Dipinti di carne e sangue
Il sempre mai abbastanza lodato aggregatore quotidiano di notizie mi ha proposto tempo fa questo bell’articolo del New Yorker Magazine. Tratta una serie di temi – la storia dell’arte, l’apprezzamento dell’arte ai giorni nostri, i mercanti d’arte, l’ambiente degli appassionati d’arte, il rapporto fra arte intesa in senso classico e nuovi media che non sono quasi mai comparsi sul blog. Quello che però è già comparso, e che questo articolo dimostra, è che la realtà supera qualunque romanzo.
Ah, e ho deciso che mi appassionerò a Rembrandt. A partire tipo da subito.
Solite note di traduzione: ho lasciato i link originali, anche se puntano a articoli in inglese, compresi uno che era, diciamo così, pubblicitario. Invece ho sostituito le immagini con altre disponibili su Wikipedia. Le foto originali, che mostrano fra l’altro i protagonisti della storia nel loro ambiente naturale (cioè attorniati da opere d’arte dal valore inestimabile) meritano peraltro di essere viste e sono un motivo in più per visitare l’articolo originale. Il titolo originale faceva più esattamente Rembrandt nel sangue: ho tradotto con DNA, che è corretto, ma il riferimento è anche a una passione molto materiale e capace di generare odi o quanto meno rompere amicizie, come scoprirà chi avrà la pazienza di leggere.
Rembrandt nel DNA: l’ossessione di un aristocratico, dipinti riscoperti e una faida nel mondo dell’arte.
Nessuno aveva scoperto un nuovo dipinto del maestro olandese per oltre quattro decenni – finché l’erede di una leggendaria famiglia di Amsterdam ne ha trovato due.
di Russell Shorto
La scoperta che ha messo a soqquadro la vita di Jan Six è avvenuta in un giorno di novembre del 2016. Six è un mercante d’arte olandese quarantenne con sede ad Amsterdam, che l’anno scorso ha attirato l’attenzione di tutto il mondo con la notizia che aveva scoperto un dipinto sconosciuto di Rembrandt, il il più venerato dei maestri olandesi – il primo Rembrandt precedentemente sconosciuto a venire alla luce in quarantadue anni. Non è arrivato alla scoperta setacciando chiese sperdute o facendosi largo nelle soffitte di case di campagna europee ma piuttosto, per come me l’ha descritta Six lo scorso maggio, mentre controllava la posta. Aveva appena portato a scuola i suoi due bambini piccoli (da vero olandese, in bicicletta: uno seduto sul manubrio e l’altro dietro). Il clima tipico della stagione, vento a raffiche e un inizio di pioggia non impedirebbero mai a un vero cittadino di Amsterdam dal salire sulla sua bicicletta – e le radici di Six affondano nella sua città tanto quanto è possibile – ma quando arrivò nel suo ufficio ne stava sentendo gli effetti. Waterkoud, “infreddatura da acqua”, è la parola olandese per indicare l’umidità gelida dei Paesi Bassi che si infiltra fin nelle ossa.
L’antidoto a quel sentimento è compresa in un’altra parola, gezelligheid, che si traduce più o meno in “accogliente comodità”, è la condizione che le persone in Olanda tentano di ottenere per l’interno delle loro case. Si tratta spesso di ciò che è descritto e celebrato nelle tele dei vecchi maestri dell’Età dell’Oro del XVII secolo, l’epoca che è la specialità di Six: calde scene domestiche, allegre compagnie che inalberano boccali, nature morte di tavolate ricolme di cibo. L’ufficio di Six, al piano terra di un edifico sull’Herengracht, uno dei molti canali della città – un canale lungo il quale era solito passeggiare Rembrandt in persona – ha la sua parte di gezelligheid. La costruzione risale ai primi anni del 1600. Antiche travi dividono il soffitto. La vista fuori della finestra è quella di ciclisti che passano a tutta velocità e dell’evocativa, sempre cupa superficie del canale che riflette le facciate triangolari degli edifici sul lato opposto.
Six quella mattina si fece un caffè e poi si sedette davanti alla pila della posta. Sbrigò le bollette e le altre seccature per prime, in modo da potersi dedicare con calma ai cataloghi delle prossime aste d’arte. Uno riguardava un evento a dicembre da Christie’s a Londra. Lo scorse rapidamente, quasi disinteressato: si trattava della vendita mattutina, che presenta oggetti meno importanti. I dipinti e le sculture più importanti sono sempre riservati alla sera.
[Rembrandt è morto 350 anni fa. Ecco perché è ancora importante al giorno d’oggi.]
E poi, mi ha raccontato, si fermò paralizzato. La foto lievemente scolorita del catalogo era quella di un ritratto di un giovane gentiluomo dall’aria piuttosto perplessa con un collare di pizzo e un caschetto da antenato dei Led Zeppelin. Ciò che per primo disse qualcosa a Six fu lo sguardo del soggetto (la cui identità rimane sconosciuta): «Attraversa l’immagine», disse. Six ebbe l’impressione di avere visto l’opera in precedenza, ma dopo avere sfogliato in lungo e in largo la sua biblioteca alla sua ricerca giunse alla conclusione che non era tanto l’immagine che gli sembrava familiare quanto la somma di tutti i segni rivelatori di un Rembrandt giovanile. Questi comprendono, secondo Six, l’umanità di quello sguardo, la rotondità del colpo di pennello e una disponibilità a utilizzare differenti stili di pittura all’interno della stessa opera.
Il dipinto era datato in un qualche momento fra il 1633 e il 1635. L’indizio definitivo era rappresentato dal particolare tipo di collare di pizzo, che fu al culmine della moda per un breve periodo e poi rapidamente fu abbandonato. Ciò che aumentò l’eccitazione di Six in particolare fu non solo che Christie’s non si era accorta che il dipinto era molto probabilmente di ano del maestro, ma che la casa d’aste l’aveva etichettato come: «cerchia di Rembrandt» – cioè, di un seguace. «Capisce il problema, no?», mi disse. Io stavo ancora cercando di ricomporre la soluzione dell’enigma quando non riuscì a trattenersi: «Rembrandt non era ancora famoso nei primi anni dopo il 1630, quindi non c’era nessuna cerchia. Ho capito subito che Christie’s aveva fatto un errore clamoroso».
Da quel momento in poi Six fu come un segugio sulla traccia. Scoprì che la provenienza del dipinto risaliva a sir Richard Neave, un mercante inglese del tardo ‘700 che aveva raccolto un’importante collezione d’arte, che aveva compreso opere di Thomas Gainsborough e John Constable; il dipinto era rimasto nella stessa famiglia per sei generazioni. Questo coincideva: aveva senso che un dipinto di un artista di primo piano avesse attirato un collezionista importante.
Six era così eccitato che balzò sulla bicicletta e pedalò per un breve tratto attraverso il centro di Amsterdam fino alla casa di Ernst van de Wetering, universalmente riconosciuto come una delle principali autorità su Rembrandt; ancora senza fiato, Six gli ficcò una fotocopia della foto sotto il naso. Come ci si aspetta da una persona la cui opinione ha un certo peso, van de Wetering al momento in cui vide l’immagine reagì con un tipico riserbo, ma ne fu incuriosito. «Sembrava un Rembrandt, ma mi era del tutto nuovo», van de Wetering mi ha detto successivamente. Six rifece la pedalata all’incontrario verso casa e comprò un biglietto d’aereo.
C’era qualche persona nella sala espositiva di Christie’s a Londra quando arrivò, mi disse Six, così si mise a guardare altri quadri finché non se ne andarono, poi si diresse verso il ritratto, lo studiò e gli fece diverse fotografie. «Ero sconvolto, perché faccia a faccia aveva un aspetto diverso», disse. «Aveva molta maggiore profondità».
