La lettera sgradita
È uscita martedì, su Harper’s Magazine, una lettera aperta (che sarà pubblicata, chissà perché, sul numero di ottobre) firmata da un gran numero di intellettuali americani quasi tutti di sinistra (fra cui nomi molto noti di studiosi, come Chomsky, e autrici molto amate come Margaret Atwood) che si pronunciano apertamente contro la cancel culture, cioè quell’approccio alla lotta culturale e politica che, lo dico brevemente, porta alla eliminazione sul piano sociale del proprio bersaglio: abbattimento di statue, licenziamento di esponenti del pensiero avverso, ritiro di libri e opere artistiche dalla circolazione eccetera. So che ho semplificato, ma è anche vero che, fatte tutte le possibili precisazioni e distinzioni, il nucleo della questione è quello (se ne parlava nell’articolo sui boicottaggi e in quello sulle messe alla gogna collettive).
La lettera è importante e mi è sembrato il caso di tradurla (la trovate qui sotto); devo dire che ne condivido il succo anche se la mia prima reazione, leggendola, è stata in un certo senso di scetticismo, qualcosa tipo: «Nel letto che ti sei preparato poi ci devi dormire». Dando una scorsa ai nomi dell’elenco, e tolte figure che si sono (quasi) sempre coerentemente espresse per l’assoluta libertà di parola, come Chomsky e Atwood, e i casi limite come JK Rowlings, buona parte degli altri e delle altre è gente che si è sempre contraddistinta per posizioni a favore del politicamente corretto (anche qui semplifico, mettendoci dentro l’identity politics, i gender studies e una serie di altre posizioni culturali di stretta osservanza per il liberalismo di sinistra americano – e ormai anche europeo – a cui magari andrebbe aggiunta una riflessione sullo sdoganamento del termine -fobia come cappello per cose spesso obiettivamente molto diverse, il proliferare della codifica dei reati d’odio e l’identificazione di troll e fake news come categoria mitologica e non come coacervo di interessi ben concreti). La cancel culture è esattamente figlia di quelle posizioni culturali, quindi la lamentela, pur condivisibile, suona un po’ buffa: anche solo guardando il blog, vedo che la traduzione dell’articolo sul diffondersi della moda dei trigger warning è del 2014; quello sulle gogne mediatiche è del 2015 e dello stesso anno è una traduzione di un articolo in cui un docente di sinistra diceva di essere terrorizzato dai suoi studenti; tutto era già abbastanza chiaro già cinque anni fa, e vedendo questa lettera non si può che pensare, alla cagliaritana: «È arrivato menevado». Vista dall’esterno, è una faida fra liberalismi tutto sommato abbastanza simili fra loro, che si agitano solo quando sono toccati direttamente nei loro punti critici.
La lettera aperta fa il paio, in un certo senso, con un intervento di Obama di qualche mese fa che se la prendeva con la woke culture (la cultura della consapevolezza di molti attivisti sociali de noantri che si nutre di «accecanti certezza morali», secondo un’espressione che ritroverete qui sotto nella lettera).
Lettera aperta e intervento di Obama sono entrambi il segnale che le élite liberali americane reagiscono con irritazione al fatto di essere superate (a sinistra? a destra?) sul piano intellettuale da gruppi che si appropriano delle loro posizioni tradizionali stravolgendole, esattamente come avevano reagito con sconcerto allo stesso tipo di superamento, ma sul piano politico, operato dai famosi sovranisti.
Se Obama gode di influenza reale e fa il suo gioco, la lettera aperta sembra invece piuttosto debole sul piano politico. Intanto, anche se è vero che nelle ultime settimane la cancel culture ha raggiunto vette da Terrore rivoluzionario e si comprende la decisione di reagire, tuttavia politicamente è ambigua, gioca direttamente nelle mani della destra e, obiettivamente, tende a indebolire il movimento che dice di voler sostenere. E poi è debole perché è reattiva, non prende l’iniziativa politica ma gioca di rimessa. L’alternativa da costruire non è deprecare le pratiche censorie degli oltranzisti ma togliergli la direzione politica del movimento. Capisco che per un gruppo di firmatari che ha ottant’anni per gamba fare questo sforzo di lavoro politico diretto sia abbastanza difficile, non solo perché per quanto arzilli devono andare a letto presto ma anche perché uno degli elementi chiave del momento è il conflitto generazionale e i boomer e i loro genitori sono esattamente coloro verso cui si dirige la rabbia di tutte le altre generazioni – quando non sono impegnate a farsi la forca fra loro.
