Esempio appropriato: John Wick
Le scorse notti, dopo la visione familiare di Modern Family o Boris o Il giovane Montalbano, quando Maria Bonaria era andata a letto e io non riuscivo a dormire, mi sono guardato tutta la saga (finora) di John Wick, primo, secondo e terzo.
Parentesi: come faccia Maria Bonaria a dormire, mentre nello studio viene consumato in pallottole l’intero budget in spese militari dei paesi balcanici, non manca mai di suscitare la mia più completa meraviglia.
Ma divago.
Devo dire che coi primi due mi sono abbastanza divertito. Da un punto di vista cinematografico la trilogia conferma che Keanu Reeves, per quanta ironia possano fare certi a proposito della fissità delle espressioni, ha una presenza scenica magnetica che lo rende iconico praticamente in tutto quello che fa, fino al punto di trasformare in oro al botteghino cose in partenza fatte di materiali assai meno pregiati.
E poi è interessante, e anche molto evidente, la riproposizione di una estetica molto cyberpunk: la città che vive costantemente sotto i neon (che quando si spengono la rivelano tetra); la città fatta di comunità multietniche affastellate assieme; i samurai di strada; la fascinazione per l’incrocio uomo-macchina del cyberpunk sostituita, quasi senza colpo ferire, con l’incrocio uomo-arma. Forse postmoderno sarebbe un aggettivo più preciso, ma sono stati Gibson, Sterling e gli altri che hanno trasformato la città postmoderna in scenario del racconto avventuroso, e quindi il riferimento all’estetica cyberpunk mi sembra corretto.
Non frequento particolarmente il genere (la visione notturna dei tre film è stata concepita come una bizzarria), quindi non so se le sparatorie coreografate come balletti siano rimaste un elemento ricorrente o siano state dissepolte per l’occasione, ma l’omaggio al cinema hongkonghese e a John Woo e Chow Yun-Fat mi è sembrato evidente e piacevole.
Per me l’aspetto più interessante della serie, peraltro, e che credo me la farà citare spesso, è il fatto che ci ho trovato inaspettatamente conferma di una cosa che qualche mese fa ho detto e ridetto nel corso di narrazioni per videogame. L’idea su cui ho insistito molto durante il corso è stata quella che spesso il responsabile dello sviluppo narrativo di un videogame non sarà chiamato a costruire un intero arco narrativo, quanto meno non nello stesso modo con cui lo farebbe, poniamo, un romanziere, ma piuttosto sarà chiamato a inserire materiali sparsi, spezzoni di narrazione: definire i personaggi, fossero anche solo icone, curare un’ambientazione, fossero anche solo i fondali, caratterizzare il cattivo, fosse anche solo il mostro di fine livello. Farlo bene vuol dire comunque dare una dimensione narrativa al gioco, renderlo più profondo e talvolta perfino dargli un senso che altrimenti non avrebbe.
Così dicevo. John Wick e i suoi seguiti dimostrano che la cosa vale anche per il cinema. Si tratta, infatti, del film più senza trama che abbia mai visto: dopo lo spunto iniziale e una volta enunciato il tema (la Vendetta del Falso Uomo Tranquillo) il resto va via in sparatorie praticamente senza successione di continuità, in un sequenza di avvenimenti in cui sviluppo narrativo, evoluzione dei personaggi, climax, anticlimax, tutto il bagaglio abituale di un’opera di narrazione, è eliminato come se fosse una zavorra fastidiosa.
Fra parentesi: questa dimensione fa assomigliare John Wick a un altro film diversissimo, e cioè: Mad Max: Fury Road. Entrambi sono film così sbagliati da far pensare che siano stati, in un certo senso, prodotti per errore o sfuggiti al sistema, fino ad avere successo quando avrebbero dovuto essere soppressi.
Tornando a John Wick, il fatto che non ci sia trama non vuol dire che non ci sia narrazione, piuttosto che la dimensione narrativa è affidata a elementi slegati fra loro ma che collaborano a dare una dimensione di profondità (ingannevole, come il trompe-l’œil) al mondo e alla vicenda. L’invenzione migliore è l’Hotel Continental, club esclusivo di assassini e mercenari nel quale è vietato sbrigare lavori, ma collabora anche la cura nel tratteggiare la galleria dei killer e dei personaggi di contorno. Arrivati al secondo episodio gli sceneggiatori sono a loro agio e giocano ad aggiungere a ciò che il pubblico ha già apprezzato: la scena del sarto che prepara smoking tattici cuciti su misura o la degustazione col sommelier che prevede non il rifornimento di bottiglie ma di grossi pistoloni sono già fan service, ma è un fan service molto efficace, e sono invenzioni interessanti, e trattate con abilità, il regno dei mendicanti sulla Bowery o la sala con le ragazze tatuate che tengono conto dei contratti come se fossero una sala scommesse. Perfino il pegno di sangue che Scamarcio esibisce gioca con efficacia dentro una dimensione già costruita, quella di un mondo con una sua propria moneta corrente fatta di favori dati e restituiti e simboleggiati dalle onnipresenti monete d’oro.
Si tratta di un lavoro sui materiali narrativi che permette di passare sopra, con facilità, a una serie di incongruenze: intanto il fatto che per essere un killer invisibile e straordinario (anche il nomignolo di Baba Yaga o il racconto ripetuto del fatto che una volta ha ucciso tre uomini con una matita sono elementi narrativi efficaci) John Wick le prende di santa ragione con una ripetitività impressionante (e uno mentre guarda si immagina Jason Bourne che scuote la testa con disprezzo); oltretutto apparentemente la sua idea di sofisticatezza è andare lì e sparare a tutti; di incongruenze ce n’è tutta un’altra serie, ma le lascio a un articolo che, come quello sul tiranno cattivo, potrei intitolare Cento cose che farei se fossi il nemico di John Wick: la prima regola sarebbe, ovviamente, non gli ammazzerei mai il cane, ma credo che anche eviterei di mandargli addosso tutti i miei killer a distanza ravvicinata uno alla volta, un cecchino con fucile con mirino telescopico a 500 metri andrà benissimo sarà abbastanza in alto in graduatoria.
Il terzo episodio è interessante, al negativo, perché conferma un’altra cosa abbastanza importante per narratori, autori di giochi di ruolo e creatori di videogame, ed è la necessità di evitare la sindrome di JK Rowlings. Questo tipo di creazioni in chiaroscuro funzionano fintanto che non si entra troppo nel dettaglio: meno cose fai vedere, meno spiegazioni dai, e meglio è. Quando la Rowlings si è messa a dettagliare il mondo di Harry Potter tutte le incongruenze che fino a quel momento aveva accuratamente lasciato sullo fondo le sono scoppiate in mano. In Parabellum succede lo stesso: questa volta la trama c’è ma la necessità di dettagliare il mondo e dare corpo all’intrigo fa passare in secondo piano le invenzioni che ancora ci sono (il teatro della Ruska Roma, scuola di balletto e di assassinio, il motto I have served, I will be of service), col risultato che la sospensione di incredulità svanisce e alcune parti sfiorano (o superano direttamente) il ridicolo, come la parentesi nel deserto.