Eremiti fuori sacco
Racconta il regista Joshua Wahlen che quando hanno cominciato a girare il loro film sugli eremiti d’Italia i primi tre che sono andati a trovare gli hanno detto che no, non volevano essere intervistati. Uno, il primo, li ha visti inerpicarsi verso l’eremo e da lontano gli ha fatto cenno col ditino di no. Poi, ancora da lontano, a voce piana ma perfettamente udibile anche a distanza, gli ha detto: «Tsk tsk, non si mette un eremita nel sacco».
Qualunque cosa questo volesse dire.
Poi, per fortuna di Wahlen e del suo collega Alessandro Seidita, tutti gli altri eremiti hanno accettato di farsi intervistare e ne è uscito Voci dal silenzio, un bel documentario che ha vinto un sacco di premi e che ho visto l’altra sera a Cagliari, in una strana proiezione semi privata per partecipare alla quale dovevi associarti – e pagare la tessera – a una curiosa associazione un po’ esoterica.
È un tributo alla qualità del documentario il fatto che il gruppo La Pira, entrato un po’ renitente – associarsi! E chi sono questi?! E UNDICI euro? – e solo grazie alle insistenze di Grazia che si sentiva avventurosa, alla fine abbia molto apprezzato la serata e in particolare il film.
I punti di forza di Voci dal silenzio sono tutti, credo, cose che non del tutto si vedono sullo schermo, ma che si intuiscono dietro. Per esempio il lavoro di ricerca degli autori, che deve essere stato complesso non solo dal punto di vista logistico ma anche nel capire il mondo che andavano a documentare e scegliere con molta cura l’angolo visuale attraverso il quale descriverlo. Il racconto di Wahlen era molto divertente da ascoltare – credo che la proiezione senza il confronto col regista perda molto – e racconta un approccio un po’ garibaldino: il camper, gli appostamenti fuori dell’eremo mentre l’eremita discute con Gesù se deve parlare con te o meno, le mille segnalazioni che giungono dai posti più impensati: «Venite a parlare con l’eremita che c’è qui» e tu prendi e aggiungi una tappa al percorso del camper. Però Wahlen trasmetteva nel parlare una appropriatezza di linguaggio, una comprensione del fenomeno, una precisione nell’approccio, una competenza antropologica e insomma una cultura che diceva di un lavoro di ricerca di spessore e certo non lasciato (del tutto) al caso.
Qualche dubbio in più, casomai, ho rispetto alla possibilità che, alla fine, non siano stati i due registi a essere stati messi dal sacco dagli eremiti. Wahlen ha sottolineato una scelta di fondo per il quale hanno condotto le interviste con un taglio il più possibile confidenziale e nel montaggio – che deve essere stato un lavoro bestiale e che è un altro dei punti di forza di cui potresti non accorgerti – hanno scelto di privilegiare tutto quel materiale nel quale l’eremita si raccontasse nel modo più naturale e spontaneo possibile, eliminando qualunque impressione di intervista precostruita (i due registi, tra l’altro, non compaiono mai).
Ecco, credo che Wahlen e Seidita ci abbiano provato. Credo meno che gli eremiti non abbiano esercitato uno sforzo consapevole di dare di sé una certa immagine – non importa quale, importa che nel film ciascuno di loro sia evidentemente pienamente padrone della conversazione in ogni momento e la diriga esattamente dove vuole.
Devo dire che tenevo a vedere il documentario a partire da una puntata che mi era rimasta impressa dell’ottimo I dieci comandamenti, dedicata alle scelte radicali di vita e nella quale compare un eremita che vive vicino Roma (e che non ho capito se fosse lo stesso che compare a un certo punto in Voci dal silenzio). Colgo l’occasione per segnalarlo e invitare alla visione, perché mi sembra in tema (la parte sull’eremita è dal minuto 23:35) e merita assai: come sempre con I dieci comandamenti è un gran pezzo di giornalismo documentario.
L’ultima notazione riguarda il pubblico, che era curiosamente quanto di più lontano si potesse immaginare dalle persone raccontate dal documentario. Non perché non fosse un pubblico che si riteneva attento ai temi spirituali (anzi, tutto il contrario) ma perché dagli eremiti traspariva un estremo rigore, del quale anche Wahlen mostrava di essere ben consapevole. Non si fa l’eremita non c’è una grande disciplina, sia interiore che esteriore. Poi magari certi eremiti erano anche folli di Dio, o andavano per i boschi gridando a gran voce la loro preghiera, ma rigorosi e disciplinati si deve essere, per forza, altrimenti non ce la fai.
