A proposito del porta a porta
Vedo un grande dibattito sul porta a porta in città. Devo dire che lo noto con una certa sorpresa, dato che la raccolta è iniziata in città da almeno un anno e ha interessato da subito quartieri anche molto popolosi, senza che ci fossero state sinora grandi prese di posizione pubbliche. Il fatto che adesso si sia giunti a regime e siano spariti i cassonetti dalle ultime zone centrali della città non è sufficiente a giustificare tanta animosità, sembrerebbe. Magari il fatto che si avvicinino le elezioni comunali, invece, è già una spiegazione migliore.
Forse le prossime elezioni servono anche a spiegare com’è che si formano certe cataste di rifiuti, qui e là. In fondo a Cagliari il sacchetto di spazzatura è stata strumento di lotta di piazza già altre volte.
È difficile parlare spassionatamente dell’argomento quando si avvicinano le urne, e quindi non lo farò, altrimenti non sarei l’amabile cialtrone di quartiere che tutti conoscete e amate. La mia pacata ipotesi di lavoro, in questo momento, è che la grande maggioranza di quelli che protestano per l’organizzazione della raccolta siano pezzi di merda in malafede che sinora hanno fatto quel che cazzo gli pareva e che adesso gli brucia il culo che devono mettersi in riga.
Detto pacatamente, eh. E senza necessariamente includere fra i destinatari del turpiloquio – del quale mi scuso coi passanti – quelle schiere di assessori ai servizi tecnologici da divano che sanno loro che si poteva adottare il sistema con i cestini a forma di paperella che funziona tanto bene a Märchenwald nella Sassonia sudlongitudinale, oppure la raccolta tramite droni che stanno sperimentando nell’isola kirghisa di Dik bilem o i cassonetti da passeggio della Regina Elisabetta, trainati da quattro cavalli del Derbyshire. Quelli, perlomeno, sono in buona fede.
Quasi tutti dei cretini, ma in buona fede.
Non sto parlando dei cavalli, eh.
In realtà ci sono anche altre categorie di critici in buona fede, per esempio i politicamente ingenui, o anche quelli che hanno diritto ad avere la propria opinione, coi quali mi scuso se si trovano presi d’infilata nella polemica. Però come vedete me la prendo e fare troppe distinzioni mi pesa. Alla questione, come sapete, reagisco in maniera emotiva. Dev’essere una qualche paura maturata da giovane, quando leggevo fumetti come Rifiuti (erano Carlos Trillo e Gimenez in gran spolvero):
Riflettendo sulla mia suscettibilità mi è venuto in mente che, chissà perché, questa cosa del porta a porta e più in generale il problema della gestione dei rifiuti è una specie di attrezzo utile a mettere in evidenza nervi scoperti, sia personali come le paturnie inconsce del giovane Rufus, che sociali. Me ne sono venuti in mente un paio, che vi racconto.
Per esempio: dice che i mastelli, per chi ha casa piccola, sono un ingombro, e naturalmente è vero. Però la domanda dovrebbe essere: com’è che c’è tanta gente che vive in case piccole?
Non guardatemi come quello caduto dal pero: lo so benissimo che chi sta in casa piccola non è che ama gli spazi ristretti, ma semplicemente non si può permettere altro. Quello che voglio dire è: com’è che normalmente non battiamo ciglio in merito, salvo dire che però è un problema se non c’è spazio per i mastelli? E uno non dovrebbe avere diritto ad avere spazio, oltre che per i mastelli, anche per due libri, un comodino, le scope, la cassetta degli attrezzi, una latta d’olio, i cavetti della macchina e i detersivi? Com’è che sbalordiamo per gli alveari dei giapponesi ma non ci interroghiamo sulla qualità del nostro abitare? E trovo notevole che i mastelli abbiano questa capacità di fare emergere questa contraddizione che altri oggetti o altri problemi non hanno.
Oppure: dice che nei palazzi non c’è spazio. Come diamine sono stati costruiti questi palazzi? Senza spazi di servizio, senza servizi comuni. CI vogliono i mastelli perché improvvisamente guardiamo i nostri palazzi con occhio critico.
Certo, poi l’occhio critico si sposta immediatamente dal palazzo a quelli che ci impongono il porta a porta, però il nervo scoperto è stato toccato.
