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Mostre per cui comb… fare una bella gita

Vorrei consigliare di non lasciarsi scappare la mostra What are we fighting for, al Museo Nivola di Orani fino al 9 dicembre.

Il titolo della mostra prende spunto da quello della canzone dedicata alla guerra del Vietnam da Country Joe McDonald, Per cosa combattiamo?, domanda di senso diventata frase chiave della contestazione del ’68: che senso ha andare a morire in Vietnam? Per fare un favore a chi?

La mostra raccoglie due diverse produzioni di Nivola: da una parte i disegni sbozzati in tutta fretta (e poi via via raccolti e raffinati) sorti per commentare la dura repressione da parte della polizia delle proteste di piazza durante la convention democratica svoltasi a Chicago nel ’68: la prima volta che la nazione assisteva in diretta televisiva alla brutalità poliziesca. E dall’altra parte la produzione dedicata in quello stesso periodo e negli anni immediatamente seguenti alla Sardegna, in particolare ai temi delle servitù militari e del controllo autoritario del territorio e in generale al colonialismo.

Parentesi: da ragazzino – diciamo dai dodici anni – avevo appeso in camera due di questi poster di Nivola, pubblicati da Feltrinelli, e mi ha fatto una certa emozione ritrovarli esposti.

Considerate che avevo anche il Che, appeso.

Ok, anche un F-15 della Marina americana e il Cristo di Cimabue. C’era molta confusione sotto il cielo.

Comunque.

L’Inossidabile ricorda sempre che nel ’46, al ritorno in Italia dopo la guerra, si recarono a rivedere i parenti di Orani e che qualcuno nella lunga teoria di compari, figliocci e amici che passarono per casa a  salutare casa le chiese: «E cosa è meglio, Orani o l’Africa?». Lo racconta con un po’ di insofferenza, per dire che non si rendevano conto, che avevano di Orani l’idea di un centro del mondo che tale evidentemente non era.

Una mostra che mette insieme il ’68 di Chicago e quello di Orani potrebbe sembrare soggetta alla stessa critica, e invece questa sfugge  brillantemente al rischio. Prima di tutto perché a tenere insieme il tutto c’è Nivola, il quale in quel momento disegnava davvero così, e cioè evidentemente analizzava gli avvenimenti globali mantenendo la testa alle sue radici, o per meglio dire evidentemente vedeva un rapporto fra le situazioni locali ai confini dell’impero e la repressione verso chi attentava alla leadership dello stesso impero: e siccome lo vedeva lui è capace ancora oggi di farcelo vedere anche a noi, con un segno grafico straordinario.

E poi la mostra sfugge al rischio di cui dicevo prima con un allestimento che mi è sembrato buonissimo. Allestita nel vecchio lavatoio – quello, per capirci, che è stato il nucleo storico del museo – mantiene ed esaspera la dicotomia: a sinistra calano dal soffitto grandi foto, enormi, degli scontri di Chicago; dalla parte opposta le affrontano altrettanto grandi foto riferite alla presenza militare e di polizia nelle campagne oranesi nello stesso periodo (non ci sono scontri, qui, evidentemente, ma il contrasto è altrettanto netto).

Sotto le foto sono conservate un po’ di testimonianze d’epoca: se quelle relative a Chicago sono interessanti ma un po’ standard (i reportage di LifeTime, per esempio), quelle oranesi sono interessantissime, perché raccontano che anche al centro della Sardegna in quell’anno le cose cambiavano: su tutto domina un ciclostile, simbolo dell’epoca (e di altre successive: ancora negli anni ’80 nell’Azione Cattolica di Cagliari si ciclostilava e si facevano giornaletti a numero unico come quelli che una quindicina di anni prima si facevano a Orani).

Di grandissimo interesse, e chiave portante credo dell’allestimento, è il breve documentario nel quale sono invitati a ricordare l’epoca una serie di oranesi che nel ’68 erano diciottenni o poco più: i quali danno coi loro racconti – essere cappelloni a Orani, i complessini e la musica, i club giovanili, le rivistine ciclostilate, una nuova gestione dei rapporti sentimentali, il teatro di impegno politico all’oratorio, i Beatles, comunisti e democristiani – il tono di ciò che era e che, in fondo, non deve essere molto diverso da quello che racconterebbe un giovane che all’epoca stava nel Montana o nel Nevada e magari si era fatto tutta la strada per protestare a Chicago e farsi picchiare dalla polizia. Il documentario vale davvero la visione e da solo la visita, anche perché credo che copra anche un buco importante, nel senso che non mi sembra che nel cinquantenario del ’68 molti altri in Sardegna si siano presi la briga di ricordare la ricorrenza o meglio, di provare a tracciarne il racconto locale. In questo senso la mostra, anche se parzialmente, colma una lacuna importante.

E poi ci sono, da una parte e dall’altra, i disegni di Nivola, che suggerisco di guardare con calma dopo aver visto tutto l’altro materiale. Devo dire che io, arrivato a uno dei primi, ho detto: «Caspiterina, se era bravo Nivola», solo che l’esclamazione non era proprio caspiterina. Non è solo la vigoria del segno grafico o la cifra stilistica con cui vengono interpretati i fatti, con i corpi intrecciati, la deformazione espressionista dei corpi e degli atteggiamenti: mi ha molto emozionato rendermi conto – una delle mie prime volte nell’arte contemporanea – che Nivola in tutto il groviglio di quel disegno si era preso il tempo di studiare l’inquadratura della scena, pur sapendo che in una visione appena appena a distanza si trattava di un particolare che non sarebbe stato notato con immediatezza (e che però fa la differenza con una scena molto più banale).

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