La trappola dei videogame…?
Ho aspettato con una certa ansia l’uscita di Internazionale di questa settimana, perché Maria Bonaria mi aveva segnalato che ci sarebbe stato un dossier sui pericoli dei videogiochi, e già questo non prometteva bene.
In realtà non è tanto un dossier quanto un singolo articolo; d’altra parte è strillato in copertina e quindi è evidentemente presentato con una certa importanza.
Lo dico da subito: a me pare un cattivo articolo, se non pessimo, e sono anche un po’ stupito della pubblicazione su Internazionale. Mi pare quasi un cambio di linea editoriale, considerato che in altri momenti il settimanale ha dedicato più volte attenzione ai videogame come forma espressiva e anche semplicemente come mezzo di intrattenimento.
Siccome fra i miei contatti ci sono diversi che leggono Internazionale e molti (se non tutti) sanno che mi occupo di giochi, penso che qualcuno si sia chiesto cosa ne pensassi: essendo l’amabile Rufus dedito al pubblico servizio che tutti conoscete e amate segno qui sotto quelle che sono secondo me le criticità più importanti del pezzo.
Giornalismo investigativo, spostati
L’inchiesta è stata realizzata da Investico, un consorzio indipendente olandese di giornalismo investigativo.
L’articolo è scritto con grande professionalità e alterna in maniera sapiente pezzi narrativi (le fasi di una partita a Fortnite…) con altri più informativi che riportano momenti di interviste, colloqui e visite in aziende e centri di recupero per adolescenti. Fa da contraltare a questa indubbia abilità dei tre giornalisti che firmano l’articolo (Sylvana van den Brak, Thomas Muntz, Emiel Woutersen) una qualità delle notizie riportate che, sentito che stiamo parlando di un team di giornalismo investigativo, dà un po’ l’impressione di uno che, svegliatosi da un sonno ventennale, venisse da te a dirti: «Non ci puoi credere! La gente ha dei telefoni portatili e li porta sempre con sé! Incredibile!».
È arrivato menevado.
Francamente la qualità ricorrente dell’articolo non mi sembra quella a cui penso istintivamente quando sento parlare di giornalismo investigativo: gli orpelli ci sono tutti, le interviste, il lavoro diretto di andare a parlare con gli uni e con gli altri, ma la qualità della resa resta bassa, puramente descrittiva, senza mai acchiappare le cose che si muovono in profondità.
Va bene, io sono un po’ del settore e forse ho più informazioni del lettore medio di Internazionale. Può essere. Però non mi pare che ci sia chissà quale inchiesta: siamo molto più dalle parti del colore, come quegli articoli informativi sui vecchi inserti femminili dei quotidiani, che scoprivano le ultime tendenze sociali più o meno dieci anni dopo che ne parlava tutto il resto del mondo.
Dice: ma in realtà il punto dell’articolo non è il successo di Fortnite, il tema è la pervasività dei videogiochi, la dipendenza che molti ragazzi sviluppano, i numeri crescenti dei ricoveri nei centri di recupero specializzati. Le somme di denaro spese.
Vero.
Ma anche no.
Pere con mele
Su una cosa l’articolo ha ragione: la risposta dell’organizzazione di settore dei produttori di videogame olandesi, e forse le risposte delle organizzazioni di settore ovunque, è troppo facilmente autoassolutoria. Dire che non è mai stato dimostrato che i videogame diano dipendenza può essere vero ma passa elegantemente sopra a una serie di ben note pratiche commerciali scorrette praticate da diversi nell’industria.
Il problema è che l’articolo mischia spesso i due piani di essere invitati a spendere di più e essere invitati a giocare di più, e le due cose non sono per niente equivalenti, anzi talvolta contrastano fra loro. Sotto questo punto di vista la perdita di efficacia dell’argomentazione, per chi appena sa qualcosa di videogiochi, è notevole. E, a occhio, ci sono un altro paio di difetti di qualità della ricerca (ok, lo so che è giornalismo e non un’indagine sociologica, ma…): il racconto autobiografico dei tre o quattro giocatori affetti da dipendenza non può che avere valore aneddotico, e invece sembra voler dimostrare un fenomeno; molto poggia su pareri di professionisti della riabilitazione psicologica, che hanno un certo conflitto di interessi (che l’articolo non indaga: davvero è normale che ci siano comunità di recupero per tredicenni?); il tono del racconto, sostanzialmente allarmistico, mette tra parentesi le opinioni più moderate riportate, o contribuisce a indurre il lettore a travisarle.