Si fu attirato in maniera particolare dal pizzo sul colletto. Il pizzo era un indicatore di status lungo tutto il XVII secolo, e Six ritiene che Rembrandt avesse un modo caratteristico di dipingere quel tipo, che è chiamato merletto a tombolo. Altri artisti del periodo faticosamente riproducevano i suoi complicati dettagli in colore bianco sopra la giacca. Rembrandt faceva qualcosa che poteva parere l’opposto. Prima dipingeva la giacca, poi al di sopra l’area del colletto in bianco, poi usava il colore nero per creare gli spazi vuoti del colletto. E laddove altri pittori erano attenti a creare uno schema ripetuto nel merletto, Rembrandt intesseva un disegno più libero. Per chi lo guarda a pochi centimetri dal quadro, il colletto appare un geroglifico confuso; fate un passo indietro e acquista un senso. Six crede che questo fosse uno degli aspetti del genio di Rembrandt. «Aveva capito che una copia dipinta di uno schema ripetitivo, anche se corrispondeva all’originale, alla fine sembrava artificiale».
Dopo aver lasciato la sala di Christie’s, Six si diresse dietro l’angolo a un negozio di libri d’arte, dove trovò A Corpus of Rembrandt Paintings, la guida definitiva all’intera opera [a cura fra gli altri dello stesso Ernst van de Wetering, può essere consultato on line, NdRufus]. Sfogliò la sezione delle opera del decennio 1630 e si fermò quando arrivò a quel che stava cercando: il Ritratto di Philip Lucasz del 1635. L’originale era opportunamente conservato a poca distanza nella National Gallery, così si precipitò là e poco dopo si ritrovò davanti al quadro, a guardare avanti e indietro dal dipinto alle foto sulla sua macchina fotografica, sentendosi battere il polso all’impazzata mentre quello che era un sospetto si solidificava nella quasi certezza. «Sapevo che chiunque aveva dipinto questo aveva dipinto quello», disse.
Jan Six è un uomo alto e magro, azzimato fino quasi a volersi scusare, la cui espressione abituale contiene un accenno di qualcuno afflitto da un peso. Quel che si scopre è che il peso è il nome, che è in realtà Jan Six XI. Con una storia lunga quattro secoli, la sua famiglia aristocratica ha chiamato il primogenito Jan quasi ad ogni generazione. Il primo Jan Six, un uomo amante dell’arte, della cultura e della politica, è stato un vero rappresentante dell’Età dell’Oro olandese, il periodo nel quale un’esplosione di creatività nel’arte, nella scienza e nel commercio catapultò la piccola nazione all’avanguardia della vita e del pensiero europei. Quel Jan Six era il realtà un amico del grande Rembrandt van Rijn. Quando decise, in un qualche momento del decennio 1650, di farsi dipingere un ritratto, chiese a Rembrandt di fare gli onori del caso. Il risultato è una delle opere più ammirate del maestro, uno studio meravigliosamente pensieroso della sofisticatezza di una mezza età ben cosciente di sé, fatta con i caratteristici ruvidi colpi di pennello del tardo Rembrandt. Lo storico Simon Schama l’ha definito il più grande ritratto del XVII secolo.
Il primo Jan Six mmassò un’ampia collezione di dipinti, sculture e disegni di una varietà di artisti. Ma Rembrandt è al cuore della Collezione Six. In aggiunta al ritratto di Jan Six, che attualmente è assicurato per più di 400 milioni di dollari, c’è un grande ritratto della madre di Jan Six, Anna Wymer, insieme con cinque disegni e cinquanta incisioni originali dell’artista.
Man mano che la Collezione Six veniva trasmessa da una generazione all’altra essa cresceva, fino a includere opere di Vermeer, Bruegel, Hals e Rubens, insieme a qualche sparso Tiziano e Tintoretto. Lungo il percorso
gli è stato aggiunto un ammasso di ricchezze in termini di oggetti minori ma ugualmente significativi storicamente: mobili, gemme, medaglie, manoscritti, cassetti iene di argenterie, vetri veneziani, spazzolini da denti dal manico d’avorio, un anello con diamanti regalato a un componente della famiglia dallo Zar Alessandro I. Ma i dipinti sono sempre stati la
raison d’être della collezione, e lungo gli anni i Six hanno mostrato una tendenza a seguire l’inclinazione del progenitore. La collezione ora contiene non meno di 270 ritratti di componenti della famiglia.
Mentre i secoli si succedevano e i patrimoni artistici di altre grandi famiglie europee venivano dispersi e i musei divenivano i principali depositari di questi oggetti, la mistica della Collezione Six, che rimane nella casa di famiglia dei Six, è cresciuta. Per tradizione il Jan Six di ciascuna generazione diviene il custode della collezione e l’inquilino della casa, da un secolo un palazzo labirintico di cinquantasei stanze sul fiume Amstel nel cuore di Amsterdam. Ma Jan Six XI, il mercante d’arte, non è quel Jan, o perlomeno non ancora. Suo padre, Jan Six X – o, come preferisce essere chiamato, il Barone J. Six van Hillegom – regna ancora. Il Six più anziano, che ha settantun anni, è conosciuto nei circoli culturali come un uomo profondamente riservato (ha preferito non farsi intervistare per questo articolo) e anche per essere abbastanza suscettibile. Quasi tutti quelli con cui ho parlato hanno usato la parola difficile per descriverlo.
Ho incontrato il Six più anziano anni fa, quando facevo le ricerche per un libro sulla storia di Amsterdam e desideravo vedere l’interno della famosa casa dei Six. Dopo un tipico pranzo olandese a base di sandwich e latte in una cucina che sembrava appena uscita da un quadro di Vermeer – rivestimenti di legno scuro, pavimenti piastrellati, luce obliqua – mi accompagnò in giro per la casa: una deliziosa intersezione continua di corridoio e vecchie stanze imbottite di oggetti curiosi, alcuni dei quali inestimabili. Sebbene le sale espositive e gli ambienti abitativi fossero separati, la sensazione di essere contemporaneamente in una casa e in un museo era palpabile: ci si girava dopo avere ammirato un dipinto di Frans Hals e si notava un libro aperto e un paio di occhiali da lettura su un tavolino di lato, o una scopa e un raccoglino in un angolo. La mia impressione complessiva della visita fu come di qualcosa uscito da un romanzo di Thomas Mann: una grandeur sbiadita e un’aria di immobilità antica, su cui vegliava un aristocratico incartapecorito e lievemente contrariato.
Il Six più anziano può essere divenuto noto per la sua litigiosità, ma riguardo alla sua battaglia più pubblica, una lite giudiziaria pluriennale contro il governo olandese per avere mancato di rispettare un accordo per pagare per la gestione della casa, secondo alcune persone aveva le sue ragioni, «Un politico di sinistra ritenne che fosse ridicolo dare denaro a una famiglia che era già ricca, e così interruppe il sostegno economico», dice Frits Duparc, ex direttore del museo Mautishius di Le Hague, che ha svolto il ruolo di mediatore nella disputa. «Ma il fatto è che la famiglia non è così ricca perché gli oggetti d’arte sono stati da molto tempo affidati a una fondazione». La fondazione è stata creata in parte per tenere la collezione unita, e quindi all’interno del paese. Nel passato la famiglia era stata costretta a vendere dei Vermeer e altri tesori nazionali per far quadrare i conti.
