Specchi riflessi da Jane Austen all’Australia
Une delle scoperte di questo primo mese di sperimentazioni su Netflix sono i telefilm polizieschi Miss Fisher’s Murder Mysteries, serie australiana basata (con notevoli ibertà, credo) sui romanzi con protagonista Phryne Fisher della scrittrice Kerry Greenwood.
Io e Maria Bonaria ce li siamo guardati con molto piacere, anche se la cosa buffa è che andando avanti nella visione, in realtà, emergono una serie di difetti: mi aspettavo maggiore approfondimento dei personaggi, magari, oppure meno sbrigatività nella gestione delle trame, per non parlare di una certa grossolanità nella costruzione dei meccanismi del giallo e di una serie di improbabilità narrative sparse con mano generosa. Il cattivo della prima serie è una specie di Hannibal Lecter in sedicesimo, davvero banale. E anche l’interesse dell’ambientazione – Australia, anni ’20! – scompare abbastanza presto dietro l’impressione di citazioni doverose che tuttavia non vanno mai a fondo: forse sono io che non colgo bene eventuali richiami al passato nazionale – e panorami, luoghi – che per gli spettatori australiani possono essere evidenti, ma tutto mi sembra un po’ ingessato: nell’ultima puntata che ho visto, per esempio, compaiono temi che erano veramente importanti all’epoca: il trauma della guerra con il quale fare i conti e, in collegamento, le sedute spiritiche e la passione dilagante per l’occulto (ho già raccontato della inaspettata adesione di Conan Doyle) con tanto di medium con misteriose origini nell’est europeo (la Madame Bolkowsky dell’episodio ricorda parecchio Madame Blavatsky), gli obiettori di coscienza, gli invalidi da iprite e molte altre cose; eppure tutto appare convenzionale e piuttosto freddo, come se ci fosse un grande lavoro di documentazione affidato però a uno sceneggiatore al quale del tutto interessa il giusto, cioè poco. Non parliamo di come è stato sconciato il tema della passione dilagante per l’egittologia.
In parte dipende, ed è anche la chiave del successo dello show, dal fatto che il personaggio di Phryne Fisher, nella ottima interpretazione di Essie Davis, si mangia praticamente tutto il resto del cast, della storia e dell’ambientazione; è un’arma a doppio taglio, ovviamente: è sufficiente a garantire il successo della serie ma contemporaneamente la indebolisce e ne fa emergere i difetti, quando ci si rende conto che tutto il resto, a parte l’interpretazione di Nathan Page, un ottimo ispettore Jack Robinson, non è all’altezza: una cosa curiosa che raramente mi è capitato di vedere.
In realtà però non è di questo che volevo parlare, ma del fatto che la serie me ne ricorda irresistibilmente un’altra, e cioè quella di Castle. E trovo interessante la somiglianza perché in realtà le due serie si riflettono curiosamente a vicenda, invertendo il genere dei personaggi principali, cioè Castle/Beckett e Fisher/Robinson. E facendolo dicono abbastanza di come gli sceneggiatori lavorano, di come ci immaginiamo le storie e di cosa pensiamo dei ruoli maschili e femminili in vari campi, dal crimine alla camera da letto. Non è una cosa nuova: è una operazione che Jane Austen fece scientemente, capovolgendo la sua storia più famosa, cioè Orgoglio e pregiudizio, e mettendo nel ruolo di Darcy una donna; il risultato sarà Emma, e tanto di cappello.
Però di tutto questo parlerò domani, se no tutto diventa troppo lungo e molto amici già si lamentano della mia prolissità sul blog. Domani torniamo a parlare di Miss Phryne, Castle e Beckett, la signorina Austen e i suoi personaggi e le differenze di genere (wow!!) e del perché il motivo del successo di Miss Fisher’s Murder Mysteries probabilmente sta in questo intreccio. Promesso!
Promesso: quando mai ho detto che avrei completato un articolo il giorno dopo e poi non l’ho fatto?!
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