Fatevelo un giro, casomai
L’ho capito un giorno che Maria Bonaria ha dato alla padrona dell’albergo il regalino che le aveva portato da Cagliari.
Era una saponetta da campo di Insula e ci sembrava un regalo adatto: era un prodotto artigianale sardo, era molto bio come l’albergo e poi per gente montanara che più o meno sembra considerare l’ascensione dell’Ortles un piacevole modo di recuperare un po’ di appetito prima di cena ci sembrava un oggetto utile.
Maria Bonaria le ha spiegato il prodotto in due parole. La signora ci ha pensato un po’ e poi ha detto: «Ah, dunque questo è un sapone fatto con erbe ed essenze tipiche della Sardegna, che è del tutto biodegradabile e si può portare in campeggio».
Ci sono rimasto un po’ male: te l’abbiamo appena detto, che fai, ripeti?
Ed è allora che ho capito. Non stava ripetendo tanto per fare conversazione. È altoatesina, di madrelingua tedesca, voleva essere sicura di avere capito. Ha ripetuto quello che aveva detto Bonaria con parole sue, così senza dar troppo a parere, per avere una conferma.
Perché la signora solo in apparenza parla un italiano perfetto con appena un po’ di piacevole inflessione tedesca. In realtà l’italiano non lo parla, o perlomeno non lo parla con la facilità e la sicurezza di chi se ne sente padrone. Lo parla con la fatica e la precarietà di chi usa una lingua appresa, come farei io se trapiantassero tutta Cagliari a Londra: certo, con l’inglese me la cavo, ma sai la fatica, appena mi togliessero da Little Sardinia e dovessi passare ore e ore senza interruzione a usare l’inglese con degli stranieri?
Avevamo sempre pensato che gli altoatesini che avevamo conosciuto fossero bilingui nel senso che parlavano ovviamente il tedesco e poi, un po’ meno bene, l’italiano. E invece non è così, l’italiano non lo parlano, è una patina sovrapposta. Oh, a comunicare e lavorare basta, ma parlare è una cosa diversa. È una lingua straniera. È per questo che i ragazzi che servono a tavola, quando gli fai una battuta, rispondono un po’ così: non è solo che hanno un senso dell’umorismo diverso, è che la battuta in italiano non gli viene, magari provano a tradurla direttamente dal tedesco e così gli esce un pasticcio.
È per questo che infiniti cartelli, spiegazioni, didascalie in giro per l’Alto Adige, anche in posti inaspettati come serissimi musei e luoghi di visita, sembrano fatti con Google Translate: perché sono fatti veramente così. Il giorno che siamo andati a visitare la biblioteca di Marienberg a un certo punto il signore volontario che faceva da guida (e che parlava un italiano apparentemente perfetto) ci ha detto: «Quel molo è un’idea dell’architetto che ha curato il restauro».
Hmmmmm. Molo?
«Molo, o banchina, o passerella. Come si dice in italiano?». E allora abbiamo capito che si riferiva al passaggio sospeso che permetteva di osservare dall’alto un pavimento antico senza calpestarlo. Passerella, abbiamo confermato. Lui sapeva che in tedesco si chiamava steg e l’aveva cercato su Google. “Molo” era il primo significato e lui pensava che fosse quello giusto.
Il fatto è che la spiegazione in italiano se l’era preparata prima e imparata più o meno a memoria, come il Papa quando deve salutare i fedeli di lingua tagika in visita a San Pietro.
Non è facile da capire, perché spesso le persone in cui ti imbatti sono persone di buona cultura, abituate a interagire con italiani, in possesso di discreti codici linguistici e, soprattutto, di raffinate strategie per far fronte alla difficoltà di gestire una lingua straniera e per aggirare le situazioni di ambiguità in cui non sono sicuri di avere capito bene o devono dire cose che non sanno come dire, come la signora. E tutti i giovani (e anche i meno giovani) hanno comunque ormai studiato almeno un po’ di italiano a scuola. Ma non c’è niente da fare: linguisticamente non sono italiani. Sono una minoranza linguistica straniera che ha grosse difficoltà a usare la lingua straniera maggioritaria, anche se valorosamente trova il modo di cavarsela senza troppi danni.
Ho raccontato spesso che, con qualche sorpresa e contro certi stereotipi, nelle nostre vacanze in montagna ci siamo trovati molto meglio con gli altoatesini (cioè coi tedeschi) che coi trentini – gli italiani. Un po’ dipende dal fatto che abbiamo beneficiato della possibilità di usare come porta d’ingresso la straordinaria e accogliente famiglia dei nostri albergatori e un po’, naturalmente, sono gusti e affinità. Un po’ però credo che fosse il senso di rispetto per una comunità che è, comunque, minoranza, e quest’anno che ho capito un po’ meglio questo meccanismo della lingua il rispetto si è accresciuto.
Ma non sarei un buon sardo se non avessi anche fatto due più due. So che quanto sto per dire mi varrà il dispiacere di diversi amici indipendentisti e amanti della lingua, ma davvero: c’è un abisso. Nessuno di noi in Sardegna sperimenta questo tipo di estraneità linguistica. Nessuno di noi è costretto a ripetere con parole diverse quello che gli ha detto qualcuno in italiano in una conversazione quotidiana, per essere sicuro di avere capito. Nessuno di noi cerca su Google la parola italiana adatta per tradurre una parola della sua lingua madre. Nessuno è costretto a fare un sorrisino per abbozzare, quando qualcuno gli dice una cosa spiritosa in italiano e tu non sai come rispondere. Nessuno di noi si rende un pochino ridicolo in italiano perché usa parole che crede vogliano dire qualcosa e invece vogliono dire tutt’altro: al massimo diciamo l’ho telefonato o caffé, ne vuoi? o se me lo ero saputo, ma sono registri da italiano basso o dialettale come ce ne sono in tutte le regioni, non è un’altra lingua.
Nessuno di noi parla italiano come il traduttore di Google.
Qualunque cosa potesse essere in passato, oggi noi non siamo bilingui, o minoranza linguistica, o comunque: fra la situazione nostra e quella degli altoatesini non c’è paragone. Là i cartelli dei negozi sono in tedesco perché è la lingua, qui servono a creare Disneyland, o la riserva indiana: guarda là ci sono i sardi, li riconosci dai tipici nomi sulle strade, come s’arruga de sa limba sarda, pratza de su scimingiu, caminu lampu ri caliri.
È tutto qui.
E non è un discorso sulla tutela o la promozione della lingua, sulla quale siamo d’accordo. Quello che dico è riferito alle discussioni sull’identità; davvero, fatevelo un giro in Alto Adige. Vedrete le cose da tutta un’altra prospettiva.
Aggiungo: gli austriaci parlano normalmente in dialetto (diverso dal tedesco), per quello che ne so io anche nelle citta’.
Il rapporto dialetto/tedesco e’ forse per loro piu’ simile a quello che e’ per noi il rapporto sardo/italiano, pero’ ho l’impressione che l’uso del dialetto per loro sia molto piu’ vivo che l’uso del sardo fra noi.