Alla fine, nel 2008, la lite fu chiusa da un accordo: una fondazione possiede il palazzo dei Six, la famiglia ha diritto di viverci in perpetuo e lo stato fornisce i fondi per il suo mantenimento. In cambio, i Six permettono un limitato accesso del pubblico alla collezione.
L’ossessione di Jan Six per Rembrandt (è lui a chiamarla così) è iniziata con il suo incontro infantile con il ritratto fatto dal maestro dell’antenato che porta il suo nome nella salone blu della casa di famiglia dei Six. Six può parlare di Rembrandt all’infinito, in maniera avvincente e con grande passione. «Ciò che differenzia Rembrandt è la sua abilità di dipingere la persona», mi ha detto. «Quando vado in giro per un museo e c’è un Rembrandt, io lo incrocio come potrei fare con una persona, osservandola con la coda dell’occhio, pensando: Ehi, chi è quello? come se fosse qualcuno che conosco. È una persona umana vivente». Al contrario, non ha una grande opinione dell’altro titano dell’Età dell’Oro olandese: «So che molti americani amano Vermeer. A me personalmente non piace. È un trucco: effetti ottici. Io penso che se poneste La ragazza dall’orecchino di perla a fianco di un Rembrandt qualunque, vi accorgereste della differenza».
Fra i molti motivi dei secoli di fascinazione popolare nei confronti di Rembrandt – l’enorme quantità, così diversa e di tale qualità delle opere che ha prodotto, la pretora di stili con i quali ha fatto esperimenti, la sua stessa complessa biografia – forse il più tagliente è l’intuizione psicologica che mette in opera sui suoi soggetti, il modo con il quale le sue figure sembrano affrontare lo spettatore, per attrarlo dentro la particolare lotta di quel momento delle loro vite.
Questa concentrazione sull’individuo è stata una dimensione caratteristica dell’epoca dell’artista. L’Età dell’Oro olandese ha segnato una svolta via dai soggetti strettamente religiosi; improvvisamente le persone avevano interesse per la vita ordinaria e per se stessi, egli artisti seguirono questa indicazione. La pittura di ritratti divenne un’industria. Ma Rembrandt rimase un gradino sopra i suoi contemporanei. Molti di loro potevano dipingere qualcuno per come appariva. Ciò che rendeva Rembrandt così speciale per i cittadini di Amsterdam, che facevano la fila per commissionargli i loro ritratti, era il fatto che sembrava capace di andare sotto ls superficie, per arrivare a ciò che ognuno era.
Questa empatia può essere stata originata non solo dal genio di Rembrandt ma anche dalla sua vita. Molto presto era divenuto il più celebrato pittore del suo periodo, ma rifiutò di seguire le variazioni della moda e perse la stima generale. Spese più di quanto si potesse permettere e si ritrovò pesantemente indebitato. Perse sua moglie poco dopo il parto e iniziò una relazione con la balia della figlia, da cui tentò di liberarsi facendo ricoverare la donna in manicomio. Poi fece bancarotta. Sembra che sia vissuto nei suoi ultimi anni in una pena da lui stesso creata. Se l’Età dell’Oro olandese comportò una nuova intima attenzione all’individuo, Rembrandt applicò la regola a se stesso senza alcuno scrupolo. I sui autoritratti, specialmente quelli più tardi, sono esplorazioni impietosamente oneste dei pesi mentali che infliggiamo a noi stessi.
Alle pareti dello studio di Six a Amsterdam sono sempre allineati dei ritratti risalenti al XVII secolo: opere che ha comprato e su cui sta facendo ricerche o che sta facendo restaurare per rivenderle. Quando passai di là la scorsa estate, il dipinto del catalogo di Christie’s, Ritratto di un giovane gentiluomo, era appeso al posto d’onore. Six, che parla con un mormorio rilassante e che si riferisce a se stesso definendosi uno studioso-mercante, me ne fece fare una visita guidata. «Adoro il guanto e il polsino – molto elegante. Vede le pennellate? Ha cominciato qui e lentamente si muove verso destra e fa una curva. Poi aggiunge queste pennellate ampie. Poi dipinge le maniche, e il pezzetto che sta alla luce è dipinto col colore perché capisce che alla luce non si hanno linee nere, ma nell’ombra invece sì. Con grande intelligenza usa il modo col quale la luce effettivamente splende sul materiale. Lentamente ritorna nell’ombra».
Quando lavoravo al mio libro sulla storia di Amsterdam, Six mi invitò el suo studio e condusse una notevole piccola dimostrazione. Spense le luci e accese delle candele, e in un istante i dipinti furono trasformati. Essi assunsero una nuova energia; gli ori e i rossi e i toni della carne divennero più caldi. Il tremolio delle candele sembrava iniettare la vita nelle figure bidimensionali. Gli occhi di Six sfavillavano quando vide che avevo colto il punto: questi dipinti erano stati fatti per la luce delle candele.
Six mi stava aiutando a sperimentare la vita degli abitanti di Amsterdam del XVII secolo nel modo più tangibile: le minute differenze nel modo di vedere e di toccare che separano un’epoca storica dall’altra. Ma io giunsi a rendermi conto che mi stava dando anche uno sguardo dall’interno rispetto a qualcos’altro: la sua lotta di tutta una vita con la sua famiglia riguardo a ciò che ci si aspettava da lui in quanto erede della Collezione Six. Quand’era un ragazzo la grandezza della tradizione dell’arte occidentale poteva augurargli il buongiorno mentre andava a fare colazione, ma non lo faceva rabbrividire con la sensazione di un destino da compiere. Laddove i precedenti eredi – che erano avidi collezionisti, sebbene non professionisti del mondo dell’arte – sembrano avere accettato la responsabilità con equanimità, Six cercò di allontanarla. I Six sono parte della nobiltà olandese, ma da adolescente egli «ha tentato di non essere un aristocratico», mi ha detto il suo amico intimo David van Ede. «Ne era un pochino imbarazzato». Invece di appendere nella sua camera dei Rembrandt o dei Bruegel, si rivolse a dei poster: Bob Marley e i Guns N’ Roses. Odiava la scuola superiore, si procurò un lavoro da cuoco in un ristorante e per un periodo credette che diventare uno chef potesse essere la sua strada verso la ribellione. Quando i suoi genitori non c’erano organizzava delle feste nel palazzo. «Eravamo lì praticamente tutti i fine settimana», secondo van Ede. «Non dico che ci appendessimo ai lampadari, ma fumavamo, bevevamo Hieneken, andavamo in discoteche hip-hop, ci fermavamo a un Burger King e poi magari tornavamo a casa di Jan e dormivamo. Qualche volta facevamo scattare l’allarme».
Six sapeva ciò che ci si aspettava da lui ma si inalberava. «Nessuno vuole essere spinto in un angolo», mi ha detto. «Per tutta la tua vita senti che tutto quello che fai è in preparazione a seguire la linea tracciata da Jan Six. Ma ehi, io sono un individuo».
Si adeguò, tuttavia, almeno parzialmente, quando iniziò a interagire con le persone che si presentavano alla porta di casa, biglietto alla mano, per visitare casa sua. Furono queste persone ordinarie a far capire a Six che l’arte era la sua vocazione. «Qualche volta una delle guide era malata, e io davo una mano. Sulle prime ero spaventato. Poi vidi quanto erano felici e interessate quelle persone. E quando venivano a sapere che io ero Jan Six, e guardavano da me al ritratto di Rembrandt dell’altro Jan Six, vedevo che si emozionavano, perché collegavano il passato e il presente. Alcuni dei visitatori sapevano moltissimo di arte, e io li ascoltavo». Cominciò a guardare ai dipinti in modo diverso. Passarono dall’essere piatte rappresentazioni di gente ormai morta a espressioni estetiche che agivano come porte d’ingresso verso la storia. In particolare, il ritratto di Rembrandt del primo Jan Six fece presa su di lui: «Giunsi a comprendere che mi importa che gli occhi del dipinto siano geneticamente i miei occhi».
