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Dilemma ebraico

Bene, al contrario del solito questo articolo non servirà a permettermi di esternare con molta sicumera le mie opinioni, come faccio di solito, ma invece consisterà esclusivamente dell’esposizione di un dubbio per il quale non ho la soluzione.

La storia è questa: per diversi anni ho partecipato, o organizzato, in varie comunità ecclesiali – la parrocchia, l’Azione Cattolica, il gruppo La Pira – a celebrazioni della cena pasquale ebraica.

Si tratta, sostanzialmente, di una paraliturgia – cioè di un incontro di preghiera molto strutturato – basato su testi e gesti desunti da ciò che gli ebrei celebrano nel seder di Pesach, cioè la Pasqua ebraica: chi vuole avere un’idea del rito può trovare in rete il testo completo (c’è anche una buona edizione di Einaudi).

L’idea di celebrare in ambito cristiano un rito che ricalca sostanzialmente un atto liturgico di un’altra religione – un uso diffusosi a partire dai tardi anni ’80 anche per la presenza dell’ottimo supporto costituito dal libro di Omar Carena Cena pasquale ebraica per comunità cristiane, pubblicato da Marietti – ha bisogno di qualche spiegazione: prima di tutto conviene dire che cosa non rappresenta.

Intanto, non è un modo per rivivere l’ultima cena vissuta da Gesù coi suoi discepoli, prima di tutto per l’ottimo motivo che quella è la Messa e poi anche perché l’hāggadāh, cioè l’insieme dei testi per il seder attualmente in uso, è posteriore all’epoca di Gesù essendo stata redatta da rabbini diversi in epoca successiva alla distruzione del Tempio nel 72 d.C.: è chiaro che riprenderà preghiere e situazioni già precedentemente in uso nelle comunità ebraiche, oltre che direttamente testi biblici come i salmi alleluiatici, ma certo non è esattamente il modo col quale Gesù ha pregato prima di morire. Piuttosto celebrare il seder in ambito cristiano – di solito nei primi giorni della Settimana Santa, o nel periodo pasquale successivo – vuol dire fare uno sforzo consapevole di ricollegarsi a una tradizione religiosa dalla quale noi stessi, dopo tutto, sgorghiamo, comprendere meglio le nostre radici e anche accostarsi con rispetto alla fede dei fratelli maggiori, in vista di una migliore convivenza e coesistenza.

Nell’epoca nella quale l’Azione Cattolica di Cagliari o il gruppo di Bonaria, come molte altre comunità, organizzava ogni anno la cena ebraica questo tipo di conseguenze benefiche erano evidenti ed erano certamente in linea con le intenzioni di Carena e con altri fenomeni culturali dell’epoca: era il tempo della maggior fama di Moni Ovadia, di Train de vie, della visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma, della riscoperta in ambienti cristiani e non solo della letteratura chassidica e così via, a parte che i grandi narratori americani di cultura ebraica – i Singer, Bellow, Roth – e i loro ricordi familiari erano già popolari per conto loro e che io proprio in Azione Cattolica avevo scoperto Martin Buber. Se qualche voce si alzava contro il seder era quella di fondamentalisti di taglio preconciliare, pronti a vedere la pagliuzza dell’eresia dappertutto: a me stesso capitò, su un gruppo usenet tipo it.cultura.cattolica, di venire apostrofato come quello che celebra riti ebraici, come se la cosa avesse in sé un tono sinistro.

Man mano, però, anche sicuramente per l’influenza della nuova situazione geopolitica per la quale le religioni sono ridiventate un tema sensibile e forse anche perché a quelli degli anni ’80 sono succeduti altri leader religiosi di taglio diverso, in ambito cristiano si è cominciato a vedere la celebrazione del seder all’interno delle proprie comunità con occhio diverso: se l’uso rimane tuttora diffuso – basta vedere la quantità di testi e manualetti già pronti pubblicati sul web da infinite comunità e parrocchie, alcune delle quali, purtroppo, del tutto convinte di ricreare l’Ultima Cena – in diversi ci si è cominciati a chiedere se la celebrazione non comportasse un rischio di, diciamo, appropriazione culturale, cioè di sottrazione, banalizzazione o stravolgimento di qualcosa che nella comunità o cultura originaria è importante e identitario e che, nell’uso che ne fa chi se ne appropria, viene svalutato o, peggio, deriso o ridicolizzato.

