Non mi sono fatto niente!
Per quelli di voi che non sono esperti della migliore commedia italiana, il riferimento è a una scena classica del Ciclone di Pieraccioni:
Perché la settimana prima di Natale, andando a Sorso per una valutazione sociale di Banca Etica, sono uscito di strada e ho distrutto la macchina.
Oh, lo so che è un fatto personale, ma visto che il blog è interamente dedicato ai fatti miei mi dilungo un pochetto.
E quindi ci sono io, al chilometro 188 della Carlo Felice, che affronto baldanzoso una curva e sento che la macchina sbanda.
Sapete quelle storie che tutta la vita ti passa davanti come un film? Come già mi era capitato di riflettere un’altra volta, non è mica vero.
Io ho pensato che la macchina sbandava, ho frenato e quando se ne è andata per una traiettoria tutta sua, si sono succeduti il pensiero che avrei fatto dei danni alla macchina che tutti avrebbero visto e mi avrebbero rimproverato, la consapevolezza che mi stavo girando in testacoda, l’idea che probabilmente mi sarei fatto molto male, l’attesa un po’ nauseabonda della sensazione di ossa rotte, la consapevolezza in un angolo della mente della morte imminente.
Oh, avete messo più tempo voi a leggerlo che io a pensarlo.
Poi uno schianto, i vetri rotti e io sono lì, vivo e vegeto, che esco dalla macchina coi miei piedi, illeso.
Tutto il resto, devo dire, mi sembra un po’ strano, e un po’ tragicomico, nel ricordo. Per esempio i due automobilisti, gentilissimi, che si sono fermati e poi discutevano, con aria di antica saggezza popolare, di traiettorie, danni possibili e impossibili, eventuali guasti meccanici, ghiaccio, olio, soppesando accademicamente le possibilità.
Uno ha guardato con aria critica il palo che avevo spianato e mi ha detto, scuotendo la testa: «Se non c’era quello non si faceva niente alla macchina, c’aveva tutto il campo aperto e non succedeva niente». Lezioni di aplomb.
Oppure un momento francamente ridicolo, e pericolosissimo, quando due tizi che parcheggiati dall’altra parte hanno attraversato a piedi la 131 per venire a vedere, scavalcando anche il guard rail, e io con la mano sanguinante gli ho fatto un cazziatone sulla sicurezza. E loro, ricacciati, hanno riattraversato la 131 sulla curva, come se niente fosse.
Uno dei soccorritori mi ha dato un passaggio a Sassari, sono andato alla sede di Banca Etica a medicarmi (l’ennesima prova che la mia Banca è davvero differente) e poi mi sono preso il treno verso Cagliari, provando addirittura l’emozione mitologica, della quale tutti in Sardegna parlano ma che pochi vivono davvero, di cambiare a Chilivani.
Devo dire che i toni da farsa sono proseguiti per un po’. Per esempio avevo chiamato il 113 per chiedere istruzioni – la macchina era molto oltre la carreggiata, e non poneva pericoli – ma mentre ero in treno mi è squillato il telefono e un sollecito e cortesissimo maresciallo dei Carabinieri si è informato della mia salute. Avevano trovato la macchina – ovviamente la Polizia non gli aveva passato comunicazione – e dopo avere chiamato tutti i Pronto Soccorso si chiedevano dove diamine fossi finito.
Se fossi finito, per l’esattezza.
Oppure la mattina dopo, appena alzato, squilla ancora il telefono. È il centro di controllo del marchingegno di navigazione dell’assicurazione, e mi avvisa che mi stanno rubando la macchina. «Guardi, non credo», faccio.
E invece era (quasi) vero. Perché dopo pranzo, mentre cercavo di organizzare rimozione e rottamazione, telefona ancora il sollecito maresciallo del giorno prima, sempre cortese ma un pochino inquisitivo. Perché di mattina, all’alba, nello stesso punto è uscita di strada un’altra macchina, che anch’essa è stata mollata lì, e adesso non c’è più e non c’è più nemmeno la mia, e si chiedono, il maresciallo e il proprietario, se per caso non ho fatto rimuovere la mia macchina e magari, già che c’ero, anche l’altra.
