Luogo di sofferenza
Un giorno di una decina di anni fa sono uscito dal lavoro, in pausa pranzo, e invece di andare a mangiare sono andato a un appuntamento con un giovane prete appena tornato da studi romani, che era stato nominato responsabile della pastorale universitaria.
Parlò soprattutto lui e, mentre passeggiavamo lungo l’Anfiteatro romano, mi raccontò quel che aveva intenzione di fare – considerando che era tornato da poco e «sai, volevo dei consigli» aveva opinioni piuttosto precise, come molti preti giovani – e delineò un piano di attività già sentite mille volte e che per mille volte non avevano funzionato; in cambio io gli diedi un paio di coordinate di riferimento, di chi cercare e dove, sperando di sbagliarmi e che una personalità carismatica insospettata gli permettesse di stupirmi con successi improbabili. Gli dissi anche la mia idea, che l’università non aveva tanto bisogno di un responsabile della pastorale universitaria nel senso degli studenti quanto di un cappellano, uno di strada, che girasse gli ambienti, salutasse la gente e si fermasse a fare quattro chiacchiere fuori dell’aula o in un ufficio e fra un giro e l’altro si facesse carico di quello che gli veniva scaricato addosso, fossero bisogni materiali o spirituali, esattamente come il cappellano dell’ospedale; ma lui da quell’orecchio non ci sentiva: mi disse perfino che a lavorare con gli impiegati c’era il rischio di sovrapporsi a chissà quale altro aspetto pastorale, dopo di che io ci feci un croce sopra e me ne stetti zitto, tranne che per una cosa a cui tenevo e tengo molto.
«Sai», gli dissi, «a me colpisce molto una cosa di cui vedo che non si occupa nessuno: che dentro l’università, fra gli studenti c’è un grande carico di sofferenza, di angoscia, di dolore».
Mi guardò come se fossi matto: aveva i mente cose tipo giovani, il futuro è vostro, la vita beata dello studente, l’avventura intellettuale, le cattedrali del sapere che ti si schiudono davanti, gli studenti ribelli che non si accontentano di risposte precostituite, il dissidio fra scienza e fede: tutto (forse) vero e anche tutto molto generico, in realtà.
Perché fra gli studenti in realtà c’è parecchia gente che soffre, e anche molto.
Non parlo, o non tanto, degli studenti che hanno una sofferenza mentale esplicitamente riconosciuta e che lo erano prima di iscriversi: la popolazione universitaria è molto vasta ed è lecito aspettarsi un certo numero di situazioni patologiche; in realtà per tanti di loro l’università fa parte anche di un percorso di recupero, o di crescita, ed esistono anche colleghi addetti esplicitamente alle loro esigenze e a quelle di altri studenti bisognosi di supporto; e anche se qualche volta certe presenze possono tendere a sovraccaricare certi uffici di front office o le biblioteche la cosa rientra tutto sommato nella normalità.
E non penso neanche a quegli studenti che arrivano all’università e manifestano improvvisamente un disagio che conduce a situazioni critiche: vale credo per loro quello che un tempo valeva per il servizio militare o per altre istituzioni totali, e cioè che c’è una patologia non conclamata che attende un pretesto per dichiararsi.
Penso invece a tutti gli altri a quelli che ce la fanno e a quelli che non ce la fanno: chi vive dentro l’università sa che c’è un sacco di gente che soffre, che è a disagio, che ha ansie e angosce significative.
Naturalmente non tutti: da poco da noi, per esempio, se ne è laureato un gruppo, tutti bravissimi: sbirciavo sul gruppo Facebook e li vedevo organizzati come una gioiosa macchina da guerra, fra scambi di registrazioni di lezioni e doodle per gli appelli da chiedere ai professori e capaci pure di organizzarsi la birretta o la disco la sera. Beati loro, ovviamente, però non mi pare l’esperienza di tutti e invece vedo spesso un disagio non troppo conclamato, strisciante.
Una delle difficoltà nel riconoscerlo è che in fondo l’opinione pubblica – tanto più negli ultimi anni nei quali spesso è prevalsa la narrazione che ormai l’università non sia più quel bel luogo di tortura che era prima della riforma – è convinta che l’università sia facile. Perlomeno: abbastanza facile.
In realtà non è così, prova ne sia che non tutti si laureano, purtroppo. E il numero di quelli che si fermano a non tanta distanza dalla laurea, se non capisco male, non è proprio infimo. Anche coi miglioramenti della didattica degli ultimi venti anni studiare, e studiare sostanzialmente da soli, non è semplice. E l’università comporta dei cambi di passo che non sono trascurabili: non c’è più la frequenza obbligatoria, la classe di tutti i giorni e i professori che ti conoscono, come a scuola, ed è la prima occasione nella quale davvero devi dimostrare di saperti organizzare da solo; rispetto alla scuola l’università è molto più interclassista e mette a contatto con dimensioni sociali inesplorate; le materie sono nuove, spesso ostiche e comunque richiedono un livello di preparazione al quale puoi non essere abituato; è percepita come piuttosto competitiva, o comunque cominci ad avere l’idea che poi il tuo futuro dipenderà dai tuoi risultati; non è gratis come la scuola; il costo del fallimento è molto alto, in termini economici, di delusioni familiari e di autostima. E questo se studi vicino a casa, se no ci sono tutti i problemi dei fuorisede, in aggiunta.
Di fatto è diventato per tanti giovani il rito di passaggio all’età adulta, ed è un rito di passaggio ansiogeno, che dura almeno tre anni e non ha nessun libretto d’istruzioni.
Perciò sì, ci sono molti studenti che soffrono, all’università. Un disagio a bassa intensità, diciamo, al quale è difficile dare risposte organizzate ad altrettanto bassa intensità, e infatti spesso si finisce per farsene carico in maniera informale: il professore che ti fa un po’ di direzione spirituale, l’impiegata gentile che ti riceve anche fuori orario, più e più volte, finché non ti rassicuri, i colleghi che ti fanno il gruppo d’auto-aiuto, i genitori… Per le situazioni critiche credo che ormai, come noi, molte università siano sostanzialmente attrezzate, è per quelle striscianti che è difficile mettere in piedi risposte strutturate.
Non è vero sempre: mi domando se i rappresentati degli studenti e gli organi dirigenti dell’Università di Cagliari e della Regione si sono resi conto che il nuovo regolamento tasse, che amplia parecchio i benefici economici e rende studiare meno caro per tanti, non è solo una misura di giustizia sociale ma, abbassando il costo economico dell’insuccesso accademico, diminuisce lo stress e l’ansia e migliora sicuramente il benessere psicologico di studenti e famiglie – però è la prima volta che vedo accadere una misura di sistema di questa portata: davvero non è semplice e a molti questo livello un po’ invisibile di sofferenza sfugge.