Six tentò di liberarsi del peso della sua eredità abbracciando l’arte che ne è alla base ma alle proprie condizioni. Studiò storia dell’arte all’università e poi fu assunto da Sotheby’s a Londra come uno specialista alle prime armi sui maestri antichi. Era bravo nel suo lavoro e si muoveva con facilità nel mondo internazionale della ricchezza e della cultura. Man mano, sembra, si attivò un gene familiare. Geert Mak, un autore olandese che ha scritto una storia della famiglia Six, mi ha detto che alcuni dei primi Six avevano una straordinaria acutezza visiva, che li ha guidati mentre ammassavano la loro collezione. «Anche questo Jan Six ce l’ha», dichiara. «È un talento eccezionale nel vedere attraverso un dipinto, di ricordarsi un gesto di un altro quadro visto anni prima, una memoria incredibile per i dettagli».
Man mano che cresceva professionalmente, Six giunse a ritenere di avere un diritto a esprimersi sulla collezione di famiglia. Ne seguirono una serie di scontri con suo padre, molti dei quali riguardo alla possibilità di garantire un maggiore accesso al pubblico che è stato sempre una difficoltà. Attualmente le visite della collezione, che sono solo su appuntamento, sono prenotate già fino al prossimo anno. Il quadro dipinto dal giovane Six è quello di un padre introverso che tenta di preservare un’eredità tenendo il mondo a distanza, che scopre man mano che deve anche combattere con un figlio socievole e estroverso che ritiene che il modo migliore di preservare quell’eredità è esattamente quello di condividerla col vasto mondo. Gli scontri resero il giovane Six progressivamente più esasperato: «Me ne andavo in bicicletta verso casa e pensavo: Cristo, papà, sto cercando di aiutarti».
Uno di questi dissidi era centrato, fra tutte le cose, sulle cornici. Alcuni dei ritratti della collezione, compreso il Ritratto di jan Six, hanno ornate cornici dorate, che furono montate dai Six del XIX secolo quando l’esibizionismo era di moda. Jan il giovane sostenne che si sarebbe dovuti tornare all’aspetto del XVII secolo, il che avrebbe significato le lisce e sobrie cornici nere che secondo lui erano l’ambiente naturale dei dipinti.
Questo era un altro punto della dimostrazione alla luce delle candele che Six mi aveva dato. «Se si mette una cornice dorata intorno a un Rembrandt, tutto ciò che è nel dipinto va cinque metri sullo sfondo, e ciò che è dorato diviene giallastro», disse. «Il dipinto deve competere col rumore della cornice. Se si elimina il rumore la bellezza emerge». Suo padre, tuttavia, era inflessibile sul fatto che i dipinti della collezione dovessero rimanere nelle cornici dorate. Il Six più giovane mi ha detto di credere che il suo dovere principale è nei confronti della collezione, incluso il modo con il quale gli antenati l’hanno tramandata. «Se si vive in una casa per decenni e la si vede come il nucleo della propria esistenza, in pratica si vive per la casa», mi ha detto. E invece lui sentiva un obbligo nei confronti dell’arte.
Per evitare altri scontri, Six fece un passo indietro. «Ho deciso che preferivo avere un padre per amico. Quindi la casa e la collezione non hanno niente a che fare con me. La nostra relazione è al suo meglio quando c’è una distanza».
Fino a relativamente poco tempo fa come il 1991, i dipinti degli artisti dell’Età dell’Oro olandese, del Rinascimento italiano e di altre epoche importanti della storia europea dominavano il mercato internazionale dell’arte. Ma in un’epoca digitale orientata al presente, nel quale c’è uno spostamento costante nell’equilibrio globale del potere (l’anno scorso la Cina è divenuta il secondo più grande mercato dell’arte nel mondo, dietro gli Stati Uniti), i vecchi maestri europei sono giunti a sembrare… vecchi. Nel 2018, l’ottantacinque per cento della lista di ARTnews dei duecento principali collezionisti dichiaravano di collezionare arte contemporanea in una forma o nell’altra; solo il sei per cento dichiarava di collezionare i vecchi maestri. E mentre i nomi di punta – Rembrandt, Tiziano, Raffaello – ottengono ancora cifre molto alte, il valore di tutto il resto è diminuito. «Se si compra un dipinto minore per tremila dollari, dopo un po’ varrà probabilmente duemila dollari», dichiara Otto Naumann, un importante mercante d’arte ora a Sotheby’s. «Si vede un simile declino alla soglia dei 300 000 dollari. Panorami, nature morte fiamminghe: il valore di molti di questi è diminuito».
Collegato al declino delle vendite è l’invecchiamento del settore. «Ci sono a malapena nuovi giovani collezionisti» che sono interessati ai vecchi maestri, mi ha dichiarato l’ex direttore del Mauritshuis Frits Duparc. «La maggior parte dei principali collezionisti hanno più di settanta o ottanta anni». Ci sono state diminuzioni anche nei programmi di studio universitari collegati e negli incarichi ai ricercatori, e nelle assunzioni di curatori nei musei. Duparc dice che in Olanda c’è esattamente un solo docente completamente dedicato al settore dell’arte olandese dell’Età dell’Oro. Matthew Teitelbaum, direttore del Museum of Fine Arts di Boston, dichiara che il Centro per l’Arte Olandese che la sua istituzione sta sviluppando intende contrastare questa tendenza. Ma riconosce la presenza di una sfida: «In questo momento preciso è un campo che si sta restringendo laddove i programmi universitari sono in calo e le cattedre sono lasciate vacanti». Per quanto riguarda i mercanti che si dedicano ai vecchi maestri, Duparc mi ha fatto notare che mentre pochi decenni fa c’erano dozzine di intermediari indipendenti, ora ve n’è solo uno sparuto gruppetto. La maggior parte degli scambi è stata assunta dalle grandi case d’arte, Sotheby’s e Christie’s.
Nonostante questo panorama inospitale, nel 2009 Jan Six decise di mettersi in affari come un mercante indipendente specializzato nei vecchi maestri olandesi, con uno speciale interesse per i ritratti. Dice che era era diventato insofferente della mentalità aziendale che aveva trovato da Sotheby, che considerava l’eredità artistica mondiale come un prodotto voluttuario da vedere a caro prezzo. «La maggior parte degli intermediari sono dei venditori», dice. «Potrebbero essere concessionari d’auto o agenti di Wall Street. Non penso davvero che si occupino di questo per il piacere estetico». Si trovò un elegante studio/biblioteca/ufficio ad Amsterdam, pochi isolati distante dai suoi genitori e dalla collezione di famiglia, e si mise in affari.
Come mercante Six ha prosperato. Ha trascorso diversi degli anni successivi a fare la spola fra New York, Londra, Parigi e Amsterdam, comprando e vendendo, sviluppando una reputazione di fiducia e un occhio sempre più perspicace. Il suo nome gli ha dato facile accesso ai principali collezionisti e ai direttori dei maggiori musei d’arte. È diventato esperto nei metodi tecnologicamente più sofisticati di analisi dei dipinti, che possono fornire dettagli sulla tela, il legno e i pigmenti che costituiscono indizi riguardanti un’opera e il suo autore. Se l’è cavata bene come intermediario – un Govert Flinck qui, un Gerrit van Honthorst là – ma gli sembrava sempre di essere ancora in una fase di attesa.
