Dieci dischi fondamentali… più uno
Nei giorni scorsi ho partecipato a una delle classiche catene su Facebook: si trattava di elencare in dieci giorni dieci dischi fondamentali della propria vita. La cosa si sommava a qualche discussione familiare successiva alla visione di una successione di puntate de I miei vinili.
E insomma, mi sono lasciato convincere e ho provato a tirar fuori l’elenco dei miei dieci dischi più formativi, quelli, come diceva un po’ pomposamente la catena, che mi hanno cambiato la vita.
È stata un’operazione divertente e anche interessante, come sono sempre queste esplorazioni dei ricordi. Intanto mi sono reso conto che, da ragazzi, ci piaceva (molto) la musica ma non eravamo proprio appassionati: le nostre collezioni non erano enormi – in molti casi, anche per dischi considerati imprescindibili, ci si accontentava che li possedesse un amico, tanto per l’ascolto ciascuno si portava dietro i propri quando ci riunivamo a casa dell’uno o dell’altro. Certo giocava non dico la povertà, ché propriamente poveri non eravamo, ma comunque una certa sobrietà generale: quelli che collezionavano molti dischi avevano una monomania e una tendenza a concentrare su quello tutte le risorse che ci era abbastanza aliena. E, siccome la scarsità di risorse era anche nelle disponibilità dei negozi ai quali potevamo arrivare, questo vuol anche dire che spesso si facevano scelte non tanto artistiche quanto dettate dalla necessità: le compilation come modo economico per acquisire molte belle canzoni di un artista, a preferenza di seguirne il percorso artistico passo passo, oppure l’ultimo disco uscito, a preferenza di un altro più bello, semplicemente perché in negozio c’era quello e l’altro non si trovava altrettanto facilmente: gli acquisiti integrali, credo, nella vita mia e di Iole e di tanti altri amici sono stati limitati a pochissimi cantautori italiani, e anche loro con molte eccezioni.
Ritornare su queste abitudini di acquisto e di condivisione mi ha anche fatto pensare alla dimensione specifica che l’azione di ascoltare un disco (e, a cascata, anche quella di seguire un cantante). Come è giusto che sia la maggior parte dei dischi che o proposto risalgono all’adolescenza e alla giovinezza. Un po’ è perché è chiaramente il periodo formativo per eccellenza, un po’ però dipende da un fatto specifico di una generazione che a un certo punto è passata dai vinili ai CD (e alla possibilità di farsi le proprie compilation, che con le cassette non era così semplice) e poi direttamente a iTunes e Spotify. Dopo i venticinque anni ho comprato ancora dischi (parecchi) e certamente ho ascoltato molta musica, ma certamente sia l’azione di esplorare un disco nuovo nella sua interezza oppure quella di comprendere il percorso artistico di un autore o di un gruppo procurandomi i suoi dischi nella loro interezza non c’è più stata.
Mi sono anche reso conto del fatto che i nostri gusti, dentro una generale cornice genericamente rock, erano abbastanza eclettici: se all’epoca mi avessero chiesto, come usava quando si annusava un nuovo amico: «Che musica ascolti?», avrei risposto senz’altro: «Cantautori». In realtà nella lista i dischi di cantautori sono pochi: si parte con Guccini e si finisce con De André, ma poi si va in giro per il mondo: c’è il prog dei Genesis, il folk-rock di Neil Young e il folk degli Inti-Illimani, il rock melodico di Simon e Garfunkel e così via.
Ecco la lista: ho mantenuto grosso modo le didascalie con le quali l’ho proposta su Facebook.
Naturalmente ci sono moltissime assenze: la maggiore – direi l’unica essenziale – è Regatta de Blanc dei Police, ma mancano certamente Branduardi e Venditti, per esempio, i Jethro Tull, cantautori meno noti come Stefano Rosso (che ci insegnò l’ironia molto più di Renato Zero, e comunque ascoltavamo Il carrozzone ed era già un altro Zero) e Stefano Lolli e altri certamente più importanti come De Gregori e Dalla coi quali, però, non mi sono mai riconciliato del tutto, al contrario di De André. Non c’è Piero Marras, non c’è Bertoli e nemmeno la Nannini. Caspita, non c’è il Finardi di Finardi, che probabilmente entrerebbe nei primi quindici dischi – e Diesel ci entrerebbe di sicuro. Non ci sono dischi ascoltati e riascoltati alle feste o in altre occasioni ma sempre tenuti un po’ in una categoria a parte, come i Bee Gees. E non ci sono, naturalmente, molti ascolti successivi, se non Cohen a simboleggiarli tutti.
E poi manca Bennato.
Dieci dischi più uno
Se da ragazzo mi avessero chiesto quale fosse il mio cantante preferito avrei risposto, senza nemmeno una esitazione, Edoardo Bennato. Per me e diversi altri della mia cerchia l’identificazione con Bennato era totale. Con Guccini, che avremmo messo alla pari di Bennato come valore (e sotto, a seconda dei gusti, De Gregori, De André, Dalla, eccetera – Zero, Branduardi e altri erano considerati settoriali), non c’era la stessa vicinanza: era uno che diceva cose di gran valore, ma Bennato diceva le nostre cose. Avrei tranquillamente potuto mettere i dischi di Bennato nella lista, tutti ma proprio tutti.
Poi uscì È arrivato un bastimento. Grande album, per carità, ma qualcosa si era rotto. Rifare sempre lo stesso disco, dare l’impressione di approfittarne, è un tradimento che un adolescente non può perdonare, e quindi le nostre strade si divisero. Non aiutarono, in seguito, né Notti magiche né Viva la mamma e tanto meno Ok Italia, per quanto tutti pezzi riuscitissimi. Avrebbe potuto aiutare Joe Sarnataro, ma non me ne accorsi e persi l’occasione di riavvicinarmi. E, fuori della musica, molte esternazioni pubbliche mi sembrarono bolse e non più esattamente quello che anche io avrei detto, come negli anni precedenti.
Mi è tornata in mente in questi giorni una canzone di Bennato, Canta appress’a nuie. È ancora il Bennato onnipotente che si può permettere di violare tutte le regole: far uscire due LP a distanza di poche settimane oppure tornare al formato a 45 giri, che la maggior parte dei colleghi aveva abbandonato. Il Bennato che tutto ciò che toccava rendeva magico.
Ripensandoci, il testo mi è sembrato profetico, della produzione di Bennato e della fine dell’adolescenza che fu:
Eh! pe stasera s’è fatto tardi
è meglio ca levammo mano
Eh! ce ne jammo, però
che st’ultima canzone ve cantammo!
Si era fatto tardi, effettivamente, però che pezzo, che energia, che freschezza.
Ciao Edo, si era fatto tardi ma valeva la pena di quest’ultima canzone. E grazie di tutto: non ti ho messo nella lista ma resti il migliore.
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