Alla radice
Segnalo una storia di cui ha parlato ieri Il Post – un video d’odio viscerale e veramente offensivo contro la religione islamica (se potete essere offesi dalle bestemmie non cliccate sul link), inconsapevole ma non involontario, che ha generato il solito delirio di reazioni minacciose e violente tipiche dell’epoca social e, a cascata, le solite reazioni di rimando semi-isteriche e il solito dibattito del tutto polarizzato.
La segnalazione non è in realtà per la questione in sé, dato che probabilmente fra due settimane nessuno si ricorderà più di niente, quanto per osservare come questo caso renda evidente come le categorie culturali impiegate, che sono tutte molto tipiche dell’oggi, non siano minimamente in grado di gestire il conflitto.
È, in un certo senso, una storia di disvelamenti:
- della pochezza morale e della mancanza di educazione emotiva degli adolescenti (per cui è ragionevole dire che tutte le ragazze magrebine sono brutte senza minimamente rendersi conto del razzismo implicito, e alle critiche è ragionevole rispondere con l’assolutizzazione del proprio punto di vista fino all’offesa sanguinosa di un intero gruppo sociale e delle sue credenze);
- dell’incapacità della reazione al conflitto ad agire senza invocare l’annientamento totale dell’offensore (anni di boicottaggi senza senso ci costringono ormai a pagare dazio ogni volta);
- della violenza implicita che può esservi in chi invoca rispetto per la propria fede («chi semina vento raccoglie tempesta», detto dal rappresentante delle comunità islamiche in Francia, è un piccolo saggio in cinque parole);
- della incapacità, con le categorie della democrazia liberale, di risolvere il problema del rapporto fra libertà di pensiero, legittimità di critica, rispetto delle minoranze (o delle identità) e rischi legati alla censura: la Mila che ha fatto il filmato è razzista, lesbica, antislamica e (diciamolo) una ragazzina scema; una combinazione che riordina in maniera surreale tutto il campo delle alleanze fra i protagonisti della discussione, creando cortocircuiti pazzeschi.
Poi, vabbe’, è tutto spettacolo: comparsate televisive, dibattiti, rilanci sui social e tutto il resto della fiera, quindi il nocciolo delirante di questa storia è ulteriormente avvolto nel fumo e paillettes della società dello spettacolo, però è un caso interessantissimo, direi esemplare, dell’impotenza della nostra società a gestire il tema delle identità, dopo averle assolutizzate facendone il paradigma di riferimento delle interazioni fra gruppi sociali.
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