Quel che gli importava era Rembrandt. Six ha lavorato testardamente per fare di sé un esperto. Ha iniziato un pellegrinaggio per vedere faccia a faccia ciascuno dei 341 dipinti del maestro elencati dal Corpus, sparsi fra Omaha nel Nebraska e San Pietroburgo in Russia (sinora ne ha visto l’80%) e ha ammassato un archivio di decine di migliaia di documenti e immagini legate all’artista. Non è eccessivo dire che prende Rembrandt personalmente. Quando abbiamo parlato per la prima volta del ritratto da lui scoperto, ci ha tenuto a precisare cosa la sua scoperta volesse dire per lui: «Non ha niente a che fare con la mia famiglia», ha dichiarato, cosa che, come sapeva benissimo, era sia strettamente vero che totalmente falso. «Voglio che lei capisca che questa scoperta non riguarda mio padre o la Collezione Six. È completamente catartica. Per la prima volta nella mia vita, ci siamo solo io e Rembrandt».
Dopo aver studiato il ritratto del giovane gentiluomo nella sala di esposizione londinese di Christie’s, Six tornò ad Amsterdam con un altro volo e portò le foto che aveva fatto a Ernst van de Wetering, lo studioso di Rembrandt al quale aveva mostrato il catalogo. Van de Wetering ne fu ulteriormente intrigato, ma non volle dire nulla di più al momento finché non l’avesse visto di persona. Per Six era abbastanza: era pronto a fare un’offerta. La base d’asta era fissata fra 19 000 e 25 000 dollari: noccioline se il ritratto si fosse rivelato quel che pensava fosse. Ma se qualcun altro avesse sospettato ciò che sapeva, il prezzo sarebbe schizzato in alto. Un Rembrandt, naturalmente, può vendere per decine o centinaia di milioni. Nel 2015 il Rijksmuseum, il grande scrigno dell’arte e della storia olandese e la casa de La ronda notturna di Rembrandt, in società con il Louvre ha acquistato una coppia di ritratti a figura intera, in dimensioni reali, di una coppia di sposi, di mao di Rembrandt e datati 1634, esattamente lo stesso periodo della scoperta di Jan Six (entrambi i personaggi hanno il colletto di pizzo a tombolo rivelatore). I musei hanno pagato 174 milioni di dollari per la coppia.
Six contattò un investitore con cui aveva lavorato nel passato (non vuol dire chi sia) e ottenne luce verde. Six mi disse che l’investitore era disponibile a pagare fino a quattro milioni di sterline (circa cinque milioni di dollari), che sarebbe stato comunque un prezzo d’occasione per un Rembrandt. Alla fine
l’offerta vincente di Six fu di 137 000 sterline (173,000 dollari). Il prezzo era più o meno corretto per un dipinto della cerchia di….
Six fece pulire, restaurare e analizzare scientificamente il dipinto. Per far questo si rivolse al miglior gruppo del paese per quanto riguarda l’analisi di opere d’arte con tecnologie avanzate. Petria Noble, responsabile della conservazione delle opere pittoria al Rijksmuseum, mi ha detto che il suo laboratorio eseguì una scansione ingrandita a fluorescenza a raggi-X del dipinto – una tecnologia che penetra attraverso i diversi strati di pittura e permette una analisi sofisticata del lavoro, e quindi del procedimento dell’artista – e studiò anche dei campioni di pittura. Poiché il Rijksmuseum aveva, insieme al Louvre, acquistato recentemente una coppia di ritratti di matrimonio di Rembrandt, c’era la possibilità di confrontarli direttamente col giovane gentiluomo di Six, specialmente col ritratto dello sposo, Marten Soolmans. .
Le analisi mostrarono, come Six dichiarò nel libro che scrisse nel 2018 riguardo al dipinto, che le due opere: «furono fatte con esattamente gli stessi materiali, seguono lo stesso schema nella sovrapposizione degli strati di colore dal fondo al fronte e, cosa più importante, entrambi hanno lo specifico metodo del nero-su-bianco utilizzato per dipingere il colletto di pizzo». In altre parole, voleva dire, il suo dipinto era tanto di Rembrandt quanto quello che era costato decine di milioni di dollari.
I musei, tuttavia, tentano di evitare di essere utilizzati dai mercanti come strumenti di pubblicità, e Noble non voleva essere altrettanto esplicita. «Dobbiamo essere molto attenti quando si tratta di giungere a una conclusione», dice. «Ci sono molte somiglianze e ancora molte domande che richiedono ulteriori ricerche».
Il passo successivo di Six fu quello di schierare importanti studiosi che sostenessero la sua attribuzione del dipinto a Rembrandt. Vale la pena di notare che alcuni non volevano farlo – non perché credessero davvero altrimenti, ma come parte di un movimento in favore del riconoscimento delle aree grige nella storia dell’arte. Per un dipinto simile, che apparentemente spuntava dal nulla, non c’è modo di acquisire l’assoluta certezza della sua provenienza. «Quando Jan venne da me col suo dipinto dovetti ammettere che non potevo discutere le sue argomentazioni», mi ha detto Gary Schwartz, un biografo statunitense di Rembrandt e un’autorità sull’arte olandese del XVII secolo. «E gli dissi che non avrei espresso dubbi sul fatto che >Rembrandt fosse l’autore. Ma non mi rende felice» essere così perentorio. Proseguì spiegando le particolari difficoltà che Rembrandt pone agli autenticatori: la varietà di stili coi quali dipingeva, i suoi molti allievi, la probabilità che nella bottega più di una persona lavorasse su un dato dipinto. Un dipinto che si stabilisca essere, diciamo, della bottega di Rembrandt, piuttosto che di Rembrandt in persona, sarebbe di minor valore. Schwartz è uno fra diversi storici dell’arte che, quando si arriva alla questione dell’autenticità delle opere di famosi pittori, preferirebbe che ci si focalizzasse meno sull’artista e sul valore monetario dell’opera che sull’opera in sé. Egli usa il termine remembrandticità e sostiene che si dovrebbero assegnare gradi di verosimiglianza al fatto che un’opera sia dell’artista in persona. Riguardo alla remembrandticità di questo specifico ritratto dice: «L?attribuzione a Rembrandt è l’ipotesi da battere, ma può non essere imbattibile».
I musei cercano di rispettare la remembrandticità. La National Gallery of Art di Londra, per esempio, cataloga il Vecchio in poltrona come probabilmente di Rembrandt, e il museo Mauritshius recentemente ha annunciato che sta intraprendendo una ricerca accurata su due dei suoi presunti Rembrandt per cercare di determinare la possibilità che siano di mano del maestro. «Io credo che la remembrandticità sia un’idea intelligente», dice Ronni Baer, curatore anziano della sezione sui dipinti europei al Museum of Fine Arts di Boston. «Ma le persona non ne saranno mai soddisfatte perché c’è troppo denaro legato all’attribuzione».
Il parere più importante sul fatto che il dipinto fosse o no di Rembrandt era quello di van de Wetering. Lo studioso di Rembrandt trattenne il giudizio mentre il dipinto veniva analizzato. «Man mano che il restauro procedeva ero sempre più convinto», mi ha detto van de Wetering. «Pensavo che Jan Six fosse nel giusto nella sua valutazione.
In conclusione, però, aggiunse un importante avviso. Egli crede ora che il dipinto di Six fosse originariamente parte di un lavoro più grande. Un indizio è il fatto che la faccia sia lievemente sfocata. Rembrandt lo fa nei ritratti di gruppo, mi ha detto van de Wetering, per guidare l’occhio verso la figura centrale della composizione. «L’altra figura doveva essere lievemente più in avanti», disse. Può essere stata una figura femminile, e l’originale poteva essere forse un ritratto di matrimonio che in seguito venne diviso. In una intervista successiva a un giornale olandese van de Wetering affermò che se si trattava, come pensava, «di un frammento di un’opera maggiore», questo ne avrebbe diminuito l’importanza.