Dico subito francamente che, all’interno della mia generale antipatia per il politicamente corretto, non ho una grande opinione del modo col quale comunemente viene invocato il concetto di appropriazione culturale, ma qui almeno un po’ di fondamento c’è ed è questo, credo, il motivo per il quale quando quest’anno siamo andati a cercare sull’hard drivefile per la celebrazione della cena pasquale ci siamo resi conto, con una certa sorpresa, che il gruppo La Pira non l’ha organizzata più certamente almeno dal 2010, se non prima. È questa del resto la linea di un testo molto cauto (e molto interessante) pubblicato dall’ormai defunto Service International de Documentation Judéo-Chrétienne

Parlare di seder cristiano è ambiguo e storicamente inesatto e va evitato. Altrettanto ambigua e da evitare è l’espressione «celebrazione cristiana del seder pasquale»: perché il seder pasquale appartiene alla tradizione ebraica e solo gli ebrei ne sono i soggetti celebranti. Può essere invece corretto parlare di seder pasquale per comunità cristiane oppure di celebrazioni cristiane con testi del seder pasquale.

In casi come questi si potranno utilizzare, nel corso di una preghiera o di una paraliturgia cristiana, elementi testuali o rituali del seder pasquale ebraico, ispirandosi al principio secondo cui da sempre la tradizione cristiana ha arricchito la sua liturgia di elementi della tradizione ebraica: dalla lettura della Torah e dei Profeti alla preghiera dei salmi. Ma deve essere chiaro, in casi come questi, che non si tratta di appropriarsi del rito ebraico ma di riscoprire la propria fede alla luce della tradizione ebraica alla quale aprirsi con riconoscenza.

Il problema è che, se non ci si vuole appropriare interamente del rito, ci si dovrebbe limitare a elementi tratti dal seder, dentro una celebrazione più ampia e complessa: l’uso, invece, è quello di prendere più o meno tutto il testo e i riti, i quattordici passaggi, i gesti, i quattro bicchieri di vino eccetera; in questo senso l’appropriazione, se non nelle intenzioni, è nei fatti (e d’altra parte l’elemento costitutivo del seder – parola che dopotutto significa ordine – è proprio nel suo svolgersi complessivo, non nel singolo midrash o benedizione). E infatti sempre il SIDIC, nelle soluzioni che suggerisce, di fatto elimina la possibilità celebrativa autonoma: prevede infatti come migliore soluzione quella di farsi invitare da una famiglia ebraica amica

L’ideale sarebbe di partecipare ad un seder pasquale invitati da amici ebrei nella loro casa.  Si sarebbe così veramente “ospiti” della tradizione e della fede ebraica

Ho scoperto che alcune tradizioni ebraiche, per esempio negli USA, celebrano il seder come evento pubblico, ma ho il dubbio che molte famiglie ebree italiane non considererebbero la cosa del tutto ortodossa e comunque solo col gruppo La Pira eravamo una dozzina e non è un numero di ospiti proprio semplicissimo da inserire in una famiglia normale, anche se non bisogna sottovalutare le capacità organizzative e di ospitalità delle madri di famiglia ebree – o di quelle sarde.

In alternativa, se ci si trova fra soli cristiani il SIDIC suggerisce di prendere in mano il testo del seder non per una celebrazione ma per uno studio:

In questo caso un’ipotesi potrebbe essere di invitare, nel proprio gruppo o comunità, un rabbino o un ebreo osservante, cioè una persona veramente competente, chiedendogli di condividere la sua esperienza e la sua lettura del seder pasquale: testi, riti, simbolismi e storia.

Qualora non si potesse avere la presenza di un rabbino, i cristiani possono accostarsi da soli o in gruppo al seder pasquale studiandone la struttura, leggendone i testi e spiegandone i riti, con l’aiuto di una persona sensibile e esperta. È chiaro che in casi come questi, non si può parlare di celebrazione del seder pasquale, ma di un suo studio in chiave pedagogica e didattica.

Ho un vago ricordo che sia stato sotto l’influsso di questo testo che abbiamo smesso di celebrare il seder. D’altra parte studiare una celebrazione non è, semplicemente, la stessa cosa che viverla: ho scoperto l’altro giorno a teatro che don Milani si è convertito leggendo il Messale, ma lui era don Milani ed era un santo, una testa fina e un supremo rompipalle: per la gente normale i testi liturgici vanno usati, non letti.  La soluzione del SIDIC è impraticabile ed è qui, credo, il dilemma irrisolvibile del quale parlavo all’inizio: l’alternativa sembrerebbe essere fra rinunciare totalmente oppure offendere le sensibilità altrui – o anche stravolgere il seder usandone solo alcuni elementi, che è un’altra sconfitta.

Naturalmente, come direbbe il comandante Kirk a proposito della Kobayashi Maru, la presenza di un dilemma non è necessariamente un invito all’inazione: il tema è piuttosto quello di agire prendendosi le proprie responsabilità (noi quest’anno, dopo matura ponderazione, abbiamo deciso di fare la celebrazione), però in questo caso il dilemma c’è, rimane tutto in ogni caso e mi è sembrato interessante raccontarvelo.

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