E se avesse ragione lui?
Il mese scorso ho letto, come credo molte altre persone, la storia del musicista statunitense Jered Eames, nome d’arte Jered Threatin o semplicemente Threatin. Il nome evoca la minaccia e infatti ha un passato di extreme metal (adesso fa solo un tipo di metal tradizionale) ma in realtà quando ne ho letto non faceva paura a nessuno: le reazioni variavano dal dileggio al compatimento.
Insomma, la storia era che Threatin – un musicista semisconosciuto se non semplicemente un dilettante – era riuscito ad assicurarsi una serie di date in locali importanti in Europa per il suo Breaking the world tour (“sconvolgere il mondo”, mica pizza e fichi, eh) inventandosi di sana pianta praticamente tutto: creando un profilo su YouTube con lui che suonava davanti a un pubblico adorante (solo che erano accurati montaggi che alternavano immagini di lui su un palco vuoto con riprese dei concerti di altri); presentando un profilo Facebook colmo di commenti entusiastici (solo che ciascuno di quegli utenti era un robot o lui stesso sotto falso nome); inventandosi con molta faccia di bronzo di avere un contratto miliardario con una casa di produzione importantissima (e invece l’agente era sempre lui in un’altra delle sue incarnazioni), fingendo di avere già venduto 55 000 copie del disco d’esordio (e non era vero); dichiarando di avere già fatto il sold out per le varie date (e non era vero e infatti non ci si è poi presentato nessuno) e così via.
Ovviamente l’inganno è finito male: il primo concerto, a Camden, ha avuto solo una manciata di spettatori. A Newcastle solo cinque, compresi due componenti del gruppo che aveva suonato in apertura, per compassione. A Bristol il proprietario del locale, furibondo, non l’ha fatto suonare finché non ha pagato cinquecento dollari per compensarlo delle consumazioni mancate. Quando Threatin è salito sul palco, il locale era vuoto.
La notizia si è sparsa rapidamente fra i vari proprietari di locali e ben presto i suoi inganni sulla rete sono stati smascherati. Il tour è stato ovviamente annullato e il buon Threatin si è ritrovato, come è uso, a essere il bersaglio di zilioni di prese in giro sul web nonché l’oggetto di critiche feroci e di veri e propri insulti.
Quando si dice: carriera finita ancora prima di cominciare.
Quando ho letto la storia, tempo fa, l’ho trovata curiosa e, naturalmente, simbolica (anche se esattamente di cosa non mi era del tutto chiaro).
Poi la settimana scorsa ho letto sul sito della BBC un bell’articolo dedicato alla storia e ho scoperto che c’era qualcosa di più da sapere. L’autrice, Jessica Lussenhop, racconta tutta la vicenda con una scrittura molto buona (anche l’apparato fotografico è notevole), ma soprattutto è riuscita a intervistare direttamente Threatin.
Saltano fuori una serie di particolari che, tutto sommato, accreditano ulteriormente l’idea di una personalità patologica: per esempio la testimonianza del fratello, Scott, col quale Jered condivideva un gruppo di extreme metal, il quale dichiara che
con Jered è tutto nebbia e giochi di specchi.
Il gruppo che avevano insieme si è sciolto, racconta Scott, quando ha scoperto che Jered cambiava i credit sulla loro pagina Facebook per far credere di essere lui a suonare la chitarra, e non Scott.
Peraltro, non c’entra niente ma ci sono nel mezzo queste pennellate di vita metal che sono come al solito impagabili: attualmente Scott, sotto lo pseudonimo Colui che è perverso (“the Wicked One”) suona nel gruppo Il tuo anticristo (“Thy Antichrist”). Fantastici.
Jered stesso ammette con Lussenhop di essersi inventato davvero tutto, con un procedimento delusionale impressionante:
Quando aveva bisogno di creare risonanza sulla stampa, inventava un giornalista. Se doveva prenotare dei concerti, creava un organizzatore di eventi. Considerava l’intero ecosistema dell’industria musicale – manager, organizzatori, promoter, perfino fotografi e registi – come semplicemente un insieme di ruoli che poteva ricoprire lui stesso.
È questa pervasività che ha creato la conflagrazione legata al suo smascheramento: praticamente c’era tutto da scoprire. Il premio che gli aveva riconosciuto una rivista specializzata? Falso. La rivista stessa? Falsa anch’essa. I suoi vari collaboratori, il suo agente, la sua casa discografica? Tutto falso. Le loro foto sui profili Facebook? Come fa il mio amico Roland Moreno, prese dai profili di altre persone ignare. L’indirizzo dei loro uffici: preso a caso da quello di altre aziende o società. Chiunque si sia provato a fare indagini su Threatin ha avuto la soddisfazione di scoprire qualche pepita, perché il giacimento era enorme.
Threatin, ovviamente, ha una spiegazione che secondo lui è perfettamente razionale:
«Se un gruppo contatta un locale e dice: «Ehi, vogliamo prenotare questo locale», ti succederà di essere ignorato», spiega. «Tutto quel che devi fare è dare l’impressione che la richiesta venga da un organizzatore di eventi – non importa quale organizzatore, anche finto – e la gente ti parlerà e potrai prenotare le cose. È così semplice».