Il giorno dopo che Jan Six si imbatté nel ritratto del giovane gentiluomo nel catalogo di Christie’s, ancora nel 2016, egli incontrò una donna di nome Ronit Palache. Stava uscendo da un divorzio difficile; i due si trovarono in sintonia quaasi immediatamente. «Una delle prime cose che mi disse fu: «Credo di avere scoperto un Rembrandt» », mi ha detto Palache lo scorso luglio. «Quando abbiamo iniziato a uscire insieme, ne parlava continuamente».
Palache era una redattrice e editorialista per una casa editoriale olandese. Racconta che Six le disse che intendeva scrivere un trattato accademico che accompagnasse la rivelazione e che quando lei guardò alle note le trovo noiose. Cominciò a concepire un’idea. Ecco l’ultimo discendente di una famiglia che è famosa in Olanda per la sua connessione con la grande arte, e con Rembrandt in particolare. E ora ha scoperto un Rembrandt tutto suo. Come giornalista, «guardavo alla cosa in maniera commerciale», dice.
La sua idea fu quella di svelare il dipinto nello stesso modo col quale si sarebbe lanciato un libro di cassetta, con una campagna mediatica completa. Six dapprima resistette. «Dissi che non c’era un gran pubblico per quello», dice. «I vecchi maestri sono di solito roba per cittadini anziani che hanno tempo libero». Palache controbatté e alla fine lui seguì la sua linea. «Non facevo altro che convincere Jan di quanto sarebbe stata importante questa storia», dice.
A maggio 2018, quansi un anno e mezzo dopo che Six vide il dipinto a Londra, egli apparve a Pauw, uno dei più importanti talk show olandesi. Dopo una breve presentazione il conduttore della trasmissione, insieme con Six, ritirò un velo nero da sopra il quadro fra le esclamazioni entusiastiche del pubblico. L’apparizione in TV era il pezzo forte della campagna mediatica, che comprendeva anche un servizio in esclusiva in prima pagina sul principale quotidiano del paese, NRC Handelsblad, e un libro patinato, Il ritratto di Rembrandt di un giovane gentiluomo, che Six scrisse sul dipinto. Nei giorni successivi la notizia rimbalzò in tutto il mondo. Il libro divenne un best seller immediato in olandese e le edizioni inglese e francese furono messe in cantiere.
Gli olandesi amano far notare che, presi nel complesso, sono aggressivamente egualitari e abituati a parlare chiaro. Nella lingua ci sono molti proverbi che riguardano il pericolo dell’hybris: l’albero più alto prende più vento; sporgi la tua testa troppo in avanti e te la taglieranno. Anche il mondo dei vecchi maestri tende a preferire la discrezione – se non la modestia – all’esibizionismo. La stravaganza con la quale Six ha annunciato la sua scoperta sfidava entrambe le culture. Tuttavia i custodi dell’arte tradizionale, lungi dall’arricciare il naso alla spettacolarità, furono inizialmente troppo impressionati dall’attenzione in più che il loro settore stava ricevendo. Wim Pijbes, ex direttore del Rijksmuseum, a quel tempo mi ha descritto la rivelazione in diretta televisiva come: «un’impresa molto ben lanciata, e assolutamente sorprendente».
Mentre l’ondata di entusiasmo popolare si stava riversando su Six, gli chiesi perché, se la sua separazione da Sotheby’s era stata motivata dal fastidio per la mercificazione dell’arte, ora vi sta partecipando volontariamente. Si strinse nelle spalle e mi restituì un mea culpa in una sola frase: «Sono un uomo d’affari!». Ma più tardi mi offrì una risposta più introspettiva: «Per anni ho lottato dentro di me con l’idea di provare che conosco qualcosa sulla pittura solo grazie a me stesso. Sono contento che ciò che stanno scrivendo nei vari articoli sinora, dall’America alla Cina, riguarda me come mercante, e non come Six».
Nel settembre 2018, quattro mesi dopo che Six aveva fatto la sua esibizione televisiva e quasi due anni dopo la vendita da Christie’s, un mercante d’arte olandese di nome Sander Bijl di Alkmaar, una città a nord di Amsterdam, parlò con un giornalista di NRC Handelsblad e dichiarò che, in realtà, anche lui aveva riconosciuto l’immagine del catalogo come molto probabilmente quella di un Rembrandt. Bijl giunse fino al punto di dichiarare di avere contattato Six per comprare il dipinto insieme, che Six si era detto d’accordo e che i due avevano inoltre concordato di mettere un tetto alla loro offerta congiunta appena sopra i 100 000 euro, che era il massimo a cui Bijl poteva arrivare. Quando il dipinto fu venduto per 153 000 euro, disse Bijl, non gli era mai venuto in mente che il vincitore dell’asta potesse essere Six. Bijl accusava Six di avere fatto un patto con lui e poi separatamente di avere fatto per conto suo un’altra offerta, più alta, tramite un intermediario, per tagliare fuori un concorrente che aveva riconosciuto il vero valore dell’opera. Nelle parole che ha usato con me un altro mercante specializzato nei vecchi maestri, «Nel nostro campo queste cose non si fanno».
L’intervista del giornale a Bijl che dichiarava che Jan Six, il pupillo del mondo dei vecchi maestri, era un baro, si diffuse per tutta la comunità internazionale dell’arte. Bijl più tardi mi disse che non aveva avuto altra scelta che farsi avanti per proteggere la sua reputazione – sentiva che avrebbe fatto una brutta figura fra i mercanti e gli altri esperti del settore se si fosse creduto che aveva mancato un Rembrandt. Era furioso per il fatto che durante il disvelamento televisivo del ritratto e nelle successive apparizioni mediatiche Six avesse descritto il processo di scoperta, ricerca e acquisto come un’impresa totalmente personale, nella quale era stato aiutato solo dalla perizia di van de Wetering e dai fondi del suo sostenitore anonimo. «Jan Six se ne andava in giro con la sua scoperta che solo lu era stato ing rado di fare, dicendo: «Sono tutti gli altri del settore a essere stupidi, o sono io tanto intelligente?». Sapeva benissimo che l’avevamo capito tutti e due». Bijl mi ha inoltrato una serie di messaggi WhatsApp che aveva mandato a Six prima della vendita da Christie’s, che comprendevano istantanee di parti della tela, che descrivevano il suo personale studio in merito. Queste sembravano provare che Bijl aveva visto il dipinto di persona prima che Six arrivasse alla sala di esibizione di Christie’s.
Six mi ha detto lo scorso settembre di nona vere mai stretto un accordo con Bijl per comprare il dipinto. Mi è parso suggerire, tuttavia, di avere spinto l’altro mercante su una falsa pista. «Ero molto preoccupato che Sander potesse avvisare la casa d’aste che avevano in mano qualcosa di speciale», mi ha detto. «E Christie’s avrebbe tolto il quadro dalla vendita, cosa che mi è già accaduta. Gli ho detto: «Cosa vuoi fare?» ». Six pretende che con questo intendeva: «Che cosa vuoi fare tu?», ma che Bijl lo ha preso come un accordo che avrebbero lavorato insieme sul quadro. Six ha detto al giornale De Volkskrant lo scorso ottobre: «Ho dato spazio a Sander perché credesse alla sua stessa storia».
