Il problema di non farsi arruolare
Schismogenesi, chi era costei?
Qualche mese fa mi è passato sotto gli occhi un articolo di Cory Doctorow intitolato Schizmogenesis.
La parola ha la stessa radice di scisma ma devo dire, cialtrone che sono, che io invece credevo che fosse imparentata con schizofrenia. Cioè, certo che lo è, ma siccome era un articolo politico mi era sembrato che parlasse di politica schizofrenica, invece trattava di politica della separazione.
Il termine, infatti, è stato coniato da Bateson come generalizzazione, sostanzialmente, del concetto di escalation di un conflitto. La schismogenesi si attua quando fra due parti sociali si innesta un circolo vizioso di azione e reazione che alla fine porta al collasso del sistema complessivo e alla scissione delle parti in questione: Bateson mutuava l’idea dall’ecologia ed era interessato, mi pare di capire, non tanto al sistema di rappresaglie reciproche quanto ai meccanismi sociali che portano a raffreddare il conflitto e evitano così che le linee di separazione divengano ingestibili.
Doctorow però trae il concetto da una fonte successiva, e cioè il lavoro dell’antropologo recentemente scomparso David Graeber e dell’archeologo David Wengrow, in un libro intitolato L’alba di tutto che ho rapidamente messo in cima alla lista dei desideri.
Il ragionamento di Graeber e Wengrow è in parte diverso da quello di Bateson e tratta di come gruppi sociali concorrenti adottino volontariamente posizioni antitetiche per distinguersi e promuovere la propria dimensione identitaria: per usare come esempio una cosa che mi ricordo di aver letto in L’invenzione della tradizione, nell’Inghilterra dell’Ottocento la classe operaia politicamente consapevole adottò un copricapo proprio, cioè il berretto sportivo che non era il cilindro della borghesia e nemmeno la testa nuda del proletariato, e si ritrovò nel calcio, non nel rugby o nel cricket che pure erano popolari a livello locale fra i proletari. La separazione dei gruppi ha bisogno di essere rappresentata plasticamente da abitudini e credenze proprie e, per reazione, il gruppo reciproco adotterà altre abitudini, per marcare il fatto che anche loro si stanno separando. È chiaro che questi sono esempi tutto sommato innocui, ma lo stesso meccanismo può generare nei sistemi sociali crisi e processi di separazione molto più radicali. L’alba di tutto è interessata a legare a questo meccanismo l’adozione, nelle società primitive, di modelli più o meno gerarchici e più o meno egualitari a seconda della necessità di differenziarsi da altri gruppi sociali vicini: i modelli adottati non dipendono cioè dall’avere scoperto che alcuni funzionino meglio di altri, ma sarebbero stati scelti perché diversi da quelli dei concorrenti (di base, dentro una cornice di competizione fra cacciatori e contadini: se voi cacciatori avete una struttura sociale fortemente gerarchica, noi contadini saremo egualitari; se voi contadini privilegerete l’esibizione di ricchezza dei vostri maggiorenti, i capi di noi cacciatori si faranno un vanto di redistribuire la ricchezza).
Quello che interessa Doctorow è come questo meccanismo, trasposto nella contemporaneità, generi effetti paradossali: per dire, la sinistra liberale ha sempre, giustamente, dubitato della CIA, ma quando Trump ha cominciato a attaccarla allora i democratici per reazione si sono schierati alla sua difesa e adesso credono nella CIA (come direbbe Guccini: fingendo o non sapendo proprio niente di quello che può ancora far la CIA, santi dell’Occidente, con gli USA e così sia). Buona parte della politica contemporanea nelle nostre democrazie bipolari soffre della necessità compulsiva di schierarsi dall’una o dall’altra parte in maniera automatica. Cioè, mi sono espresso male: non schierarsi dall’una o dall’altra parte, ma solo dall’altra parte, quella opposta ai propri avversari.