Parentesi: è curioso come spostare la direzione del movimento di protesta dal tagliare il budget della polizia a buttare giù un po’ di statue abbia dilapidato il capitale di simpatia politica del movimento, quasi che in America sia considerato più accettabile bruciare un distretto di polizia che abbattere il generale Lee; non so bene che deduzioni politiche se ne possano trarre, però è interessante.
Anche con tutti questi suoi limiti, comunque, la lettera è una presa di posizione forte con nomi di peso, e il suo effetto si farà sentire. Vedo non a caso che è già partita la difesa d’ufficio (anche in Italia, con un articolo di Wired sorprendentemente non all’altezza di quanto ci si poteva aspettare). La tesi, sembrerebbe, è che non si può polemizzare contro la cancel culture perché in realtà la cancel culture non esiste. A tal proposito vorrei offrire un aneddoto personale, che come vedrete è intenzionalmente politicamente scorretto.
Diversi anni fa partecipavo a un corso di formazione. La sera prima, casualmente, cenai con la responsabile del centro culturale che ci ospitava, un’amica. Erano i tempi nei quali gli assessori alla cultura di destra si facevano un vanto di togliere dalle biblioteche comunali poveri libri innocenti che, secondo loro, propagandavano il gender. Ricordo che a tavola, dopo avere augurato ogni bene ai suddetti assessori, concordammo tutti che, oltre tutto, il gender non esisteva.
La mattina dopo, durante i lavori, il formatore a un certo punto disse: «Allora, facciamo due gruppi… una cosa semplice: uomini, andate di là, donne, quell’altra parte». E subito la responsabile del centro intervenne, con molta gentilezza: «In questo luogo preferiamo evitare questo tipo di linguaggio e non diciamo uomini e donne; al massimo usiamo i tenimi maschio e femmina».
Ricordo con molta chiarezza che in quel momento pensai, dopo avere riconosciuto fra me e me l’importanza di un approccio non binario ed avere fatto una metaforica genuflessione al concetto, e dopo essermi altrettanto metaforicamente fustigato per punirmi del carico del mio privilegio di maschio bianco cisetero di mezza età fallocrate – forse non usai fallocrate perché non era più di moda da vent’anni e suonava sarcastico, Dio guardi – ecco, dopo tutti questi appropriati sacrifici agli idoli pensai: «Certo che questo gender per dire che non esiste è bello normativo, se può stabilire quel che si può e non si può dire».
Ecco, la mia mia opinione sulla cancel culture è questa: sicuramente non esiste. Al massimo sarà poco più che una semplice influenza. Ma certo che per essere qualcosa che non esiste di gente ne fa licenziare, no?
Una lettera sulla giustizia e la libertà di confronto
Le nostre istituzioni culturali stanno affrontando un duro momento di prova. Forti proteste in favore della giustizia razziale e sociale portano a richieste rimaste a lungo senza risposta di riforma della polizia, a fianco a istanze più ampie di maggiore uguaglianza e inclusione in tutti gli aspetti della società, non da ultimo nell’istruzione universitaria, nel giornalismo, nella filantropia e nelle arti. Ma questa necessaria resa dei conti ha anche intensificato un nuovo sistema di approcci morali e di scelte politiche che tende a indebolire le nostre regole in favore della libertà di dibattito e di tolleranza delle differenze in favore del conformismo ideologico. Se acclamiamo alla prima serie di eventi, intendiamo anche alzare la nostra voce contro la seconda. Le forze dell’illiberalità si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un alleato potente in Donald Trump, che rappresenta una reale minaccia alla democrazia. Ma non si deve permettere che la resistenza si irrigidisca in una sua propria forma di dogmatismo e di coercizione – cosa che i demagoghi di destra stanno già sfruttando.
