Ipocrisie ottocentesche
Per la preparazione di un gioco da tavolo (non quello, un altro) mi sto documentando sulla storia del West e, leggendo la biografia del famoso generale sudista Robert E. Lee e una controversia sul fatto che facesse o meno frustare gli schiavi, ho scoperto che secondo i canoni ottocenteschi quando si diceva o scriveva che si usava fermezza (“firmness”) si intendeva usare punizioni corporali.
La frusta, appunto. O la bacchetta o qualunque altra cosa.
Il passaggio mi ha colpito perché sono sicuro di avere visto l’espressione altre volte senza averne pienamente registrato il significato, anche quando retrospettivamente era chiaro: sono abbastanza sicuro che il cattivissimo patrigno di David Copperfield, per esempio, fosse orgoglioso della sua fermezza; non ho tempo di controllare, ma credo che una serie di espressioni in un libro o nell’altro, per le quali schiavi, selvaggi e popoli colonizzati erano «come bambini» e pertanto da trattare «con fermezza», volessero dire, a questo punto, non semplicemente che dovevano essere governati dall’adulto e maturo uomo bianco, ma che come bambini andavano bastonati (o, eventualmente, tenuti a bada con le baionette); dicono gli inglesi al posto del nostro il medico pietoso fa la piaga infetta: «spare the rod and spoil the child», cioè, letteralmente, che se non lo picchi il ragazzo crescerà viziato.
Mi è anche venuta in mente l’osservazione di John Sutherland in una delle sue raccolte di saggi vittoriani, il quale spiegava che l’espressione sorriso ferino non indicava semplicemente il ghigno cattivo del villain della storia, ma piuttosto che portava la dentiera.
Come la dentiera? E sì, perché l’uso dell’epoca era quello di fare le dentiere con i denti della gente morta, preferibilmente se giovane e sana – come i soldati uccisi sul campo di battaglia. Comprensibilmente la cosa a molti dei contemporanei faceva impressione ma, essendo gente di buona educazione, non si accennava all’origine di quei denti oh così bianchi se non indirettamente. Un sorriso ferino, appunto.
Ho anche da lungo tempo il sospetto che quando per esempio Conan Doyle descrive qualche figura femminile come queenly o stately, probabilmente non si sta riferendo semplicemente a un portamento regale o a una innata eleganza, ma sta segnalando ai lettori che la tizia ha le tette grandi, ecco.
Però a parte questo mi ha molto colpito la riflessione di quante espressioni ci possano essere, in testi di ormai cento o duecento anni fa, che pur essendo scritte in lingua apparentemente piana, celano un senso del quale non possediamo più la chiave e che perciò ci sono, salvo che non siamo degli eruditi oxfordiani, per sempre incomprensibili, senza che neppure ce ne rendiamo conto.