La leggenda dell’NBA (e i videogame)
Uno degli esercizi che faccio fare talvolta quando parlo di narrative design, in particolare se l’argomento sono le narrazioni per videogame, è quello di prendere un gioco – uno qualunque, anche da tavolo, oppure perfino nascondino o qualunque altra cosa – e provare a inserirvi elementi narrativi, per vedere cosa succede.
È un esercizio utile e, mi pare, molto istruttivo, ma è anche piuttosto difficile, non da ultimo perché ha una certa componente filosofica che piace ai secchioni come me ma che a gente normale può apparire piuttosto esoterica, tanto più che in molti casi non si tratta tanto di aggiungere qualcosa a un gioco per migliorarlo, quanto di usare questo trucco per farsi venire l’ispirazione per un gioco del tutto nuovo.
Non a caso l’idea dell’esercizio proviene da una osservazione di John Ingold (quello di Inkle) che raccontava come l’idea per Pendragon gli fosse venuta chiedendosi cosa sarebbe successo se le pedine degli scacchi avessero avuto sentimenti e obiettivi e la possibilità di discutere fra loro. Il punto, però, è che se uno osserva Pendragon capisce benissimo cosa intenda dire Ingold, ma nota anche che, pur avendo mantenuto alla base una meccanica di gioco di scacchiera, il risultato è molto lontano da «scacchi con le pedine che parlano» e l’interazione fra i personaggi/pedine rientra alla fine nei canoni ben noti del gioco di ruolo o comunque narrativo.
L’altro elementi di difficoltà è dato dal fatto che nei videogame non si fa letteratura e quindi dire: «inserite degli elementi narrativi» non vuol dire che si deve scrivere un romanzo con tanto di personaggi, trama, ambientazione e così via, ma magari lavorare anche solo su uno di questi aspetti, spesso anche ridotto a dimensioni molto elementari. Elemento narrativo può essere anche solo un singolo personaggio, un breve dialogo, l’ambientazione, la caratterizzazione dei personaggi e mille altre cose. Pezzettini che, una volta inseriti nel gioco, si fatica a riconoscere come elementi narrativi, eppure che contribuiscono a costruire una narrazione perfino, talvolta, capace di creare leggende e mitologie.
Leggende e mitologie, bum! Eppure proprio a questo pensavo oggi durante una delle mie solite divagazioni sotto la doccia.
Una volta qualcuno mi ha chiesto se come gioco in cui inserire elementi narrativi si possa usare uno sport. La risposta, ovviamente, è stata sì e oggi, sotto l’acqua, pensavo che in materia di sport esiste un esempio perfettamente riuscito di questa operazione, che è la NBA, diciamo quanto meno la NBA di David Stern. Stern ha preso una lega in crisi e ha lavorato consapevolmente per costruire una immagine della realtà a lui affidata che fosse caratterizzata da una idea di eccezionalità. Come ha fatto? Beh, mediante il consapevole inserimento nel gioco di dimensioni che ne favorissero, usiamo una parola inventata, la narrabilità.
Immagino che qualcuno stia pensando al ben noto espediente di mandare in giro per il mondo le VHS delle partite o, ancora meglio, le sintesi con le giocate migliori e i momenti più spettacolari: la cassetta era, evidentemente, il racconto della partita e, dato che conteneva i pezzi migliori, ed era un racconto che favoriva una narrazione della lega basata sull’idea di una sua spettacolarità non posseduta da nessun altro sport – o perlomeno nessun’altra associazione di pallacanestro.
Scusate, devo fare una pausa perché penso soprattutto ai videogame e quindi faccio una divagazione teorica: concettualmente, mettere in un videogame, per esempio di azione, la possibilità per il giocatore di registrare certe sequenze per poi vederne i replay , soprattutto quelli più emozionanti – oppure i goal nei simulatori di calcio, è lo stesso – aggiunge al gioco una dimensione narrativa esattamente identica a quella creata da Stern per il suo basket: banalmente, rende l’esperienza di gioco condivisibile con altri a posteriori, e quindi raccontabile. Che oggi si possa fare a meno di registrare perché si può direttamente fare lo streaming su Twitch è una semplice evoluzione tecnologica, ma sempre lì siamo: rende il gioco narrabile in quanto condivisibile, e quindi il bravo sviluppatore deve consapevolmente rendere possibili queste cose nel suo gioco. Fine della parentesi.