Il libero scambio di informazioni e di idee, la linfa vitale di una società liberale, viene quotidianamente soffocato sempre più. Se ci siamo abituati a considerarlo normale da parte della destra radicale, gli atteggiamenti censori si stanno diffondendo anche nella nostra cultura: una intolleranza per le visioni opposte alla propria, una inclinazione alla gogna pubblica e all’ostracismo e la tendenza a sciogliere complesse questioni politiche in accecanti sicurezze morali. Noi sosteniamo il valore di robuste e perfino caustiche contro-argomentazioni provenienti da ogni parte. Ma oggi è fin troppo comune sentire richieste di rapide e severe punizioni in risposta a supposte trasgressioni di parola e di pensiero. Peggio ancora, i responsabili delle istituzioni, con un approccio di riduzione del danno dettato dal panico, si affidano a punizioni sproporzionate e frettolose invece di riforme ragionate. Vengono licenziati redattori per avere permesso la pubblicazione di articoli controversi; vengono ritirati dal commercio libri per falsità solo presunte; si impedisce ai giornalisti di scrivere su determinati argomenti; dei docenti vengono messi sotto inchiesta per avere citato determinate opere letterarie a lezione; uno studioso è licenziato per aver fatto circolare una ricerca accademica peer-reviewed; capi di organizzazioni vengono cacciati per quelli che sono talvolta solo errori maldestri. A prescindere dalle opinioni su ciascun caso particolare, il risultato è stato quello di restringere progressivamente i confini di ciò che può essere detto senza dover temere rappresaglie. Ne stiamo già pagando il prezzo in una accresciuta riluttanza da parte di scrittori, artisti e giornalisti a rischiare i propri mezzi di sussistenza nel caso che si discostino dalle opinioni che vanno per la maggiore, o anche qualora non le sostengano con sufficiente zelo.
Questa atmosfera soffocante non potrà che danneggiare, alla fine, le cause più vitali del nostro tempo. La riduzione del dibattito pubblico, che avvenga a opera di un governo oppressivo o di una società intollerante, invariabilmente danneggia coloro che sono privi di potere e riduce la capacità di partecipazione democratica di ciascuno. Il modo per sconfiggere le idee cattive è nel metterne alla luce i difetti, nel ragionamento e nella forza di persuasione, non nel tentare di imbavagliarle o nel desiderare che semplicemente svaniscano. Noi rifiutiamo ogni falsa alternativa fra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Come scrittori abbiamo necessità di una cultura che lasci spazio alla sperimentazione, alla possibilità di rischiare e perfino gli errori. Abbiamo la necessità di preservare uno spazio in cui il dissenso in buona fede non abbia feroci conseguenze professionali. Se noi non difendessimo esattamente ciò che da cui dipende il nostro lavoro, non potremmo aspettarci che lo Stato o l’opinione pubblica lo difendano per noi.
