Scrittore per scrittori
In questi giorni alterno alla lettura della Divina Commedia una rilettura integrale di due cicli di romanzi di genere molto diversi fra loro: i gialli ambientati nella riserva Navajo di Tony Hillerman e le storie di Fafhrd e del Grey Mouser di Fritz Leiber, qui sotto in una classica resa grafica opera di Mike Mignola.
Avrei parlato di questa lettura molto prima, se non mi avesse trattenuto un pochino la consapevolezza – che vale anche per moltissime di quelle che sono abituato a considerare opere imprescindibili della storia della letteratura fantastica – del fatto che sono libri largamente indisponibili per gran parte dei lettori di questo blog: non solo in italiano, ma perfino in lingua originale (almeno in versione non digitale), il segno di un passaggio generazionale in questo settore dell’industria culturale del quale non è proprio piacevolissimo rendersi conto.
Detto in altro modo: si invecchia.
Eppure questo imbarazzo, l’idea del non sapere bene se valga la pena di leggere una roba ormai desueta, o più esattamente se debba in qualche modo giustificarmi del fatto di leggere e parlare di un autore del quale moltissimi non hanno ormai mai sentito parlare, mi sta dando lo spunto per una lettura più riflessiva di quella che avrei fatto puramente per il piacere di ritrovare due vecchi amici e rimettere in ordine il filo dei ricordi.
Intanto, magari prima di andare avanti sono utili due parole di presentazione. Leiber è stato uno scrittore prolificissimo che ha attraversato l’epoca d’oro della fantascienza, dell’orrore e del fantastico pubblicando, a partire dagli anni ’30, sulle rivistine pulp e poi su media via via più rispettabili. Verso al fine degli anni ’60 ha cominciato a mettere ordine e a pubblicare in volume le varie storie che avevano come protagonisti una coppia di antieroi, Fafhrd e il Grey Mouser (il “Grigio Acchiappatopi”). Questo ciclo, che comprende sei raccolte di racconti e un romanzo vero e proprio, è quello per il quale viene più spesso (non) più ricordato, ma la sua influenza è stata notevole anche come critico, teorico e come animatore dell’ambiente degli appassionati di fantasy e fantascienza.
Importante, già. Leggo e mi dico: importante per quale motivo? È un fatto che va fatto risalire alla frequentazione dell’ambiente, al tratto personale signorile, alla simpatia, oppure all’essere in sintonia con i canoni stilistici e letterari dei colleghi e del pubblico?
Beh, intanto direi che la lettura mi suggerisce che probabilmente Leiber è uno di quelli che i canoni li ha fissati. C’è una quantità di archetipi sparsi per i racconti che è perfino imbarazzante: da Fafhrd, che è un barbaro più barbaro dei barbari, alla città di Lankhmar, metropoli fantastica per antonomasia, a una serie di altri elementi.
Ma quando parlo di archetipi non mi riferisco, in realtà, alla loro creazione: per esempio Conan, il barbaro primigenio, è stato sicuramente creato letterariamente prima di Fafrhd. E già Howard faceva una letteratura fantastica popolare basata su caratteri fissi e facilmente riconoscibili: l’eroe fuori dalle convenzioni (barbaro, selvaggio, indomito), la principessa coraggiosa, il mago oscuro, il sacerdote saggio, la dark lady infida. Caratteri che, mutatis mutandis, stavano anche in altri generi letterari e in altri mezzi narrativi perfino più sofisticati, come il cinema.
Leiber, invece, fa un’operazione più sofisticata, che imbriglia il gusto sfrenato per il racconto di Howard (o Burroughs, per esempio) dentro veri e propri canoni stilistici e letterari, creati manovrando con sicurezza più archetipi insieme e miscelandoli fino a ottenere un, diciamo così, prodotto uniforme. Dal punto di vista della creazione del mondo è un’operazione analoga e contraria a quella di Tolkien. Là l’ossatura archetipica è realistica e viene dalle saghe e dalla memoria europea e la credibilità del mondo è affidata all’abbondanza del dettaglio (gli alfabeti, le genealogie). Qui, invece, l’ossatura archetipica è fantastica e viene dall’inconscio dell’epoca e la credibilità del mondo è affidata al fatto che la psicologia dei personaggi è del tutto contemporanea (è per questo che la scrittura di Leiber è antiretorica: altrimenti diventerebbe magniloquente, invece l’umorismo e l’autoironia, o l’indugiare sui difetti e i sentimenti meno nobili dei personaggi, smussa gli angoli degli archetipi e li trasforma in realtà in carne e ossa).
