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Sordità
L’altro giorno sull’autobus mi sono seduto sul primo posto che si trova appena saliti, dall’altro lato dell’autista, una specie di nicchia che considero confortevolissima e perfino dotata di una specie di piano laterale nel quale si può poggiare la borsa.
Quando sono salito l’autobus era mezzo vuoto ma subito dopo si è riempito e mi ha preso un vago senso di colpa: insomma, non solo ero seduto, am anche nel posto privilegiato.
E quindi quando è salita una vecchietta, una che vedo ogni tanto, con l’aria pronta a sbriciolarsi, le ho fatto: «Signora, signora, si vuole sedere?».
Solo che quella ha tirato dritta, con l’aria di non avere sentito.
Allora io mi sono girato e sporto un po’ in avanti, superando la signora che stava in piedi di fronte, e ho ripetuto, un po’ più forte: «Signora, si sieda!».
È che quella doveva essere sorda come una campana e probabilmente l’ultima volta che aveva permesso a uno sconosciuto di rivolgerle la parola la luce elettrica non era stata ancora inventata, quindi sono rimasto lì, mezzo alzato dal sedile.
E la signora di fronte, a occhio più giovane di me, fa: «Si deve alzare?»
«No, dicevo alla signora se si voleva sedere…».
«Allora mi siedo io, grazie».
«Ma veramente io…»
«Grazie, molto gentile».
Mi alzo. Lei si siede. La guardo, faccio: «Però, guardi, c’è la signora lì, anziana, forse…».
Lei ripete: «Grazie. Molto gentile».
Rabbrividisce
Sono sull’8 e ho a fianco una ragazza vestita come se il Campus Aresu verso cui è diretta fosse invece la sede principale di una ditta legale di New York: tailleur perfetto, trucco (sobrio) perfetto, pochi (sobri) gioielli perfetti, pettinatura perfetta.
Siamo lì vicini alla porta quando sale un ragazzo: dreadlock, barbetta, vestiti in passato appartenuti a un contrabbandiere afghano, scarpe malconce, anelli con teschio e rubini alle dita e al collo un rosario indiano che gli arriva sino all’ombelico, sopra cui a meno distanza dal collo pende un amuleto, poi ancora più su un ciondolo di giada e infine una strana combinazione di laccetti di cuoio e sfere di metallo.
I due, guarda un po’, si conoscono.
«Ciao».
«Ciao».
«Tutto bene?».
«Tutto bene».
«Che hai fatto nel fine settimana?».
«Mah… niente».
«Sbrago totale, eh?».
Giuro che alla parola sbrago lei rabbrividisce, visibilmente.
«Sbrago, si».
«Adesso devo scendere, scusa».
«Ciao».
«Ciao».
Lei scende, eterea. Lui mastica uno stuzzicadenti.
Commiserazioni
Sono sull’M, in via Sonnino. Alla fermata di piazza Gramsci stiamo quasi ripartendo quando vedo attraversare la piazza un ragazzo che corre. L’autista chiude le portine, quello – fra l’altro uno della Jam – bussa, io dico: «Aspetti!!».
L’autista riparte. Il ragazzo bussa un altro attimo, io faccio di nuovo: «Aspetti, c’è uno che deve salire», l’autista va.
C’è un attimo di silenzio. Poi una voce femminile dietro di me fa: «Aspetti, apra!». Nel frattempo il ragazzo se n’è già andato, peraltro. L’autista prosegue: ma la seconda voce che si è aggiunta ha trasformato la cosa da un elemento di passaggio a un evento. Altre voci – non mi giro, non so a chi appartengano – commentano: «Non ha sentito», «Eeeh, fanno quello che vogliono loro», «Non si fermano mai», «E poi, sta parlando al telefono, figuriamoci». Chiude una voce lacrimevole di anziana, con un sospiro: «Poverino, quel ragazzo». Tutte le altre voci scuotono la testa e rispondono, piano: «Poverino».
Giustizieri incontrollati
Salgo sul 30 in piazza Repubblica. Mentre aspettavo giocavo a scacchi, quindi ho il palmare in mano. Salgo, dico buongiorno all’autista che ha una signora appoggiata al vetro divisorio che sembra intenta a parlare con lui, striscio la borsa con la tessera dentro e proseguo, sempre col palmare in mano: l’autobus è semideserto, solo qualche venditore senegalese qui e là.
E la signora, che mentre passo dice all’autista: «Eccone un altro!».
E prosegue: «Che la prossima volta gli metto un piede davanti, così cade».
«E voglio vedere se non si rompe la faccia, così».
«E se lo merita».
«La faccia tutta spaccata».
E prosegue.
Io scendo fra due fermate, sono andato a mettermi vicino all’altra porta, ma siccome la signora prosegue, e mi pare che abbia una vaga antipatia per chi tiene il cellulare in mano, mi giro e le faccio: «Oh, signora, ma dice a me?».
E sarei anche pronto a dire all’autista: «Scusi, ma la signora è con lei? È sua amica? Perché magari glielo può dire, che non è modo di comportarsi».
Solo che appena apro la bocca i senegalesi – giuro: tutti – balzano su e mettono le mani avanti, come a dire: «Calmo, stai calmo, zitto, per carità». Io li guardo stupefatto, e loro muovono gli occhi: «Shhh, capisc’amme» e le mani: «Poi ti spiego».
Io metto le mani a capanna davanti a me: «Ma mi spiegate cosa?», e quelli fanno gesti: «Eeeeeh, sapessi».
Sono due fermate. Non sale più nessuno. Sono già arrivato a casa. Suono e scendo. La signora non ha mai fermato il suo monologo. Mentre scendo il senegalese più anziano mi fa un gesto: «Bravo, sono fiero di te».
L’autobus riparte, col suo mistero.