Il mio amore di là dal mare
Su consiglio degli amici Andrea Dresseno e Rosy Nardone (coautori del dossier sui videogame di Mosaico di pace) ho installato sul telefono Se mi ami non morire (ma il titolo originale è Bury me my love, cioè Seppelliscimi, amore mio o anche Seppellitemi il mio amore).
Si tratta di un gioco sul tema dell’emigrazione. L’aspetto esteriore è quello di una chat di WhatsApp: noi siamo Majd, un siriano di Homs, mentre nostra moglie, Nour, intraprende il difficile viaggio verso la Germania. Tutta la storia è vissuta attraverso i messaggi che i due si scambiano, conditi da faccine, foto e rari messaggi sonori, come appunto in una vera chat di WhatsApp.
Nour è quindi dei due quella sul campo, chiamata a fare le scelte e affrontare le difficoltà del viaggio. Noi rimaniamo indietro e abbiamo il compito di confortarla, consigliarla e fornirle per quanto possibile aiuto a distanza.
Da un punto di vista formale Se mi ami non morire è sostanzialmente un romanzo interattivo, che si dipana a seconda delle scelte che il giocatore compie – nella forma di suggerimenti a Nour. Di fatto le nostre scelte sono piuttosto limitate, non solo perché talvolta Nour fa quello che vuole ma anche perché una serie di snodi narrativi mi sembrano, grosso modo, forzati. Ho giocato un primo viaggio e ora ne sto giocando un secondo nel quale sono finito lungo un itinerario completamente diverso, quindi non è tanto il fatto che il gioco non si apra a diramazioni differenti, quanto che ci sono una serie di situazioni nelle quali tu vorresti dire delle cose diverse a Nour e invece, semplicemente, non puoi: ogni tanto hai la sensazione che le cose devono andare così, e basta.
Sulla base di questo, la mia prima impressione è stata che, in fondo, Se mi ami non morire fosse un serious game, cioè uno di quei giochi che sacrificano l’aspetto ludico primario in favore del raggiungimento di uno scopo propagandistico, o addestrativo, o formativo. Ora, però, non sono più tanto sicuro.
È chiaro che il gioco ha un suo scopo persuasivo: adotta in maniera palese il punto di vista dei migranti e si sforza di renderlo comprensibile a un giocatore presumibilmente europeo. Tuttavia lo fa con una cifra stilistica molto particolare che, se dovessi identificarla con una sola parola, direi della riluttanza.
Prima di tutto, è un gioco estremamente poco invasivo. L’opzione di gioco consigliata è quella in tempo semi-reale, quindi i messaggi di Nour che ti arrivano sono sparsi nell’arco della giornata e rispondere prende pochi minuti. Poi la vita di Nour va avanti autonomamente e tu, come Majd, prosegui con la tua vita senza poter intervenire fino alla prossima volta. Stilisticamente è una scelta che può apparire ovvia (è suggerita dalla cornice del gioco, cioè la simulazione di una chat, e oltretutto è già vista anche altrove) ma non è per niente una trovata banale, anzi è piuttosto profonda, solo che per notarla ci devi prestare un attimo attenzione.
Parentesi: la cornice di gioco risponde anche, senza troppo parere, a una delle classiche domande di quei razzisti che si credono molto furbi: questi sono migranti però vedo che c’hanno tutti il cellulare. Ma va? E cosa ci fanno? Chiamano casa, ovviamente. Perché altrimenti sono perduti.
Il che ci porta a un secondo aspetto di questa riluttanza, che è quello della descrizione dell’ambiente. Che è normale, forse perfino troppo. Nour, soprattutto nelle prima parti del viaggio, beh, guarda un po’, viaggia: racconta che ha trovato un posticino economico per mangiare i falafel, che sono quasi come quelli di casa, o che nel quartiere siriano di una città turca ha conosciuto dei compatrioti che l’hanno invitata in un locale in cui si faceva musica. E Majd tira avanti un negozietto a Homs, ha clienti che fanno quattro chiacchiere, si occupa dei genitori, gira per una città bombardata nella quale, però, incredibile, c’è accesso a internet. Un posto moderno come qualunque città al mondo (bombardata, occhio!), accidenti, mica un accampamento di beduini nel deserto.
Dal punto di vista persuasivo, sono realizzazioni notevoli, che vanno a dare un’impressione di quotidianità che graffia ferocemente l’idea dei razzisti (e anche di qualche benpensante dal cuore tenero, che in realtà è razzista al rovescio) per i quali se non c’è la tragedia allora non vale, e che probabilmente pretende che appena finito il bombardamento uno esce dal cratere, schiva il campo minato, evade le bande di predatori e infine sale sul barcone in dieci secondi netti, o che pretenderebbe che i migranti, già che ci sono, oltre a tutti i pericoli del viaggio portino pure il cilicio.
Il che naturalmente non vuol dire che non ci sia la tragedia anche nella quotidianità (e ho l’impressione che molto spesso la storia di Se mi ami non morire finisca piuttosto male se non malissimo); ma la gente è normale dappertutto, e cercherà sempre, anche nelle condizioni estreme, di riprodurre condizioni di stabilità: costruirà piccoli commerci, cercherà consolazione in un po’ di divertimento, stringerà legami di solidarietà e così via. È per questo, per esempio, che in Se mi ami non morire gli scafisti e i trafficanti sono gente come gli altri, né meglio né peggio, volta a volta risorse preziose oppure gente che tenta di fregarti, ma non i cattivi da operetta che qualche volta ci immaginiamo, e anche questo è un rovesciamento del punto di vista piuttosto benvenuto (e che immagino può fare discutere).