Molto più che la questione delle VHS, però, il vero lavoro narrativo fatto sulla NBA è stato analogo a quello di Pendragon: trasformare i giocatori da semplici pedine a personaggi – anche a costo di sminuire l’importanza delle squadre, che in qualunque altro sport è considerato anatema. In tutti gli sport alcuni campioni acquisiscono una loro importanza personale, e nello sport americano il culto della personalità è certamente più sviluppato che in quelli europei – basti pensare che le loro Hall of Fame hanno tutte almeno cinquant’anni, ma il lavoro sulla NBA è peculiare e interessante perché si può osservare con chiarezza.
Passo primo: un tema, la rivalità
Per esempio: la rinascita della NBA inizia dalla rivalità fra Magic e Larry Bird. Una rivalità, ovviamente, è un elemento narrativo ben noto, di sicuro successo e capace di catalizzare l’attenzione. Ancora una volta, stiamo parlando di elementi apparentemente controintuitivi, perché potresti chiederti se l’attenzione riservata a due giocatori solamente non vada a detrimento di tutti gli altri e del resto del movimento. La risposta è no, perché una volta che impari a raccontare la lega dentro una cornice di eroi larger than life che si affrontano nell’arena neanche fossero Achille ed Ettore, quello stesso schema della rivalità potrà essere riutilizzato più e più volte, per esempio con la storia del talentuoso Jordan contro i bad boys di Detroit, o dell’eternamente sottovalutato Moses Malone contro l’inimitabile Jabbar, e generare varianti e derivazioni: per fermarci a Michael Jordan e ai Pistons, c’è tutta la storia dell’AIDS e del Dream Team in cui Isiah Thomas va a occupare il ruolo del traditore e addirittura dello Jago della situazione.
Nuova pausa: narrativamente parlando, il tema della rivalità è fortissimo, ed è capace di generare momenti memorabili – per esempio la storia dei Pistons finalmente sconfitti che lasciano il campo per non complimentarsi con gli avversari è una scena da romanzo (e infatti magari è un pochino inventata). Le buone storie hanno bisogno di cattivi e bad boys e questo suggerisce, per esempio, che progettando un videogame andrebbe posta grandissima attenzione alla caratterizzazione degli antagonisti: dovete amare i vostri boss di fine livello se volete che i giocatori li odino. Fine nuova pausa…
… anzi no: ragionando su questo si trova anche la risposta a una domanda che in questo tipo di seminari e lezioni è frequente: si possono raccontare storie con eroi negativi? Il Joker o Hannibal Lecter indicano che la risposta è evidentemente sì, ma proprio i Pistons invitano alla prudenza: perché le storie si dispongono sempre in vista del proprio finale più appropriato, e la cattiveria e l’arroganza chiamano come finale una punizione; l’unico modo perché una storia come questa finisca, diciamo così, bene è il caso improbabile in cui i cattivi si ritirino prima del tempo per godersi l’immeritato bottino, cosa che in uno sport che avrà sempre un campionato successivo non è improbabile, è impossibile: una sconfitta prima o poi arriverà per forza, e sarà considerata non un fatto normale ma la punizione adeguata per la superbia mostrata; Jordan, che si è scelto la narrazione dell’eroe solare, può scegliersi finali da trionfatore relegando magari in secondo piano pure qualche magagna (che poi i suoi mezzi sportivi siano straordinari e gli permettano di scegliersi come gli pare e ruolo e finale è ovvio, ma non cambia il discorso). E adesso la pausa è finita sul serio.
Secondo passo: le statistiche
È ovvio che perché i giocatori assumessero la statura greater than life che era necessaria per il progetto di Stern non basta che abbiano sentimenti e umanità ma serve anche che facciano cose straordinarie, e questo lo si deve dimostrare. Ora, questa cosa della dimostrazione può apparire bizzarra a chi abbia dato un’occhiata anche solo di sfuggita a una partita – io ultimamente passo un sacco di tempo a casa dell’Inossidabile e nella notte, per lenire il dolore, ho guardato su Sky ore e ore di gesti atletici palesemente impossibili se non a esseri sovrumani – ma il punto è che la cosa non dev’essere chiara semplicemente allo spettatore, ma ancora una volta dev’essere raccontabile, e il modo più semplice per farlo è costruire classifiche e statistiche.