Non è cosa nuovissima, in realtà, basti pensare in Italia al caso di Montanelli, della cui storia, opinioni e perfino capacità, perlomeno come storico, mi sembra sarebbe stato sempre opportuno dubitare, ma che invece è diventato di colpo faro di riferimento della sinistra perché perseguitato da Berlusconi. Sono effetti evidentemente paradossali, basati sull’idea che il nemico del mio nemico sia mio amico: dopotutto, forse non avevo tanto sbagliato quando avevo capito che schismogenesi avesse a che fare con la schizofrenia (e, guarda caso, scopro che Montanelli si chiamava di secondo nome Schizògene, generatore di divisioni, vedi alle volte).
Là, nel golfo del Tonchino
Quando ho letto l’articolo di Doctorow il concetto mi è sembrato interessante ma, devo dire, non il tema più rilevante della politica contemporanea. Mi sembrava (e tuttora vedo con preoccupazione) che ci fossero altri modi più preoccupanti di muoversi dentro la dinamica amico/nemico, prima di tutto l’esigenza di definirsi – e definire la propria base di consenso – come nemico di qualcuno, e quindi come anti. Per esempio mi ha sempre incuriosito la mancanza di prospettiva politica antifa: e se un giorno il Signore ci facesse la grazia e i fascisti sparissero, quale sarebbe la piattaforma politica rimanente?
E quindi non tanto il loro pensano X quindi noi pensiamo non-X che ha in testa Doctorow, quanto chi siamo noi? Noi siamo quelli che odiano loro, un modo ancora più rigidamente binario di definire la realtà, che spesso ultimamente si presenta con un atteggiamento del tutto ossessivo e prono a permettere strumentalmente la costruzione sociale di nemici pubblici, siano i populisti, i sovranisti, i no-vax… Oppure, ogni evento o nuova crisi diviene l’occasione per regolare i conti col nemico tradizionale, additandolo di volta in volta come l’origine del problema, sempre nuovo, che si presenta al momento. E, nella base così aizzata, si vede una enorme incapacità di analizzare fonti e qualità dell’informazione: basta che un articolo di giornale o un post o un’altra cosa abbia nel titolo o nelle prime tre righe un termine evocativo – un segnale di appartenenza all’una o all’altra parte – che immediatamente scatta il consenso o il dissenso automatico, senza alcuna capacità di decodificare il messaggio; se avessi un centesimo per tutti i materiali palesemente prodotti da servi del capitalismo predatorio che amici di sinistra benintenzionati mi hanno condiviso entusiasti negli ultimi anni perché nel titolo citavano una qualche parola d’ordine libertaria o radicale, ora sarei ricco (gli opposti messaggi di democrazia pelosa volta all’instaurazione di dittature tecnocratiche non me li ha manda nessuno perché ho molti più amici libertari che tecnocrati, o più amici da quella parte che sanno che non ci casco, non saprei). Vale per quei siti che sono considerati autorevoli perché si definiscono di informazione alternativa: capirei si dicessero indipendenti, ma alternativa… alternativa a che, esattamente? Però sono alternativi, e quindi ci si può fidare.
Poi, qualche giorno prima dello scoppio della guerra, quando ancora si era nella fase in cui gli americani lanciavano l’allarme ma non si capiva bene cosa sarebbe successo, ho visto passare, provenienti da diversi soggetti, riferimenti a passate porcherie compiute dagli Stati Uniti in veste di aggressori di altri Stati, comprese operazioni di false flag come il famoso incidente del Golfo del Tonchino.
Ora, famoso. Ci sono certamente i casi di quelli che hanno un’età che gli ha permesso di avere il poster del generale Giap appeso in camera, di quelli che si sono laureati con una tesi su: «Le radici del containment. Gli anni di Lyndon Johnson (1963-66)» e alcuni altri casi, ma a occhio il loro numero complessivo non è tale da giustificare da solo la creazione di un trend su Twitter che fa sì che nella mia pagina passino così tanti tweet tutti uguali. E si sa che quando su Twitter passano tanti tweet tutti uguali, di solito vuol dire che si sono messi d’accordo prima e che obbediscono a ordini di scuderia.