Ho trovato detto, più volte, il fatto che Leiber fosse considerato uno scrittore per scrittori. Mi pare che la ragione stia in questa sua capacità di manovrare appropriatamente i mattoni base del genere fino a definirne in gran parte l’architettura – non è solo il fatto di aver coniato l’espressione sword and sorcery, quanto di averne definito il contenuto. Naturalmente il lavoro è stato collettivo: lungo i cinquant’anni di carriera di Leiber molti altri hanno lavorato nella stessa direzione. Quello che emerge, o almeno, quello che sto trovando in questa mia rilettura, è il livello di consapevolezza, che fra altri autori dell’epoca non è sempre comune: Leiber sembra, talvolta, fermarsi a guardare se stesso che guarda il genere del quale sta definendo i canoni, e instaurare un dialogo fra il se stesso che guarda e il se stesso che crea.
In parte, in realtà, sembra dipendere dal fatto che quello che noi abbiamo in mano è una risistemazione dei racconti di Fafhrd e del Grey Mouser. Per l’uscita in volume Leiber si è preoccupato non solo di raccogliere i racconti e metterli in un ordine cronologico, ma di collegarli, di creargli cornici e introduzioni e elementi di giunzione fra una storia e l’altra, un lavoro che è evidente che non ha fatto solo con l’occhio alla funzionalità e alla scorrevolezza, ma anche esplicitando alcune scelte stilistiche, per esempio estremizzando la dimensione simmetrica/asimmetrica che era già insita nell’avere storie incentrate su due protagonisti: il modo di trattare questo elemento è, in maniera abbastanza rivelatoria, molto più filosofico che puramente narrativo (e non sempre riuscito, peraltro).
E quindi abbiamo uno scrittore fondativo che però oggi non è più al passo coi tempi, sembrerebbe, e quindi leggendo mi chiedo come mai.
Un paio di risposte le ho trovate, ma prima devo comunque confessare il rammarico e un po’ anche lo stupore. Vedo, per dire, che dopo il successo di Game of Thrones le case produttrici vanno alla caccia di diritti di adattamento di serie più o meno famose, ma tutte di pubblicazione recente: eppure le storie di Leiber, o quelle di altri mostri sacri più o meno dell’epoca, come Jack Vance, Gene Wolfe o Zelazny (o Moorcock!), sono lì, belle pronte e del tutto perfette.
Già, perfette. Perfette per Netflix, magari. Dal punto di vista dello stile narrativo, alcuni scricchiolii si fanno sentire. Mi colpisce, per esempio, il modo di scrivere incredibilmente diverso: oggi il fantasy si caratterizza non solo per la combinazione di quegli archetipi ma anche per un certo tipo, molto preciso, di scrittura: ipedettagliata, con trame complesse e di ampio sviluppo, approfondimento dei comprimari, abbondanza di scene e situazioni anche secondarie sulle quali ci si sofferma lungamente. E poi certe strutture narrative: la cerca, il romanzo di formazione, il mistero che si dipana con un avversario nell’ombra… Qui, sarà perché si tratta di racconti brevi, le strutture narrative sono completamente diverse e, spesso, la loro originalità sembra interessare abbastanza poco lo scrittore. Il racconto più bello di Leiber fra quelli letti sinora, The Snow Women (“le Donne delle Nevi”, che racconta com’è che Fafhrd diventa un avventuriero), ha sostanzialmente una struttura presa da un thriller claustrofobico. Un certo numero di altri racconti sono puramente racconti dell’orrore, come piacevano al pubblico delle riviste pulp. Il lavoro di Leiber di definizione del genere e delle sue caratteristiche si concentra sui personaggi e le loro interrelazioni, sugli archetipi, sulle ambientazioni e in generale su che cosa voglia dire mettere in scena il fantastico; gli scrittori attuali e il loro pubblico invece sanno benissimo cosa sia il fantastico – perché ormai è stato definito in ogni modo possibile – e si concentrano al contrario sulle trame.