Tutti gli sport di tradizione americana hanno sempre fatto un grande uso delle statistiche, e oggigiorno l’analisi dei dati è considerata uno strumento di lavoro indispensabile per tecnici e commentatori, ma l’NBA ha fra tutti una grandissima capacità di trasformare ogni più piccolo elemento di questo genere in clamore, e in racconto di eccezionalità.
Ci pensavo l’altro giorno quando sono stati annunciati i selezionati per l’All Star Game (un altro enorme strumento di marketing, ma anche un motore generativo di storie utilissimo). Non so se avete presente quei vecchi match di pugilato in cui il commentatore annunciava: «Nell’angolo sinistro, la tigre di San Francisco, colui che ha atterrato Jack Mascella di Ferro in tre round, il campione indiscusso dell’Oklahoma meridionale, imbattuto dopo venti incontri di cui diciannove conclusisi per knock-out, Jake Ferraro!!». Bene, i servizi in cui si elencavano i convocati erano tutti così: questo è al suo ottavo All Star Game, quell’altro al settimo, questo è stato convocato perché ha più MVP di chiunque altro nella conference, eccetera, e quello che nei vecchi commentatori di boxe era bolso qui era fresco ed emozionante. Perfino quelli che sono al primo All Star Game servono, perché ovviamente essendo al primo sono molto emozionati e comunque combattivi perché non vogliono sfigurare, e quindi ci si possono imbastire quantità di narrazioni pure su loro.
Ennesima pausa: attualmente nel mondo dei videogame classifiche, punteggi, graduatorie e altre cose del genere sono considerati, ho l’impressione, con un minimo di sufficienza, come una specie di lascito dell’era arcade che va ancora bene per alcune categorie di giochi ma, complessivamente, in tutti gli altri casi un peso inutile. Non sono convinto, e qualche tempo fa, per esempio, ho visto casualmente su Twitter partire un lungo thread sul tempo più breve impiegato per fare il giro del mondo in Eighty Days – un gioco narrativo che è quanto di più lontano si possa immaginare dai giochi arcade. Eppure è stato divertente assistere, un po’ come in un raduno di cacciatori in cui qualcuno fa apposta a spararle grosse, è stato molto accattivante, tanto da farmi venire voglia di riprendere in mano il gioco, e mi sono reso conto che alcune delle scorciatoie o dei modi di rendere velocissimo il viaggio non erano casuali, ma delle vere e proprie caratteristiche (lascio qui il termine features per i tecnici) inserite apposta dagli sviluppatori, un po’ come easter egg, un po’ per soddisfare i giocatori più aggressivi e un po’ come false piste, perché io una di quelle scorciatoie l’avevo seguita ma, lungi dall’arrivare velocissimo, ci avevo trovato un commosso omaggio a un eroe sfortunato dell’Ottocento, un altro omaggio a un classico dell’orrore romantico e, infine, anche la morte – di più non dico per non rovinare le sorprese. Lavorare in questo modo – sulla comparazione dei risultati fra i giocatori, sul battere il gioco anche quando non è in apparenza un gioco da battere e così via non è per niente facile, ma la cosa interessante da ricordare e che anche coi numeri si possono creare narrazioni. Fine dell’ennesima pausa.
Terzo passo: individui riconoscibili
A un certo punto dentro uno sport l’esistenza di narrazioni forti genera altre narrazioni, spontaneamente. Il look dei giocatori ne è un aspetto evidente: in un cast di personaggi eccezionali ognuno ha bisogno di distinguersi: la prima NBA aveva i nomignoli ma forse, a parte il Black Mamba di Kobe Bryant, l’abitudine si è un po’ persa. In compenso a partire dalla pettinatura afro di Julius Erving e dalle unghie di Dennis Rodman la cura dell’aspetto fisico non è mai cessata, e oggi Ja Morant non è semplicemente fortissimo, ma fortissimo e immediatamente riconoscibile, e quindi pronto a costruirsi la sua leggenda. Dite che in fondo coi calciatori e i loro tatuaggi è la stessa cosa? A me non pare, e una cosa è attrezzarsi per dimostrare di essere dei gladiatori pronti a scendere nell’arena, e altro è essere dei personaggi. È molto diverso.