Intendiamoci: pochi giorni dopo, letto il messaggio con cui Zelenskyy attaccava Draghi, ho commentato:
Non ne sono particolarmente orgoglioso, l’antipatia per questo governo mi ha trascinato (anche questa è schismogenesi, comunque era anche una tranvata internazionale in faccia non da poco), ma il punto è che, manco a farlo apposta, un secondo dopo mi è passato sotto gli occhi quest’altro tweet:
E quindi, siccome io questo non lo conosco e certamente non ci siamo messi d’accordo e quasi per caso abbiamo scritto praticamente la stessa cosa, potrebbe essere, potrebbe, che tutti quelli che erano là a gridare preventivamente all’aggressione USA l’abbiano fatto indipendentemente gli uni dagli altri e tutti, per caso, abbiano pensato che il Golfo del Tonchino fosse un episodio storico pertinente all’attualità.
Certo, come no. Nel frattempo, a parte la coincidenza, tutto il ragionamento pareva bizzarro, perché sembrava indicare che gli Stati Uniti cercassero il pretesto di attaccare la Russia, dimenticando che Biden aveva detto esplicitamente che non avrebbe impegnato truppe per sostenere l’Ucraina e soprattutto facendo finta che la Russia non avesse schierato centinaia di migliaia di uomini sul confine ucraino, con una prescienza rispetto al possibile false flag che non poteva che apparire sospetta.
E quindi, «questa è propaganda russa», ho pensato.
Ora, prima che mi arrivino denunce per diffamazione: non è che sto dicendo che tutti costoro si alzino ogni mattina per guadagnarsi lo stipendio in rubli. Cioè, una parte certamente sì, ma la maggior parte degli altri sono, semplicemente, come dire? inseriti dentro un flusso di comunicazioni, di narrazioni e di credenze che, a risalirlo, porta direttamente agli apparati di propaganda russi, solo che non se ne accorgono. Casomai quello che è interessante, anche dopo che l’epoca di Trump e poi la pandemia ha reso palese la connessione fra gli apparati di comunicazione – abbastanza scoperti – della alt-right e del fondamentalismo americano e quelli – molto più opachi – dei servizi russi, è che tanta parte della sinistra continui a bersi tutta questa roba come acqua fresca, come dimostra in questo primo mese di guerra tutta la deriva di buona parte del movimento pacifista storico e di un sacco di insospettabili di sinistra che rilanciano, in maniera continuativa, quella che non può che essere definita propaganda russa, spesso fra l’altro di pessimo livello e altrettanto spesso abietta, non c’è altra parola.
Certo, non è che abbiano cominciato oggi. Casomai la pervasività attuale porta solo allo scoperto e rende palese una strategia di disinformazione ampia, di lungo periodo e ben organizzata, e mostra i danni fatti, effettivamente più estesi di quanto si potesse pensare anche dopo quello che è successo negli ultimi anni.
Ma la cosa importante non è tanto notare che succeda, quanto chiedersi come sia possibile. Com’è che non se ne accorgono?
Per la schismogenesi, ovviamente.
La NATO, la NATO, la NATO
Chiunque a sinistra abbia un minimo di coscienza dovrebbe avere in mente, quando in qualunque questione politica ci sia di mezzo il regime russo, un segnale automatico che dice: Tenersi alla larga. Stiamo parlando di un regime autoritario e reazionario, che da anni dà ricetto e finanzia l’alt-right di tutto il mondo, che pratica guerre di aggressione e si è macchiato di assassini politici in patria e all’estero. Un regime impresentabile sotto ogni punto di vista, per il quale non dovrebbe esserci mai simpatia, in qualunque caso. Qualunque flusso comunicativo proveniente dal regime o che punti a favorire quel regime deve essere trattato come più che sospetto.
Ok, lo so che state per fare due obiezioni. Alla prima rispondo dopo. Se invece la seconda è che non è che il video di YouTube o il meme su WhatsApp o l’articolo tradotto dal sito di informazione alternativa c’hanno l’etichetta Made in Russia, allora rispondo: ma infatti.