Finita la lettura, e sbollita un po’ l’arrabbiatura, io stesso ho difficoltà a raccontarvi esattamente qual è il focus dell’articolo, perché le argomentazioni girano girano e non sembrano arrivare da nessuna parte. Quello che resta, casomai, è quel senso generico di pericolo: La trappola dei videogiochi, appunto. Che paura. Quale trappola? Boh.
Il fenomeno: Fortnite
Anche se vengono nominati di passaggio altri giochi, come Call of duty o League of legends, il gioco il cui racconto apre e chiude l’articolo è Fortnite.
La scelta, in qualche modo, può essere giustificata: Fortnite è, evidentemente, un fenomeno. Il problema è che il racconto di questo fenomeno è curiosamente monodimensionale: se io raccontassi, supponiamo, Joker come un fenomeno dovrei forzatamente dire che dietro di sé ha tutto un mondo (anzi, più mondi: i fumetti, i film di supereroi) e per spiegare il fenomeno dovrei dire in cosa si differenzia dal resto; non è solo la recitazione di Phoenix, ma il fatto che il film è capace di innovare gli stereotipi del genere. di rivolgersi a un pubblico che magari non ama i giocattoloni degli altri film di supereroi ma coglie in questo qualcosa di diverso, che ha un modo di cogliere delle inquietudini sociali che in altri film del genere non vengono colte, che il trattamento artistico di regista e sceneggiatori è capace di attrarre gli appassionati di cinema tout court che mai ammetterebbero di guardare con piacere L’Uomo Ragno contro Superman.
Fortnite andrebbe raccontato così: come un oggetto a un tempo produttivo e artistico (sissignore, anche artistico) che fa parte di un’industria consolidata, che innova certe convenzioni del genere e ne conferma altre, che sa attrarre pezzi di pubblico che sinora erano stati respinti da giochi simili, che ha un modello di business peculiare e di successo, che genera reazioni e cambiamenti fra gli altri operatori del settore, che segnala e forse precede tendenze sociali.
Il modo con cui viene raccontato, invece, è quello di un oggetto alieno ed esotico, come i rituali di accoppiamento fra gli indigeni di qualche isola del Borneo Australe del Tanganika.
Con un approccio del genere, si perdono per strada un sacco di cose. Per esempio sulla socialità degli adolescenti e preadolescenti, che è qualcosa di più dello spaesamento richiamato moralisticamente dalla chiusura dell’articolo. Su cosa ci può dire che si passi dal Minecraft della generazione precedente al Fortnite di questa: io preferivo Minecraft, e guardando a Fortnite mi chiedo se ci sia un trade off fra creatività e socialità, o cosa si perda e cosa si guadagni quando di passa dalla proattività di fare tutorial per farli vedere agli altri alla cura del senso di identità di guardare tutti insieme la stessa cosa (la partita di un esport), o guardare noi stessi che facciamo spettacolo con una adunata di milioni in uno spazio virtuale contemporaneamente.
Secondo me erano domande interessanti. Da giornalismo di inchiesta.
Il modello di business
Una delle cose di cui l’articolo parla, e di cui di nuovo perde la parte più interessante, è il tema del mercato. È evidente che la questione dei soldi è nella testa dei giornalisti: è sottolineata quando si raccontano i casi gravi di dipendenza o depressione e poi di nuovo nell’intervista a un produttore di videogame. Ma esattamente come funzionino i meccanismi di finanziamento dell’industria non è particolarmente approfondito.
