Lo scoglio dell’identità
Sto rileggendo Contro l’identità di Francesco Remotti (Laterza, 1995, € 5,99 in digitale) che mi aveva molto affascinato durante un’estate a Tonara e che poi non ho più frequentato.
Ha, come ricordavo, tre capitoli iniziali formidabili e poi si perde un po’ nelle varie applicazioni antropologiche e storiche presentate per esplorare tutte le ramificazioni del problema: sono di interesse assoluto (la mia preferenza va al complesso costrutto sociale delle abitudini antropofaghe dei Tupinamba) però un po’ sembrano diluire la scintillante lucidità dei ragionamenti iniziali.
Leggo che Remotti nel tempo ha reso la sua opposizione all’identità sempre più radicale (il libro successivo, non per niente, è intitolato L’ossessione identitaria) ma qui si muove più sulla linea di descrivere l’identità come tensione (o come un fascio di tensioni) e trovo questa impostazione più confacente ai miei gusti, anche se mi piace anche l’idea illustrata nel link che vi ho messo qui sopra di sostituire il concetto di identità con quello di riconoscimento (non è uno slittamento molto diverso da quello fra personalismo ontologico e e personalismo relazionale, o almeno così pare al filosofo dilettante che è in me).
Remotti procede per antinomie, per dubbi, per contrapposizioni, per veirtà enunciate e subito smentite da una difficoltà logica che il pensiero aveva ignorato, partendo da una identità come costrutto durevole che si oppone al flusso dei mutamenti e del tempo, come una roccia sulla spiaggia che resta salda nell’andare e venire dei marosi, per negare progressivamente questa visione oh così spontanea e seducente, mostrare che al fondo l’identità non è mai data ma definita, questione di nomi che scegliamo di dare alle cose, che l’identità ha molto più a che fare con i confini e il dove si sceglie di farli passare, dove si decide di tagliare le relazioni fra le cose e dove invece si preferisce accompagnare, unire, fondere. E in questo senso al fondo l’identità è questione di responsabilità, nel senso delle scelte che si fanno – di tagliare e separare o di cucire e di unire, responsabilità che non viene meno quando di queste operazioni non siamo coscienti ma ci limitiamo a prendere per buone quelle che la società ci presenta come date.
È al fondo una visione complessa, o meglio: interessata alla complessità. Una visione laica, indagatrice, aliena alle verità date per certe e alle separazioni nette definite una volta per tutte. È anche una visione che diffida degli individualismi, e preferisce ragionare in termini di definizioni collettive delle dimensioni identitarie.
Il libro è del 1995 e capisco che, quando se ne cercano recensioni in rete, si trovino apprezzamenti da parte di chi politicamente è schierato sul fronte opposto rispetto ai nazionalismi, ai particolarismi, ai razzismi,a come anche rispetto agli egoismi individuali.
Tanto più mi pare si possa apprezzare l’evoluzione successiva delle posizioni di Remotti, ancora più radicalmente contrario all’identità, quando si pensa al clima politico attuale: nel 1995 alla prima uscita del libro la Lega poneva sfide alla convivenza in Italia molto più astratte di quelle di oggi, per dire, e gli identitarismi di vent’anni fa, per quanto perniciosi, non erano il flagello attuale.
Quello che mi sembra paradossale, e che vorrei approfondire rivedendomi meglio la seconda parte del libro e magari leggendomi i libri successivi, è che questo tipo di visione, così spontaneamente utilizzabile in chiave polemica contro la Lega e i nazionalisti di vario genere, è anche radicalmente contraria a una serie di posizioni che vanno per la maggiore esattamente negli stessi ambienti che sembrano apprezzare così tanto Remotti. Penso per esempio a tutto il campo degli identity studies, o ai rivendicazionismi identitari di minoranze più o meno vaste, spesso costruiti esattamente sul dualismo noi/voi così criticato da Remotti.
Non penso tanto agli esiti pratici di queste posizioni: quando Remotti propone di sostituire il termine identità con quello di riconoscimento (di esistenza, bisogni, caratteristiche, diritti) propone una piattaforma nella quale non è difficile ritrovarsi. Quello che mi sembra incompatibile è l’impostazione e la cornice teorica di queste posizioni, che oltretutto si presentano spesso come una teoria unificata e kattiva (cioè hard, non flessibile), che da definizioni a priori di identità fanno discendere impianti piuttosto complessi che arrivano fino alla definizione di politiche, comportamenti ed etiche.
Per me, che tendenzialmente ho pochissime simpatie per queste posizioni, non è un problema. Posso apprezzare Remotti lo stesso e invocare la convergenza sul piano pragmatico dei riconoscimenti. (che sono negoziabili, per definizione). Per una vasta gamma di intellettuali che esattamente sul farsi portabandiera di singole identità costruiscono notevoli posizioni pubbliche, temo potrebbe essere un po’ più scomodo.