Ma infatti: mica lo dicono, di essere propaganda, e fare gli investigatori a tutti i costi delle operazioni di disinformazione può comportare di incappare in svariate trappole e fraintendimenti o richiedere competenze tecniche non alla portata di tutti, come il lavoro del tizio qui a fianco. Ma il punto non è questo: il punto è sapere che esistono le campagne di disinformazione russa, come esistono quelle israeliane o indocinesi, per citare casi noti, come esistono pure le varie Bestie e bestioline e come ci sono soggetti che forse hanno un’agenda politica e forse… dai non scherziamo. Con tutta questa roba in giro, occorre applicare sempre, sempre il sospetto preventivo, curare il giudizio politico, fare come Laney e, in generale, fidarsi del vecchio Occam e del suo rasoio. Ciascuno di questi fidati amici dovrebbe far sì che non solo prima di condividere, ma prima di crederci, uno faccia un respiro e si ritragga dall’orlo del baratro.
Con tutto il rispetto, né l’evocazione del Golfo del Tonchino né dell’aggressione all’Iraq o alla Serbia reggeva il livello minimo del controllo di realtà – casomai in tutti e tre i casi la similitudine avrebbe suggerito di mettere la Russia nei panni degli USA e l’Ucraina in quelli dei paesi da questi di volta in volta aggrediti, e dare maggiori motivi per schierarsi, ancora una volta come in tutti questi casi passati, dalla parte dell’aggredito.
Invece nei giorni precedenti lo scoppio della guerra e subito dopo l’invasione abbiamo avuto quintali di persone di sinistra, brave, attiviste, di buona volontà e anche alcune semplicemente sceme che, di fronte al troll che gli faceva sventolare davanti il boccone della NATO e del nazismo, pavlovianamente gli è venuta la bava alla bocca e hanno rilanciato la propaganda russa. Senza nemmeno rendersi conto di essersi fatti asservire perché in realtà era già da un po’ che si erano assuefatti e già la rilanciavano da anni, beatamente.
Non perché si guadagnano lo stipendio in rubli (cioè, qualcuno ovviamente sì, come detto). Ma perché ci hanno creduto. Perché ci hanno voluto credere. Per schismogenesi. Perché per loro l’antiamericanismo è cifra fondante – non parliamo della reductio ad Hitlerum – e quindi quello che hanno voluto fare è stato cogliere l’occasione di schierarsi dall’altra parte, con tanti saluti al principio di realtà, esattamente con gli stessi esiti paradossali e grotteschi dei progressisti americani che improvvisamente si scoprono amanti della CIA.
La NATO è dalla parte dell’Ucraina, quindi noi siamo per la Russia.
Oh, lo so che avete sempre pronta la prima obiezione, che è: ma la NATO, non le ha fatte tutte quelle cose? E allora come la mettiamo, eh? Eh?? E gli USA, e Gladio? E la Siria? E l’Iraq?
E allora il PD?!
Siamo sempre a: e allora il PD?!
Appunto: avere come unica argomentazione e allora la NATO (o il PD)?! è esattamente ammettere di procedere per schismogenesi. Non è un’obiezione, è la conferma dei meccanismi con cui si assumono certe posizioni. Il riflesso pavloviano.
Se di fronte a una guerra di aggressione di questo tipo si sente il bisogno di tornare sulla NATO, vuol dire che l’unica chiave di lettura passa per la NATO, sempre e comunque. La NATO (gli USA, in realtà) e la preoccupazione di essere sempre e comunque dall’altra parte sono la vostra stella polare. Ma questa non è coerenza: gli esiti sono, ancora una volta, politiche schizofreniche.
Regolamenti di conti
C’è anche la terza obiezione: ma non l’hai vista la retorica patriottarda, l’enfasi militarista che prende alla gola? L’occasione di alzare le spese militari? E non hai visto la polemica preventiva e successiva contro i pacifisti?