C’è anche un’altra differenza che salta all’occhio, ed è il livello di consapevolezza e di interesse politico presente nei racconti, che oggi viene sicuramente affrontato in maniera molto diversa.
Quando racconta dell’equilibrio precario fra patriarcato e matriarcato in The Snow Women, o quando parla di religione, si vede benissimo che Leiber ha ben presenti i dibattiti politici della sua epoca. Non scrive direttamente di politica, ma fa letture politiche delle situazioni, peraltro senza necessariamente prendere parte – nel racconto ci sono molti torti e pochissime ragioni, anche nello stesso Fafhrd. È un tipo di consapevolezza che Leiber condivide con molti altri scrittori e scrittrici della sua epoca. Ce ne sono altri, magari un po’ più giovani di lui, che sembrano tenere di più all’argomento – penso a Ursula K. LeGuin o Samuel R. Delany – ma è interessante che anche i romanzi più dichiarativi dell’epoca (La mano sinistra delle tenebre, per dire) sono prima di tutto romanzi fantastici, certo con temi adulti, complessi, e poi politici: quello che scriveva apologie era L. Ron Hubbard, casomai, gli altri avevano una consapevolezza politica e un pensiero, e questo innervava quello che scrivevano.
È un approccio che si è mantenuto, qui e là, fino agli anni ’90, ma che adesso, se penso anche a videogame, giochi di ruolo e cinema e televisione, mi sembra essersi esaurito, almeno abbastanza da farmi notare la differenza man mano che procedo nella lettura. In parte dipenderà dal fatto che è cambiato il pubblico: gli universitari di Berkeley degli anni ’60 e ’70 non sono certo i nerd di oggi; la dimensione industriale del settore non ha paragoni fra allora e oggi. Ma c’è secondo me qualcosa di più che riguarda, appunto, la consapevolezza: se la si ha si può scrivere politicamente senza scrivere di politica, e questo consente anche di essere ambigui e ricchi di sfumature in materia; al contrario, oggi siamo molto più polarizzati e scambiamo la consapevolezza (interna, dello scrittore) con l’esibizione (esterna, nelle caratteristiche del racconto e di ciò che mette in scena), ma di questo, magari torneremo a parlare quando sarò di nuovo impegnato a leggere Delany.
Sai, più che parlare di invecchiamento dell’opera, parlerei di smemoratezza dell’editoria: io sarei anche curioso di leggere le storie sul Grey Mouser e sull’amico del quale non ricordo mai l’ortografia (ma hey, ho imparato a scrivere Cthulhu, imparerò a scrivere correttamente pure Faffo) però Leiber è uno di quegli autori che raramente viene ricordato dagli editori italiani – con lui potrei metterci pure Vance e Zelazny, che quando va grassa, si beccano una rara ristampa su Urania, che a volte nemmeno si trova in edicola.
Un po’ di storie sui due antieroi di Leiber le ho potute leggere solo in.versione a fumetti – uno degli anni ’80, ma anche il più recente di Mignola – e trovando una stessa storia in ambo le raccolte, sviluppata con forti differenze, direi che almeno una (o magari entrambe) si sia concessa un forte adattamento.
Quindi, non so, prima di poter discutere di opere invecchiate, sarebbe carino che quelle opere fossero più accessibili, soprattutto oggi che il digitale offre possibilità di magazzino pressoché infinite.
Ma questo richiederebbe editori più vivaci…
Ma tu non leggi in inglese?
Comunque assolutamente d’accordo. Manca un’editoria anche di nicchia ma specializzata (che per esempio per l’horror c’è), però questo dice qualcosa anche sul mercato, che non è (più?) fatto di appassionati, ma di lettori occasionali e magari modaioli.
Sì, riesco a leggere in inglese, anche se periodi un po’ complessi possono darmi qualche problema 😛
Devo ancora aumentare la quota di letture in digitale.