Il pubblico era, invece, come dire? Sentimentale. Molto sentimentale, a partire dalla signora che durante un momento della proiezione ha cominciato a piangere con singhiozzi squassanti. A partire da un dibattto che più che una discussione sul film in certi momenti sembrava una vivenza intimistica.
Non sto giustificando questo tipo di spiritualità…
…no, vabbé, in realtà lo sto giudicando, ammettiamolo, anzi: non lo sopporto proprio…
… però, cercando di essere equanime, ognuno può coltivare il tipo di spiritualità che desidera. Solo che c’era uno stacco piuttosto evidente fra il sensibilismo esasperato e disordinato di parte del pubblico e lo stile di spiritualità degli eremiti, così coltivato, affinato e distillato fino all’estremo. Del resto la distanza era anche religiosa: la maggior parte degli eremiti raccontati – e di quelli presenti in Italia – erano cristiani. Il pubblico… per nulla, e un po’ si dibatteva nel cercare di conciliare il fascino dell’esperienza e della profondità spirituale raccontata, l’esigenza che lì aveva portati alla proiezione, e la distanza religiosa che si trovavano inaspettatamente davanti. Avrebbero voluto la spiritualità senza fede così come certi vorrebbero la birra che non ubriaca o il caffè senza caffeina.
Funziona poco, insomma.
Qui, vorrei dire, davvero non sto giudicando. Casomai credo che la comunità cristiana – e in generale le comunità religiose del mondo occidentale – dovrebbe interrogarsi: com’è che questa sete spirituale non riesce a orientarsi verso chi, obiettivamente, ha gli strumenti per soddisfarla? Ciarlatani televisivi propongono versioni liofilizzate del cristianesimo – o del buddismo, non è questo il discorso – mentre la versione originale risulta indigesta.
Perché non sembri che sto cedendo al moralismo cattolico, userò un brano da American Gods di Neil Gaiman, e assegnerò il compito di spiegare direttamente al dio Odino (come sa chi ha letto il libro, Wednesday è Odino, sperduto negli USA fino ai giorni nostri). E il linguaggio che usa Odino è molto new age, così non ci sono equivoci.
Lasciarono l’autostrada a Madison e passarono oltre la cupola del Campidoglio, un’altra perfetta riproduzione da cartolina nella neve che cadeva, e poi si trovarono fuori dall’autostrada e in corsa lungo strade di campagna. Dopo quasi un’ora di guida attraverso cittadine con nomi come Terra Nera svoltarono lungo un vialetto stretto, oltre numerosi, enormi vasi di fiori coperti di neve e decorati con draghi simili a lucertole.
«Chiuderanno fra poco», disse Wednesday.
«E dunque che cos’è questo posto?», chiese Shadow, mentre attraversavano il parcheggio verso una bassa costruzione di legno dall’aria poco importante.
«È una trappola per automobilisti», disse Wednesday. «Una delle migliori. Il che vuol dire che è un luogo di potere».
«Ripeti un attimo?».
«È molto semplice», disse Wednesday. «In altri paesi, lungo gli anni, le persone hanno capito quali fossero i luoghi di potere. Certe volte si trattava di una formazione naturale, certe volte si trattava semplicemente di un posto che era, in qualche modo, speciale. Sapevano che là c’era qualcosa di molto importante all’opera, che c’era un qualche punto focale, un canale, una finestra verso l’Immanente. E quindi hanno finito per costruirci templi o cattedrali o per erigere dei cerchi di pietra o… insomma, ci siamo capiti».
«Ci sono chiese in tutti gli States, però», disse Shadow.
«In ogni città. Qualche volta in ogni isolato. E più o meno degne di nota, in questo contesto, come studi dentistici. No, negli USA le persone sentono ancora la chiamata, o almeno alcuni di loro, e si sentono attratti dal vuoto trascendente e rispondono costruendoci sopra una riproduzione fatta con le bottiglie di birra di un posto che non hanno mai visitato, o erigendo una casetta per pipistrelli gigantesca in una qualche parte del paese che tradizionalmente i pipistrelli hanno sempre evitato di visitare. Trappole per automobilisti: la gente si sente attratta irresistibilmente verso luoghi dove, in altre parti del mondo, riconoscerebbero quella parte di sé che è realmente trascendente, e invece comprano un hot dog e si fanno un giro, sentendosi soddisfatti a un livello che non possono davvero descrivere, e profondamente insoddisfatti a un altro livello, sotto di quello».
«Hai delle teorie davvero bizzarre», disse Shadow.
«Non c’è niente di immaginario in loro, giovanotto», disse Wednesday. «Dovresti averlo capito, ormai».
(American Gods, Neil Gaiman)
Finisco segnalando che il documentario sarà proiettato giovedì 24 gennaio alle 19 alla Comunità La Collina di Serdiana.