Il che però trascura che lui abbia quaderni su quaderni pieni di identità digitali false: nomi, cognomi, indirizzi del profilo, password, annotazioni su chi è stato identificato come spam, chi è stato bannato… E in più identità accurate per ciascuna delle sue varie incarnazioni professionali, agente, promoter… Quaderni su quaderni: avere personalità multiple dev’essere una fatica mostruosa.
Una cosa che mi sono dimenticato di far notare, in realtà, ma che viene bene segnalare ora, è che in realtà Threatin è un truffatore ma di un tipo particolare: per esempio, i locali li ha pagati. Come le spese di viaggio ai musicisti che ha assunto per suonare con lui (ah, già, ha ingannato anche loro, giovani artisti che erano convinti che con il tour gli sarebbe svoltata la carriera). Il che non vuol dire che non abbia creato danni a terzi (i musicisti hanno suonato gratis e poi, quando è scoppiato il macello, si sono dovuti far rimpatriare a spese di parenti e amici; le band di apertura dei vari concerti hanno sprecato il loro tempo; i proprietari dei locali probabilmente ci hanno rimesso comunque; un sacco di gente si è fatta delle aspettative che sono andate deluse), ma quel che si nota di più non sono tanto i danni creati a terzi quanto l’enorme mondo fittizio nel quale è andato a abitare.
Parentesi: Threatin dice, in un momento dell’intervista, che tutti i soldi spesi per il tour li ha risparmiati dollaro su dollaro cuocendo hamburger in locali di infimo ordine. Se è vero non sai se essere ammirato o avere un empito di pena (o presentare il curriculum a note catene di paninerie, dove evidentemente pagano molto meglio di quanto comunemente si creda).
Ma quello che è interessante è che, alla fine, Threatin ha tirato fuori un’ultima linea di difesa, il messaggio che tutt’ora campeggia sul suo sito (dal quale provengono tutte le foto di questo articolo).
Che uno lo legge e pensa: si, ok, ma ti posso toccare?
Solo che a Lussenhop ha mostrato una serie di mail che lui stesso ha mandato a giornali e siti musicali per autodenuciarsi – ovviamente sotto un’altra identità ancora. Prima che scoppiasse lo scandalo, prima ancora che iniziasse il tour. Threatin sostiene che il suo era un piano raffinato per creare pubblicità: il suo rimpianto è che nessuno ha dato peso a quelle mail (dopotutto provenivano da una emerita sconosciuta e denunciavano un Carneade) e che lo smascheramento è arrivato da un’altra parte, bloccando il tour; secondo lui se avesse potuto proseguire, nell’ultima data in Italia avrebbe avuto il pienone.
E racconta che, comunque, il suo ritorno pubblicitario l’ha avuto: contatti con rappresentanti veri dell’industria musicale. Proposte per libri, per film. La moglie, che l’ha accompagnato per tutto il tour, ha ore e ore di girato da utilizzare per un documentario che, a quanto dice Threatin, è già in produzione.
Sarà.
Però è questo che rende la vicenda di Threatin così interessante e, finalmente, simbolica. Dimostra che dentro i meccanismi della società dello spettacolo, tanto più nella sua incarnazione digitale, è perfettamente inutile pretendere di comprendere quale sia la verità della cosa: non potremo mai sapere se Threatin si è inventato tutto o solo un pezzo della storia, se aveva un piano astutissimo dall’inizio o se oltre che agli altri mente anche a se stesso. Ognuno può avere la sua opinione ma rimarrà, appunto, un’opinione. Ed è abbastanza inutile anche ragionare in termini di convenienza: salvo che Threatin un giorno diventi davvero una superstar mondiale – e allora le origini rocambolesche della sua carriera non importeranno più a nessuno – sarà sempre difficilissimo decidere se gli è convenuto o no: se anche facessero un film su di lui, fra due anni o cinque, finito il suo quarto d’ora di celebrità, come si potrà dire se il suo trucco ha funzionato oppure no?
Entrare in questi gineprai non permette soluzioni e, presa così, in questa storia ha ragione Jered. Ha sicuramente ragione.
Questi sono tempi che invocano, invece, approcci diversi: per esempio ragionare in termini di verità morali. Che hai fatto del male a della gente, in questo caso, è evidente: non mi interessa se ti è capitato o l’hai voluto, se diventerai ricco e famoso o no; non è questo il punto, ma il male che hai fatto.
Oppure si può ragionare in termini di realtà/verità di altro genere, per esempio artistiche: nessuno, in tutta questa storia, sembra mai essersi posto, guarda un po’, la domanda se Threatin sia bravo o meno. Eppure questa pista permette di formulare giudizi molto precisi su questa vicenda: dando credito a Threatin e ragionando in termini di performance artistica, per esempio, tutta questa messa in scena è bella o no? Non efficiente, di successo, generatrice di molti clic, ma bella?
Per me la risposta è evidente, ma non è questo il punto. È che sarebbe un approccio fruttuoso, non sterile come la domanda oziosa così comune di questi tempi: ma ci sei o ci fai?