimane oggi, nei libri: nelle forme esteriori, gli esseri mitici sono cambiati come le società umane nel corso dei secoli – anche se la scelta, ne sono sicuro, è almeno in parte dovuta alla volontà di creare un effetto ironico, tipo le scarpe da ginnastica alate di Hermes o Ares che sembra uno degli Hells Angels, con la moto al posto del carro da guerra.
Per il resto, gli dei, nonostante i poteri assurdi, sono delle persone, non divinità assolute e inconoscibili, o aliene: hanno brame umane, debolezze umane etc., in modo non troppo diverso dagli dei del mito classico.
Riguardo allo spostamento del centro di potere in America, non credo che si possa negare che gli USA abbiano un peso politico o economico osceno, a livello internazionale, sebbene sia da molto tempo che si avvertono degli scricchiolii e ci sia più di un concorrente o potenziale erede all’orizzonte: io non ci vedo né una posa nazionalista, né razzista, la storia è ambientata negli USA con personaggi statunitensi ed è certamente più comodo che i riferimenti mitologici si siano spostati dal Mediterraneo agli USA e dintorni.
Lo spiegone di Chirone ha una sua logica, al limite si può discutere della coerenza di piazzare l’Olimpo a New York, città certamente importante ma non quanto Washington D.C., la capitale del paese… che NY sia più trendy?
Per chiudere questo papiro – scusa se mi è mancata la capacità di sintesi – i libri, scritti tutti più o meno allo stesso livello, hanno un’impronta assai kitsch (azzarderei persino simpsoniana. Una mia amica usò l’espressione mitoclasta in riferimento ad altre storie, ma va bene anche per Percy): sacrificano l’eleganza in favore di una certa ironia che può o meno piacere, non ha il tono aulico dell’epica classica ma ha la scorrevolezza dell’epica dei supereroi, il che lo ha certo reso altamente vendibile.
Come young adult li ho apprezzati, sono libri scorrevoli che dipingono un mondo vitale e colorato in modo un po’ ironico, con il bonus del mito greco, che mi piace sin da bambino.