Per esempio, manca la riflessione, che dovrebbe essere ovvia, su come sia palese che certi meccanismi dei videogiochi si innestano sull’abitudine consolidata di considerare adolescenti e preadolescenti come pecore da tosare: l’offerta di skin e bonus interni non è molto diversa dal fenomeno, in auge nei fumetti anni fa, dell’offerta di copertine variant o con gli occhi dell’Uomo Ragno trafilati al bronzo. O la moltiplicazione delle collane editoriali, i reboot, i numeri unici, le miniserie speciali, eccetera (c’era una bellissima storia di Rat-Man anni fa, in merito).
È chiaro che rispetto a queste dinamiche (che sfruttano esattamente gli stessi meccanismi psicologici: l’ansia del collezionista, il senso di colpa per non riuscire a leggere tutto, ma proprio tutto tutto, l’acquisizione di status fra i pari mediante l’esibizione del possesso di oggetti che non tutti possono possedere) i videogame possono andare più veloci. Ma sfugge agli autori che il problema non è solo dei videogame: gli store sono pieni di applicazioni miserevoli, il cui unico scopo è quello di poter usare su WhatsApp l’icona della propria faccia con le orecchie da Braccobaldo e che ti fanno pagare cifre spropositate a tradimento. Almeno rispetto a quelli Fortnite è un prodotto professionale di alta qualità che dà in cambio una esperienza di gioco significativa, non spazzatura. E non induce il consumo di cellulari costosissimi di ultimissima generazione perché gli altri non fanno girare le orecchie da Braccobaldo ma solo quelle i baffi di Gatto Silvestro.
Tutta questa dimensione di continua tosatura degli adolescenti l’articolo se la perde per strada. Così come si perde l’altro tema, che a me pare evidente: che non esistono prodotti gratis, e che se una merce è offerta gratis è possibile che in realtà sia tu la merce, oppure che lungo la strada si scopra che in realtà ci sono un sacco di soldi da pagare.
O altre fregature.
Secondo me qui, anche in riferimento alle dipendenze, o alle depressioni, o all’etica o ai rapporti di giustizia fra produttori e consumatori, anche nel mondo dei videogame, cioè anche volendo scrivere un pezzo di fuoco allarmistico e moralistico, c’erano un sacco di cose da dire (ancora una volta: Fortnite rispetto ad altre cose sul mercato è un pilastro di correttezza), che però sembrano eludere completamente l’orizzonte dei tre autori.
La trappola della gamification
Ma in realtà il punto più problematico…
Ok, anche gli altri sono molto problematici. Diciamo: problematico in senso più generale.
La cosa davvero evidente che l’articolo si perde, il punto più problematico in senso generale, è quello dei pericoli della gamification. Il tema delle app di cui parlavo poco fa lo rende evidente: non c’è bisogno di fare un gioco intero per indurre stili di consumo, dipendenza e reazioni di sottomissione. I meccanismi psicologici sono noti alla pubblicità da decenni. Il successo dei videogame ha semplicemente suggerito che potevano essere veicolati più velocemente tramite pratiche ludiche. Ma l’ambito di applicazione di questa scoperta non sono i videogiochi: è la vita. I pubblicitari lo sapevano dai tempi delle figurine Miralanza: i videogiochi gliel’hanno fatto riscoprire e immaginare di poterlo applicare a ogni ambito possibile. Lotterie. Estrazioni. Raccolte punti. La trasformazione dell’intrattenimento: i talent sono un (finto) gioco, non vi siete accorti? Il lavoro di data entry, uno dei più noiosi al mondo, trasformato in un (finto) giochino. I sondaggi on line. L’azzardo e le slot. Una delle caratteristiche degli ultimi anni è la presenza di pratiche grossolanamente ludiformi ovunque. E i loro effetti mi paiono più pesanti – e più meritevoli di investigazione – di una manciata di adolescenti fissati con Fortnite.
È come il sesso. I pubblicitari sanno benissimo che vende meglio di qualunque altra cosa, e come risultato siamo a bagno nel sesso da mattina a sera.
E nel mentre giocherelliamo con l’ultima app del telefonino.
Potrebbe uscirci un’inchiesta giornalistica interessante.
Credo.