Pausa finale. Fra i materiali di studio personale amo segnalare un paio di video di lezioni tenute alla Game Developers Conference sul modo di caratterizzare i personaggi dal punto di vista grafico. In parte lo faccio perché non sempre riesco a scendere nelle dimensioni più tecniche, e questo è un aspetto in grado di interessare sia gli artisti – per la parte grafica – che gli sviluppatori – per i meccanismi di generazione procedurale dell’aspetto dei personaggi. Il punto principale, però, è rendersi conto che la caratterizzazione visiva dei personaggi è in sé narrativa, anche a prescindere dalla trama: non è soltanto al servizio dello svilupparsi della storia o funzionale al dare al giocatore informazioni sull’ambientazione e su ciò che sta succedendo – che sono comunque due funzioni narrative importanti – ma veicola immediatamente sensazioni, vissuti e interpretazioni fra giocatore e personaggio, prima ancora che si sia iniziato a giocare e quindi a sviluppare una eventuale trama. Ne sono la prova quelle lunghe sedute nelle quali il giocatore ha la possibilità di personalizzare l’immagine del proprio avatar, scegliendo di tutto, dal sesso al colore della pelle al taglio della giacchetta: farlo vuol dire innestare su quella figura aspirazioni e immaginazioni, cosa che è evidentemente una operazione narrativa (o, al limite, un prerequisito narrativo). Fine dell’ultima pausa.
Un dubbio: gamification e storytelling
Stavo per chiudere questo articolo quando mi sono chiesto se qualcuno potesse pensare che abbia parlato, al fondo, di storytelling – nel senso di narrazione puramente finalizzata al marketing – o, peggio ancora, di gamification.
Per quanto riguarda la gamification, direi che ci possiamo mettere il cuore in pace da subito: non si può gamificare un gioco, perché… è già un game. Per quanto il basket della NBA sia una roba colossale che muove miliardi, rimane al fondo uno sport, mantiene tutte le caratteristiche tipiche delle competizioni agonistiche – in una parola, è vero, non è mica la MMA – e quindi non ha bisogno dell’iniezione forzosa di caratteristiche ludiche che abbia perso professionalizzandosi. La gamification serve a rendere potabili lavori che sono in realtà tossici, se un’attività riesce a mantenere intatta la propria radice sportiva la narrazione serve a rendere più enfatica l’esperienza, ma non la costituisce ex novo perché quell’esperienza esiste già, a prescindere.
Sullo storytelling la domanda è più insidiosa. Per esempio, per restare nel campo della NBA, la partecipazione alle Olimpiadi con il Dream Team è stata indubbiamente un colpo pubblicitario da maestri, non solo per la pallacanestro americana ma per tutto il movimento a livello mondiale – un’altra cosa controdeduttiva: il primo Dream Team massacrò letteralmente tutte le nazionali avversarie, eppure queste, alla lunga, ci guadagnarono. Il punto però, di nuovo non è chiedersi se una narrazione ha l’effetto di creare un dividendo o un beneficio – ci sono molto poche narrazioni che non abbiano questa caratteristica, diretta o indiretta – ma di chiedersi quale sia la sostanza di ciò che viene narrato, per esempio se preesista al racconto o venga alla vita con esso, se possa esistere anche fuori della dimensione pubblicitaria in cui viene evocato, e così via; ho detto prima che la NBA non è la MMA, ma non è neanche una boy band creata a tavolino. La narrazione del Dream Team, per rimanere al nostro esempio, viveva di storie già affermatesi autonomamente, era espressione di un movimento in robusta salute Olimpiadi o non Olimpiadi, e così via. Azzarderei, perlomeno per quanto riguarda sport e giochi (ma anche la politica), che la differenza fra narrazione e storytelling è la stessa fra cavallo e mulo: la prima è generativa, e ha la capacità, posta di fronte a nuovi eventi, di incorporarli e di agganciarvi nuove narrazioni, la seconda è infertile, e dove la metti, lì rimane.