O ancora: per gli anziani portare i mastelli ingombranti è un peso. Vero. Infatti io o mia sorella passiamo dall’Inossidabile tutte le sere per provvedere. Però, ovviamente, noi abitiamo vicino: per quelli che stanno all’altro capo della città, o a Assemini, è un altro problema. Dice: ma magari c’è un vicino, ci sono dei servizi a pagamento, c’è un altro modo. Evidentemente, per molti anziani un altro modo non c’è. Anche qui: non è che scopriamo adesso che molti anziani vivono non solo soli, ma direttamente isolati, o che il nostro abitare ha reciso il tessuto di tante relazioni familiari, però i mastelli ce lo fanno notare. E potrebbe essere un’occasione per pensare alla necessità di servizi che permettano agli anziani la vita autonoma che desiderano: per esempio, per chi ha più di una certa età si potrebbe sussidiare in qualche modo il servizio a pagamento di uno che passa e ti scende l’aliga? Gli anziani e la loro posizione sociale sono un nervo scoperto della nostra civiltà occidentale attuale: i mastelli pizzicano quel nervo e noi notiamo i mastelli.
Non voglio essere moralistico. Non è che me la prendo con chi non nota queste cose: anche io non ci avevo mai pensato, in questi termini. Vale anche per la scoperta che ci sono in città un sacco di persone che sono fuori del sistema perché non pagano, non risiedono o non esistono ufficialmente là dove abitano. Non è oggi che sentiamo parlare, come per i problemi degli anziani o la precarietà abitativa, della povertà a Cagliari, della presenza di nero nell’uso delle case o di mancati censimenti di immobili, usi abitativi, attività commerciali e perfino interi segmenti della popolazione. Quello che trovo davvero curioso è che i mastelli arrivino dove gli allarmi di schiere di sociologi non sono mai riusciti ad arrivare. E vale anche per gli urbanisti, poveretti, un’altra categoria mai ascoltata: altrimenti non ci stupiremmo, ora, nello scoprire che in certi quartieri, per esempio, siccome ci sono montagne di ristoranti, allora ci sono anche interi rilievi montuosi di mastelli. Evidentemente quando abbiamo deciso di adibire interi quartieri a parco giochi per i turisti una riflessione su questo tipo di conseguenze non l’avevamo mai fatta.
Potenza simbolica dell’aliga, diciamo. Non è una metafora da poco: sappiamo tutti che il nostro stile di vita è insostenibile eppure fatichiamo ad assumere comportamenti personali conseguenti. Quando il tema entra nella quotidianità casalinga più intima, i nostri rifiuti, allora mette a nudo un sacco di cose.
Fra le cose che mi hanno più stupito, però, c’è un tema molto diverso e che però vedo emergere i maniera fortissima, e che è quello del decoro piccolo borghese. A me, istintivamente, non sembra un problema, per esempio, se come da noi il primo del condominio che scende la mattina mette nell’androne tutti i mastelli. Quelli se ne stanno lì per buona parte della mattina e mano mano gli interessati se li riportano a casa. Qualche volta uno o due perfino dopo pranzo, se uno di quelli che passano non te lo lascia prima sul pianerottolo, già che sale. Quando lo racconto vedo inarcarsi un sacco di sopracciglia: come, nell’androne? E cosa penserà chi passa? Cosa deve pensare, mi chiedo? È roba normale, della vita del palazzo, come quelli che lasciano le carrozzine nell’androne per non doversele portare sin su, o quelli in continente hanno la rastrelliera per le biciclette. Se diventa una roba che non puoi nemmeno passare perché c’è casino, d’accordo, ma altrimenti che problema c’è? È la vita, come l’anticamera del fango nelle fattorie americane.
E invece no. Perché è l’irruzione del mondo di fuori nell’ambiente intimo della casa. Perché rivela, ancora una volta, un nervo scoperto, in questo caso non sociale ma personale: un’idea di ospiti e salotto buono. Soprattutto, perché è sporco, e porta allo scoperto un’ansia di malattie e contaminazione che credevamo di esserci lasciati alle spalle. Riflettevo che tutte le signore di paese che ho conosciuto non avevano problemi col porta a porta perché, in parte, il marciapiede fronte casa non era fuori: era parte dell’ambiente domestico, tanto è vero che lo spazzavano. Non stai mettendo il mastello chissà dove, lo stai mettendo davanti casa. In città, psicologicamente, è un’altra cosa. Se lo metti fuori si sporca, e poi quello sporco fa irruzione dentro casa tua. Con lo stesso principio dovresti lasciare le scarpe fuori della porta, perché le suole chissà dove sono state. Non lo fa nessuno, ma i mastelli, invece, mettono in allarme.
È davvero interessante, notare la contraddizione, notare i vari nervi scoperti. Probabilmente ce ne sono altri. Magari il porta a porta è un’occasione per scoprire qualcosa di nuovo.