Gli olandesi trovarono particolarmente gustoso il nuovo sviluppo a causa dei paralleli fra i due mercanti d’arte. Hanno più o meno la stessa età. Il padre di Bijl, Martin Bijl, è uno dei più importanti restauratori d’arte d’Olanda, il cui curriculum di dipinti rimessi a nuovo include molti Rembrandt. Come Six, Sander Bijl è cresciuto circondato dalla grande arte olandese. Ma c’era una differenza di ceto i due uomini. «Io sono il tipo di mercante che ha uno stand alle mostre d’arte», mi ha detto Bijl. «Jan Six non se ne dà la pena. Io sono il povero Sander Bijl da Alkmaar; lui è l’aristocratico Jan Six da Amsterdam».
Sull’onda delle accuse di Bijl, Six mi ha rivelato un’altro elemento di informazione che sembrava ridurre a minime dimensioni il litigio fra i due mercanti d’arte. In precedenza gli avevo chiesto conto di una voce in circolazione secondo la quale aveva scoperto un secondo Rembrandt. Lui l’aveva negato. Ora disse che era vero. Six disse di aver trovato quest’altro Rembrandt due anni prima di notare il ritratto da Christie’s ma di avere concordato di non rendere pubblica la scoperta fino alla fine del 2019, quando sarebbe stato il pezzo forte della riapertura del museo Lakenhal a Leida, la città di nascita di Rembrandt, nella coincidenza del 350° anniversario della morte dell’artista. Ma questa accusa da aprte di Sander Bijl, mi disse, aveva cambiato le cose. Per poter spiegare ciò che era successo fra lui e Bijl, disse, doveva rendere pubblica la notizia che aveva scoperto un secondo Rembrandt. Lo fece il 14 settembre, con un’altra teatrale rivelazione da Pauw.
Six mi ha detto di avere notato per la prima volta il dipinto, una scena biblica che raffigura Gesù circondato da bambini e curiosi nel catalogo on line di una casa d’aste tedesca nel 2014. Tutti quegli anni di studio di Rembrandt sembrarono dare il loro frutto in un lampo. Ciò che catturò il suo sguardo fu quello che sembrava un autoritratto di un giovanissimo Rembrandt in una delle figure di contorno. Il dettaglio colpì Six non solo perché assomigliava tanto da vicino ad altri autoritratti dell’artista ma anche perché coincideva con la tendenza giovanile di Rembrandt di inserire la sua immagine nei suoi dipinti. Il dipinto aveva una stima provvisoria fra i 20 000 e i 27 000 dollari, ma il mercante Otto Naumann l’aveva anch’egli individuato come un possibile Rembrandt ed era determinato a comprarlo. Di conseguenza Six, insieme con il suo investitore anonimo, finì col pagarlo due milioni di dollari. Si pensa che sia stato dipinto molto presto nella carriera di Rembrandt, forse quando era solo diciannovenne, e che sia il suo primo lavoro conosciuto su tela.
Il dipinto era stato pesantemente modificato da un altro artista più tardo – gli abiti rifatti in differenti colori, un ragazzo nudo ricoperto. Per tentare di riportarlo a qualcosa di simile alla condizione voluta dal maestro, Six decise di far rimuovere il nuovo strato di pittura. Ancora una volta si consultò con van de Wetering che, dice, insistette assolutamente che fosse Martin Bijl a fare il lavoro estremamente delicato del restauro. «Io non volevo, ma Ernst fu assolutamente inflessibile al riguardo», mi ha detto, apparentemente sottintendendo che se voleva la benedizione dello studioso di Rembrandt, doveva lavorare con il padre di Sander Bijl. Six dice che si mise d’accordo con Martin Bijl per restaurare il dipinto, e che fu mentre il minuzioso lavoro era in svolgimento che Six scoprì il ritratto nel catalogo di Christie’s e lo mostrò a van de Wetering.
Non molto dopo Sander Bijl, il figlio del restauratore, mandò a Six un messaggio su WhatsApp: «Jan, mi risulta che hai parlato con Martin e Ernst a riguardo del ritratto che sta per andare all’asta». Ma Six non aveva parlato a Martin Bijl del ritratto. Dice che gli sembrò chiaro da questo messaggio che van de Wetering aveva tradito la sua fiducia con l’informare Martin Bijl che Six era sulla pista di un altro Rembrandt, e che il padre l’aveva detto al figlio. Egli ripeté questa affermazione da Pauw a settembre 2018, così come il fatto che van de Wetering lo aveva spinto a utilizzare Martin Bijl. «Improvvisamente Sander stava cercando di entrare nelle mie grazie», mi ha detto Six, e avanzava proposte perché i due comprassero il ritratto insieme. Nel frattempo, dice, Martin Bijl chiedeva più denaro epr completare il restauro del primo dipinto – non solo una tariffa oraria, come previsto dall’accordo originale, ma una percentuale dei profitti della vendita del dipinto. «Era una forma di ricatto», disse Six.
Ho mandato una e-mail a Martin Bijl per chiedere la sua risposta a questa accusa. Non ha risposto ma lo ha fatto suo figlio, dicendoc he suo padre chiese più denaro dopo che Six chiese che accelerasse il suo lavoro di restauro, cosa che avrebbe comportato che rifiutasse altri clienti. Mi mandò una serie di messaggi WhatsApp fra Six e Bijl padre che sembravano indicare una relazione cordiale.
Sander Bijl non ha negato di avere appreso dell’interesse di Six per il dipinto attraverso suo padre, che a sua volta lo aveva sentito da van de Wetering, ma dice che simili interazioni sono normali e inevitabili all’interno del mondo ristretto dei vecchi maestri olandesi. Ma dice che al momento nel quale suo padre gli disse dell’interesse di Six per il ritratto, lui aveva già capito che Christie’s stava vendendo un possibile ritratto di Rembrandt come opera di un pittore minore. Mi inoltrò una mail che mandò a Christie’s a novembre 2016 con la richiesta di una foto ad alta risoluzione del dipinto, che era datata giorni prima di quando Six stesso mi disse di averlo visto per la prima volta – indicando, in altre parole, che aveva notato il quadro per conto suo. Disse che lui e Six avevano fatto occasionalmente affari insieme in precedenza – aveva comprato un paio di piccole opere da Six all’inizio dello scorso anno – cosicché era normale per lui contattare Six con l’idea di comprare il dipinto insieme.
Quando parlai a Sander Bijl al telefono lo scorso dicembre, dopo che la sua disputa con Six era rimbalzata sui mezzi di comunicazione olandesi per qualche mese, egli mi suggerì che lo sforzo di Six di cancellare il coinvolgimento di Bijl nell’acquisto del dipinto sorgeva dalla lotta di Six coi suoi demoni interiori. «Ha un problema col peso del cognome Six, e sente il bisogno di provare se stesso. Devo pagare io per i suoi personali problemi familiari? No. Mi ha imbrogliato».
Insieme con titoli come: Lo scopritore del Rembrandt Jan Six accusato di truffa per Six arrivò un’altra sgradevole sorpresa. Van de Wetering, nell’ammirazione del quale Six aveva passato tutta la sua vita professionale, diede una risposta corrosiva all’affermazione di Six di averlo costretto a utilizzare Martin Bijl e di averne violato la riservatezza. Sebbene solo due settimane prima van de Wetering mi aveva detto che lui e Six avevano «una grande intesa», sull’onda delle accuse di Six egli dichiarò a NRC Handelsblad: «Six ha mostrato la sua vera natura. Adesso so che può mentire». Dichiarò che la loro amicizia era finita. Nonostante questo, nella stessa intervista van de Wetering diede una valutazione sfavillante dell’altra scoperta di Six. Il dipinto biblico, dichiarò, era «una grande scoperta» che «mostra una fase dello sviluppo del giovane Rembrandt».