Elliot Ackerman Saladin Ambar, Rutgers University Martin Amis Anne Applebaum Marie Arana, author Margaret Atwood John Banville Mia Bay, historian Louis Begley, writer Roger Berkowitz, Bard College Paul Berman, writer Sheri Berman, Barnard College Reginald Dwayne Betts, poet Neil Blair, agent David W. Blight, Yale University Jennifer Finney Boylan, author David Bromwich David Brooks, columnist Ian Buruma, Bard College Lea Carpenter Noam Chomsky, MIT (emeritus) Nicholas A. Christakis, Yale University Roger Cohen, writer Ambassador Frances D. Cook, ret. Drucilla Cornell, Founder, uBuntu Project Kamel Daoud Meghan Daum, writer Gerald Early, Washington University-St. Louis Jeffrey Eugenides, writer Dexter Filkins Federico Finchelstein, The New School Caitlin Flanagan Richard T. Ford, Stanford Law School Kmele Foster David Frum, journalist Francis Fukuyama, Stanford University Atul Gawande, Harvard University Todd Gitlin, Columbia University Kim Ghattas Malcolm Gladwell Michelle Goldberg, columnist Rebecca Goldstein, writer Anthony Grafton, Princeton University David Greenberg, Rutgers University Linda Greenhouse Rinne B. Groff, playwright Sarah Haider, activist Jonathan Haidt, NYU-Stern Roya Hakakian, writer Shadi Hamid, Brookings Institution Jeet Heer, The Nation Katie Herzog, podcast host Susannah Heschel, Dartmouth College Adam Hochschild, author Arlie Russell Hochschild, author Eva Hoffman, writer Coleman Hughes, writer/Manhattan Institute Hussein Ibish, Arab Gulf States Institute Michael Ignatieff Zaid Jilani, journalist Bill T. Jones, New York Live Arts Wendy Kaminer, writer Matthew Karp, Princeton University Garry Kasparov, Renew Democracy Initiative Daniel Kehlmann, writer Randall Kennedy Khaled Khalifa, writer Parag Khanna, author Laura Kipnis, Northwestern University Frances Kissling, Center for Health, Ethics, Social Policy Enrique Krauze, historian Anthony Kronman, Yale University Joy Ladin, Yeshiva University Nicholas Lemann, Columbia University Mark Lilla, Columbia University Susie Linfield, New York University Damon Linker, writer Dahlia Lithwick, Slate Steven Lukes, New York University John R. MacArthur, publisher, writer | Susan Madrak, writer Phoebe Maltz Bovy, writer Greil Marcus Wynton Marsalis, Jazz at Lincoln Center Kati Marton, author Debra Mashek, scholar Deirdre McCloskey, University of Illinois at Chicago John McWhorter, Columbia University Uday Mehta, City University of New York Andrew Moravcsik, Princeton University Yascha Mounk, Persuasion Samuel Moyn, Yale University Meera Nanda, writer and teacher Cary Nelson, University of Illinois at Urbana-Champaign Olivia Nuzzi, New York Magazine Mark Oppenheimer, Yale University Dael Orlandersmith, writer/performer George Packer Nell Irvin Painter, Princeton University (emerita) Greg Pardlo, Rutgers University – Camden Orlando Patterson, Harvard University Steven Pinker, Harvard University Letty Cottin Pogrebin Katha Pollitt, writer Claire Bond Potter, The New School Taufiq Rahim, New America Foundation Zia Haider Rahman, writer Jennifer Ratner-Rosenhagen, University of Wisconsin Jonathan Rauch, Brookings Institution/The Atlantic Neil Roberts, political theorist Melvin Rogers, Brown University Kat Rosenfield, writer Loretta J. Ross, Smith College J.K. Rowling Salman Rushdie, New York University Karim Sadjadpour, Carnegie Endowment Daryl Michael Scott, Howard University Diana Senechal, teacher and writer Jennifer Senior, columnist Judith Shulevitz, writer Jesse Singal, journalist Anne-Marie Slaughter Andrew Solomon, writer Deborah Solomon, critic and biographer Allison Stanger, Middlebury College Paul Starr, American Prospect/Princeton University Wendell Steavenson, writer Gloria Steinem, writer and activist Nadine Strossen, New York Law School Ronald S. Sullivan Jr., Harvard Law School Kian Tajbakhsh, Columbia University Zephyr Teachout, Fordham University Cynthia Tucker, University of South Alabama Adaner Usmani, Harvard University Chloe Valdary Lucía Martínez Valdivia, Reed College Helen Vendler, Harvard University Judy B. Walzer Michael Walzer Eric K. Washington, historian Caroline Weber, historian Randi Weingarten, American Federation of Teachers Bari Weiss Sean Wilentz, Princeton University Garry Wills Thomas Chatterton Williams, writer Robert F. Worth, journalist and author Molly Worthen, University of North Carolina at Chapel Hill Matthew Yglesias Emily Yoffe, journalist Cathy Young, journalist Fareed Zakaria |