Dimmi che destino avrò
Dimmi che destino avrò, diretto da Peter Marcias (di cui avevo già visto, con poca soddisfazione, I bambini della sua vita) e sceneggiato da Gianni Loy, ha parecchi meriti dal punto di vista politico. Tratta infatti con coraggio il tema della condizione dei rom in Italia non per interposta persona ma entrando direttamente nei campi e facendo recitare un cast di attori che, a parte i due protagonisti, sono tutti non professionisti e sostanzialmente recitano se stessi nei luoghi della loro vita quotidiana.
Parentesi. Uso il termine “rom” nell’articolo con un po’ di disagio, sapendo bene che non corrisponde necessariamente con precisione all’identità culturale delle persone che compaiono nel film, che magari appartengono ad altri gruppi romaní: quet’ultimo è il termine che avevo provato a usare in una prima versione, ma dubbi grammaticali (quale sarà il femminile singolare?) e, diciamolo, la mia ignoranza mi hanno fatto desistere: e quindi uso “rom” come soluzione più semplice: però voi ritenetevi avvisati. E adesso torniamo a parlare di cinema.
Cosa succede in Dimmi che destino avrò? Che il commissario meno sbirro che possiate immaginare – ha un figlio che fa la drag queen, figuriamoci – viene incaricato di seguire l’indagine su un presunto ratto di minore all’interno di un campo rom: due ragazzi hanno fatto una specie di fuitina ma lei è minorenne e quindi c’è una denuncia di cui tener conto. Nel campo il commissario (Salvatore Cantalupo, un professionista, e infatti il mestiere spicca rispetto agli altri attori) conosce Alina (Luli Bitri, un’attrice albanese che peraltro non è rom), sorella del presunto rapitore e recentemente tornata da Parigi dove vive abitualmente, che farà da intermediaria fra il poliziotto e la particolare condizione del campo che lui inizialmente non conosce e non capisce.
La relazione fra il commissario Esposito e Alina, che non senza contrasti via via si approfondisce, è sostanzialmente il motore del film che sta tutto in questo scontro peraltro sommesso di culture, con l’aggiunta sullo sfondo del trattamento vergognoso e vagamente razzista (ok, non vagamente: razzista e basta) riservato dallo Stato italiano ai rom.
Come accennavo, il pregio maggiore è dato dal fatto che la narrazione entra nei campi e nella vita della comunità rom offrendone un punto di vista fresco e non convenzionale. Il film si presta anche all’eterno dibattito se in un’opera d’arte debba prevalere il contenuto o la sostanza, perché purtroppo dal punto di vista narrativo e squisitamente cinematografico presenta parecchi problemi.
Didascalie
Il film procede per quadri successivi giustapposti (senza cioè un nesso narrativo se non molto elementare), congiunti da ingombranti (e irritanti) passaggi di servizio, analoghi a quelle vecchie didascalie dei fumetti: nel frattempo, oppure qualche giorno dopo, e così via. Nei fumetti è un procedimento datato, al cinema è esiziale: se il commissario vive a Geremeas, non abbiamo bisogno tutte le volte di vederlo guidare verso Cagliari o di vederlo salire le scale della Questura per capire, nella scena successiva, che è al lavoro. Se due personaggi si dicono: «Ci vediamo domani, domenica, al campo», e poi vediamo il commissario entrare al campo nomadi, capiamo che è passato un giorno anche senza il fotogramma con l’alba.
Tanta enfasi nelle didascalie, peraltro, non aiuta lo spettatore a capire cosa sta succedendo. Alina è tornata da Parigi: come mai? Per fare cosa? Non deve tornare al lavoro? Il commissario indaga: esattamente come, a parte farsi un giretto al campo e bere un caffé coi genitori di Alina? Quanto tempo trascorre durante tutta l’azione narrativa? Il percorso di amicizia avviato dal commissario coi ragazzini rom che giocano a pallone sembra suggerire un tempo piuttosto lungo: in tutto questo frattempo l’indagine non va mai avanti, Alina è sempre a Cagliari, ognuno è sempre uguale a se stesso?