Quando io e Six ci incontrammo di nuovo in ottobre, aveva un atteggiamento molto insofferente. Ha lunghi capelli scuri che, quando è esasperato, tendono a ricadergli sulla faccia come un sipario. Se li artigliava via dalla faccia con una mano mentre elencava le sue ragioni. Continuava a dire che Sander Bijl stava solo cercando di sfruttare il successo personale di Six. «Qiando Dan Brown ha scritto Il codice Da Vinci ha subito ogni genere di cause legali», disse. «Francamente, penso di essere fortunato che ho un solo tizio che mi dà addosso». Scacciò via con un gesto della mano la mia ipotesi che la sua fissazione su Rembrandt avesse offuscato il suo giudizio professionale. Non era nemmeno disposto a dare credito alle prove apparentemente evidenti che Bijl si fosse accorto da solo che il ritratto era un possibile Rembrandt. E manifestò amarezza per il fato che un complotto di altri, motivati, disse, da gelosia e avidità, avesse macchiato quello che doveva essere il suo grande successo personale e professionale e oscurato un risultato senza precedenti: «Nella storia dell’umanità nessuno mai prima ha scoperto due Rembrandt».
Nonostante il suo declino nel mercato e nei piani di studi universitari, l’arte dei vecchi maestri olandesi continua ad avere grande richiamo popolare. Il successo negli anni del libro e del film La ragazza dall’orecchino di perla e del romanzo di Donna Tartt Il cardellino – che ha al suo centro un dipinto dell’artista olandese del XVII secolo Carel Fabritius e che sta ora venendo adattato per un film – corrispondono all’afflusso di pubblico alle mostre dei musei. Dopo che il Rijksmuseum e il Mauritshuis hanno riaperto dopo lavori di ristrutturazione pochi anni fa ciascuna istituzione ha visto il numero dei propri visitatori grosso modo raddoppiare. «Nel campo dei vecchi maestri io credo che l’arte olandese sia molto più avvicinabile che, diciamo, l’arte religiosa o l’enfatico barocco italiani», dichiara Ronni Baer, curatore del Museum of Fine Arts, cercando di spiegarne la popolarità. «Tutti possono capire una natura morta o un dipinto d’interni».
Se parte del mondo legato ai vecchi maestri, che sa quanto sia popolare l’arte fra le persone della strada e spera di invertire il declino nell’accademia e nel mercato, aveva fatto il tifo per Jan Six quando aveva fatto le sue scoperte era sicuramente perché lo vedeva come un attraente giovane campione della causa. Ha il pedigree, naturalmente. Ma oltre a quello, comprende in maniera così completa ciò che rende quest’arte speciale. Voltando le spalle ai soggetti strettamente religiosi e mettendo in mostra il mondo intorno a loro – nature morte, panorami, rappresentazioni gli uni degli altri – i pittori del tempo crearono opere d’arte che sono finestre su chi noi siamo. Le persone che dedicano la loro vita a questo campo lo fanno per un senso di dedizione e lo vedono come una causa. «Dobbiamo combattere per l’importanza dell’arte olandese», dice Emilie Gordenker, direttrice del Mauritshuis, casa sia de La ragazza dall’orecchino di perla di Vermeer che de Il cardellino di Fabritius. «Dobbiamo assicurarci che le storie di questi dipinti abbia ancora importanza».
Alcune delle persone più importanti del settore – direttori di museo, curatori, accademici – ha espresso disappunto nei confronti di Six dopo la sua debacle, sebbene nessuno ha voluto discuterlo pubblicamente. «È una cosa molto triste, perché già le persone sospettano i mercanti d’arte di essere viscidi», ha detto uno. «Posso dirvi che alcune persone parlano di Six come di Icaro».
Un mercante mi ha detto che Six ha fatto un errore da uomo giovane nell’affrontare la controversia. «Avrebbe dovuto muoversi immediatamente per sistemare la questione senza chiasso». Anche se pensava di avere ragione, ha argomentato il mercante, la cosa prudente avrebbe dovuto essere quella di raggiungere un accordo al fine di preservare la propria reputazione. «Questo settore è basato sulla fiducia», ha proseguito il mercante. «Le persone devono fidarsi di te – e del tuo dipinto». Per sottolineare questo punto il mercante mi disse che lui stesso aveva chiesto a un importante compratore se voleva che lui gli procurasse un’offerta per uno dei due dipinti portati alla luce da Six, ma che il compratore aveva risposto: «Non con quella controversia in merito».
Nel più vasto mondo, tuttavia, le controversie svaniscono. L’ultima volta che ho parlato con Jan Six, a febbraio, l’ho trovato di umore completamente diverso. Per commemorare il 350° anniversario della morte di Rembrandt, quest’anno, l’emittente olandese NPO gli ha chiesto di registrare una serie TV di cinque puntate nella quale Six vagabonda per le strade dove il pittore ha vissuto, si ferma davanti agli edifici di Leida dove è andato scuola e si interroga di fronte a vari capolavori. È SIx che fa quello che sa fare meglio: comunicare la sua passione, questa volta davanti a un pubblico molto vasto, cosa che è nuova per lui. «Ci sono centinaia di migliaia di persone che mi guardano alla televisione e a cui piace», ha detto. «Improvvisamente persone di ogni genere mi contattano. Alcuni hanno un vecchio dipinto che vogliono che io esamini. Una donna mi ha appena chiamato. MI ha detto che sta per compiere settantacinque anni e che la su gemella è pazza di Rembrandt.Mi ha chiesto se c’era un modo per il quale mi potessi fermare al suo pranzo di compleanno e parlare di Rembrandt per dieci minuti. Così carina – ovviamente ci andrò! Tutto questo mi ha dato un grande slancio».
Gli ha anche dato un po’ di distanza dalla bolla, come chiama all’élite artistica, e gli ha permesso di cominciare a far eun passo avanti rispetto al suo anno emozionante e straziante. «È stato epico e fantastico», dice, «e poi tutto è cambiato. Ho capito che essere così ossessionato con un pittore non è necessariamente una buona cosa. Ma naturalmente lo sono ancora».
Se vi capita di passeggiare per il centro di Amsterdam, c’è un punto dal quale è possibile guardare in faccia Jan Six – il Jan Six originale, cioè. Il suo ritratto è collocato nel palazzo Six in modo tale che, allungando un po’ il collo, è visibile dal marciapiede di fronte. È in una stanza al primo piano, e guarda dall’alto verso di voi. Jan XI ama parlare di quel che fa Rembrandt con gli sguardi. Questo, il suo antenato e primo del suo nome, sembra preso in un vortice di malinconia: una consapevole, stanca coscienza delle frustrazioni e limitazioni della vita umana.
Questa è stata l’epifania che Jan Six XI ha avuto da adolescente, guardando al ritratto del suo antenato, che lo ha condotto alla ricerca della sua propria identità, distinta da quella dei suoi predecessori: che qualcuno di tre secoli e mezzo fa potesse, con colori e tela, trasmettere l’essenza umana in maniera tale che fosse completamente comprensibile oggi. Che perciò, forse, l’identità, con tutti i suoi difetti e insicurezze, i suoi zampilli di intuizione e fontane di empatia, per quanto individuale sia, sia allo stesso tempo universale.
Russell Shorto è uno scrittore free lance e l’autore di Revolution Song, Amsterdam e The Island at the Center of the World [in italiano è stato tradotto un altro suo libro, Le ossa di Cartesio, NdRufus].