Dove la riluttanza del gioco funziona peggio, veramente, è quando tutta questa quotidianità finisce per diventare un po’ bolsa. Nour e Majd, per esempio, sono personaggi piuttosto monodimensionali, piatti, pochissimo esplorati fino in fondo. L’aria da studentessa in vacanza che ha ogni tanto Nour nella prima parte, per esempio, non serve a renderla simpatica o a farci affezionare a lei; ogni tanto, semplicemente, stona. Ok, è chiaro che sono persone normali: i loro dialoghi su WhatApp sono un po’ insipidi, un po’ prevedibili, esattamente come quelli di ciascuno di noi con la moglie e gli amici. Ma il materiale con il quale sono fatte le grandi storie sono grandi personaggi, e Nour e Majd non prendono quasi mai il volo: senza essere inutilmente patetici, o tromboni, credo che gli autori potessero fare qualcosa di più. Questo, mutatis mutandis, vale anche per l’altro materiale base delle grandi storie, che sono i fatti, e anche qui i momenti veramente emozionanti non si sprecano.
Il che, peraltro, non vuol dire che la storia non funzioni.
Dopo avere finito (male) il primo viaggio ero un po’ perplesso («si, carino, ma…») e allora ho deciso di fare un passo indietro e di chiedermi che effetti avesse prodotto il gioco. In me. Per esempio, apparentemente non mi ero particolarmente affezionato a Nour, che per quattro quinti del viaggio avevo piuttosto considerato una cretina inutilmente spensierata…
Toh.
Questa è una reazione. Anche l’irritazione è una reazione.
E, a contraddire l’impressione di essere rimasto piuttosto a distanza, niente commozione, pochissima immedesimazione, un fatto curioso. A un certo punto, in un passaggio cruciale del viaggio, Nour scarica il telefono. Non ho più contatti. In termini di tempo di gioco, passano tre giorni. In termini di tempo reale, molte ore, forse una giornata. E io mi sono gingillato con le opzioni che permettono di variare il tempo di gioco, con la tentazione fortissima di mettere il fast forward per sapere che diamine le fosse successo.
Una preoccupazione strisciante, non particolarmente forte dal punto di vista emotivo, però molto presente. Il gioco, con riluttanza, mi aveva agganciato, così, senza parere, quasi scusandosi e pronto a rilasciarmi subito.
Quindi il gioco funziona.
Questa scoperta mi ha fatto riflettere su un ultimo aspetto di Se mi ami non morire, che è quello della sua crudeltà. Perché, a ben pensarci, il gioco non è tanto crudele nei confronti dei suoi personaggi (che Nour possa passare disgrazie ce lo aspettiamo, quindi non conta) quanto nei confronti del giocatore.
Intanto, come detto, è un gioco dove puoi fare piuttosto poco, nel senso che non è che puoi fare l’atto eroico, piantare baracca e burattini e da Homs più veloce della luce andare a salvare Nour in mezzo al mare o fra i Carpazi. E comunque sarà sempre Nour ad avere l’ultima parola sulle cose da fare. Esattamente come Majd, complessivamente sei impotente, uno spettatore di tragedie sulle quali puoi influire solo relativamente (certi snodi della trama continuano a sembrare eccessivamente rigidi, ma non è di questo che stiamo parlando).
In secondo luogo, il gioco è sottilmente crudele da un punto di vista tecnico. In molti giochi di questo tipo, quando hai diverse frasi che puoi rivolgere all’interlocutore, ti aspetti che detta una cosa e ottenuta una risposta potrai poi dire anche l’altra frase che non avevi scelto. Qui non capita mai e questo aumenta sia la sensazione di impotenza e frustrazione sia anche il senso di responsabilità nei confronti di Nour. Per esempio, una volta le ho promesso che in un momento successivo le avrei ricordato una certa cosa. Al momento opportuno, un momento un po’ imbarazzante per tutti e due, potevo farlo o iniziare il discorso con una banalità. Ho iniziato così, per vedere come stavano le cose fra noi, e poi non mi ha fatto più dire la cosa importante. Quando poi è finito tutto male, mi sono chiesto se non avrei dovuto essere più onesto, più fedele alla promessa, se non fossi venuto meno a Nour tradendone la fiducia. Non è l’unico dialogo con questo rischio.
E, in realtà, mi sono reso conto che, non so per sottile astuzia degli sviluppatori o in maniera del tutto casuale, Majd è un po’ uno stronzo, diciamo. È un po’ pedante, un po’ saccente, un po’ pronto a rimproverare, come se fosse un padre severo e non un marito o un compagno, per dire. C’è una crudeltà raffinata nel metterti nei panni di un personaggio che al termine del gioco è chiamato a convivere con questa combinazione di impotenza da una parte e recriminazioni e sensi di colpa dall’altra, e questo dimostra che Se mi ami non morire è un gioco che, dentro dei limiti comunque esistenti, ha una profondità inaspettata che consiglia fortemente di provarlo, al di là dell’argomento e della capacità di capovolgere il punto di vista, che già sarebbero una raccomandazione sufficiente (tra l’altro le meccaniche di gioco sono veramente alla portata di tutti, anche di chi non ha mai visto un videogame in vita sua).