La storia e i personaggi sembrano galleggiare nel vuoto, oppure essere proiettati contro un fondale lontanissimo. Del resto nessuno di loro appare avere relazioni: i rapporti interni alla famiglia di Alina sono appena accennati, le relazioni fra le famiglie rom interne al campo inesistenti, assenti le famiglie dei ragazzini del pallone. E anche il territorio che ci è continuamente mostrato in tutti gli andirivieni dei personaggi appare un puro sfondo lontano, tenuto a distanza.
Una distanza rappresentata plasticamente dal commissario stesso, che è un alieno (oltretutto non è sardo, è napoletano) paracadutato sul luogo: a parte qualche serata di burlesque col figlio sembrerebbe una specie di vampiro, che si desta solo perché c’è da allenare ragazzini a pallone e litigare con Alina, ma per il resto giace continuativamente in qualche cripta di Geremeas; ma in realtà tutti i personaggi non sono altro che burattini, messi in moto dal narratore per i suoi obiettivi e poi subito riposti nel cassetto.
Pretesti
Dimmi che destino avrò mi è sembrato tutto costruito per arrivare a un punto di rottura, un (apprezzabile) monologo/invettiva di Alina nell’ufficio del commissario, analogo strutturalmente a quello famoso di Shylock nel Mercante di Venezia
Sono un ebreo.
Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano?
Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?
Non voglio fare un confronto impietoso: il monologo di Alina può portare altrettanta verità di questo memorabile di Shylock. Ma il Mercante è costruito perché l’azione drammatica trascini lo spettatore e gli faccia apparire naturale e ovvia l’invettiva, la petizione per esistere e rivendicare i propri diritti. In Dimmi che destino avrò la cosa arriva complessivamente a freddo: il pretesto sono le misure liberticide del 2008, le “impronte ai bambini”, ma il trattamento è del tutto privo di pathos, non c’è azione: ci viene detto (per bocca di Esposito) che si tratta di misure vergognose, ma ciò che vediamo sono paciosi poliziotti che si aggirano spaesati per il campo; le frasi di Esposito sono, ancora una volta, didascalie esplicative, l’azione narrativa il pretesto per esporre una tesi (condivisibile, ma non è questo il punto).
Raffronti e domande
Nonostante tutte le perplessità sono stato contento di aver visto Dimmi che destino avrò, non solo per il punto di vista interessante sui rom e per lo sguardo, seppure vago, sulla mia città, quanto per le domande che mi ha suscitato.
Intanto Dimmi che destino avrò ha più di un punto di contatto con un altro vecchio film minore dedicato alle problematiche dell’integrazione, Parada!, compreso il coinvolgimento in fase produttiva dell’organizzazione di cui si narra. Ho di Parada! un ricordo migliore: credo, rileggendo la mia recensione dell’epoca, perché problematizzava di più. Mi chiedo come si sarebbe potuto problematizzare di più la storia di Dimmi che destino avrò: non mi pare una domanda banale.
L’altra effetto di Dimmi che destino avrò è stato quello di ricordarmi una frase di Victor Jara, il cantante cileno assassinato dai fascisti nel 1973, che tenevo scritta in un quaderno sul mio comodino da adolescente:
Io non suono la chitarra per ricevere l’applauso. Io canto la differenza che esiste tra vero e falso, se no, non canto.
Non c’è dubbio che Dimmi che destino avrò, col suo impegno civile, parla “della differenza fra vero e falso”. Lo fa con un linguaggio cinematografico approssimativo e, in una parola, brutto. Basta l’una cosa a compensare l’altra e renderlo meritevole di essere visto? Oppure si dovrebbe sempre cercare l’efficacia del racconto (in una parola: la bellezza) non per la cura estetica ma per non correre il rischio di tradire la verità?
Domande, tante domande. Quando trovo le risposte vi avviso. Giuro.