No. E quindi emerge l’altra ipotesi, che qualcuno le abbia fatte rimuovere tutte e due. Ma chi? L’ANAS non risponde, la Polizia è impotente e i Carabinieri brancolano nel buio. La centrale operativa del marchingegno assicurativo mi dice che loro potrebbero anche saperlo, dov’è la mia macchina, ma che se è dentro un capannone il marchingegno non prende.
Lo segnalo ai ladri: munitevi di capannone e andate giù lisci, santo cielo.
Sempre la suddetta centrale operativa ci indirizza alle varie forze municipali, che anche loro non sanno niente.
Alla fine, pazientemente, si scopre qual è il deposito dov’è finita la mia macchina. «Le ha fatte rimuovere la Stradale», mi dice con una punta, lievissima, di fastidio il cortese ma esasperato maresciallo, «che poi non si sa neppure quale Stradale, ma lasciamo perdere».
Già, pazienza. L’importante è che il mistero è risolto.
Resta una strana sensazione, strisciante, di essermi dimenticato qualcosa. Non qualcosa dell’incidente: in generale, come quando c’era una cosa che dovevi fare e però non ti ricordi cosa.
E dei pensieri buffi. Vivremo in mondi paralleli, e c’è un mondo dove Roberto Sedda è morto? Per quanto strano, sono sicuro che nei primi due minuti, mentre mi aggiravo attorno alla macchina, tutto quello che pensavo era un video comico che ho visto una volta nel quale uno corteggiava una ragazza e quando sbagliava la mossa premeva un pulsante e tornava indietro nel tempo.
E ho pensato: secondo me qualcuno ha premuto il pulsante e adesso sono altrove, ma non sono proprio io. Io sono morto e sto da un’altra parte.
Con la massima serietà.
E le domande, ogni tanto: correvo troppo? Questa sembrerebbe anche l’opinione di mio cognato, che quando sono tornato a casa mi ha salutato con un allegro: «Eccolo qua, Nuvolari».
Non credo che corressi troppo. La curva, oltretutto, era dopo una salita. Però quando sono tornato là, andando a far rottamare la macchina, ho visto che la curva è segnalata con le frecce bianche, come pericolosa, e ci sono rimasto male: non me lo ricordavo, forse non l’avevo neppure notato.
E ci sono tutti quelli che ti chiamano per sapere come stai (nell’immediatezza, mezza Banca, perché Carlo Usai si è emozionato e ha sparso la voce) o che quando lo racconti si emozionano e si preoccupano, per quello che poteva succedere. Che ti fa un mondo di piacere, ma ti imbarazza, anche, perché pensi e ripensi al dispiacere che potevi dargli (per non parlare di Maria Bonaria, ovviamente).
Ho raccontato queste cose a un amico, e mi ha detto: «Ah, quindi ti è rimasta un po’ di ansia strisciante, no?».
Ah, era ansia.
Da allora non ho più la sensazione di essermi scordato qualcosa. E in generale mi sono messo il cuore in pace.
Per finire? Beh, resta da dire che, facendo zapping fra le varie stazioni radio, mentre guidavo, sono capitato su Radio Maria, che non ascolto mai, mentre parlava un esorcista, non proprio il mio tipo di trasmissione preferita. Congedandosi ha chiesto una preghiera per tutti i casi difficili di cui si occupa, e io mi sono detto un’Ave Maria, riflettendo con un po’ di autoironia che mi occupo poco dei miei peccati ma sono sempre pronto a pregare per quelli degli altri.
Poco dopo sono uscito di strada. E non mi sono fatto niente.
Secondo me quell’Ave Maria mi ha salvato la pelle. Non facciamone un caso, però: semplicemente, la fede conosce ragioni che sono ignote alla logica.
Mi spiace per l’incidente e per la macchina sfasciata, ma sono contento che tu non ti sia fatto nulla.
Grazie!