Certo che l’ho vista. È esattamente a cose di questo genere che pensavo quando raccontavo dei comportamenti diversi dalla schismogenesi che avevo più presenti quando ho letto per la prima volta l’articolo di Doctorow. La caccia al nemico. Ci sono quelli che colgono ogni occasione per regolare i conti e ogni volta che nell’aria al mattino c’è odore di polvere da sparo vanno sulla rete a dare contro al pacifista; ci sono i giornalisti di successo che frequentano le riunioni atlantiste e che subito si sono lanciati in editoriali contro chiunque fosse minimamente non allineato; ci sono, soprattutto, un milione di code di paglia che hanno avuto rapporti col regime russo e gli è sembrato opportuno sviare l’attenzione costruendo, come sempre, un nemico sociale da additare alle folle.
E ci sono anche tutti quelli che a sinistra la scelta della nonviolenza non l’hanno mai fatta, e non gli fa problema che qualcuno – spesso, diciamo, purché siano altri – imbracci le armi. Gente rispettabilissima, talvolta.
Le ho viste benissimo, tutte queste cose, ma l’unica risposta è: e quindi? Vedo gente bravissima dell’area pacifista che si sbraccia chiedendosi: perché non mi invitano in televisione? Perché invitano macchiette e caricature e non me, che sono un analista serio?
Già, chissà come mai.
Io me lo ricordo il mondo prima della caduta del Muro. Gente che ha la mia età, o il senso della politica, dovrebbe trovare normale (occhio: non giusto, normale) che i potenti mandino armi. Che la stampa neghi il diritto di tribuna ai dissenzienti. Normale perfino che ci siano persone di sinistra che la guerra sono disposte a farla, perché la faceva Garibaldi, la facevano i partigiani, la faceva Che Guevara, eccetera. L’analisi politica dovrebbe partire da questo, le piattaforme politiche dovrebbero costruirsi a partire dal presupposto che in un mondo capitalista e globalizzato siamo gli oppressi e i senzapotere, per quanto maggioranza, non che siamo diventati magicamente razza padrona. Questa consapevolezza avrebbe aiutato tanto, in questo mese, prima di tutto a dare l’impressione di non cadere dal pero mangiando brioches («Battista, ma esiste un sistema militave-industviale alleato dell’economia dei combustibili fossili?! Ohibò!!») e in secondo luogo a costruire uno straccio di piattaforme politiche credibili, che potevano anche essere completamente terze (come al solito, in questo Papa Francesco si sta muovendo benissimo). Quello che abbiamo avuto è la ripetizione stanca del catechismo nonviolento con l’esibizione dei santini connessi, e non è proprio la stessa cosa.
Questo articolo, però, è sulla schismogenesi, non sui regolamenti di conti, per quanto anche io nelle ultime righe mi ci sia fatto trascinare. Il collegamento fra regolamenti di conti e schismogenesi è dato dal fatto che, insopprimibile, abbiamo il bisogno di argomentare. Non ci possiamo accontentare di avere un’opinione che sentiamo giusta, al di là di tutto; dobbiamo per forza dimostrarla. E quando la base di un movimento politico, vale per la sinistra in generale e per i nonviolenti allo stesso modo, è attaccata o fronteggia una crisi ma non ha quadro interpretativo, visione e piattaforma politica, cioè quando la leadership non è stata in grado di fornirla, allora se la costruisce da sola, perché sente il bisogno di essere propositiva. In mancanza di meglio cede ai meccanismi di polarizzazione automatici, come la schismogenesi, si lascia sedurre dalla propaganda del nemico, abbraccia teorie geopolitiche farlocche e, per avversare i nazisti di Azov, finisce per sostenere Igor’ Girkin.
È lo stesso meccanismo che ha fregato un sacco di gente durante la pandemia: non si sentivano troppo sicuri, istintivamente, sui vaccini, ma invece di limitarsi a dichiararlo e basta e gestirsi personalmente il disagio la pressione sociale ha generato il desiderio di rivalersi dimostrando di avere ragione, così sono andati sulla rete a cercare argomenti, ci hanno trovato lo schifo, e buona notte: dal piano inclinato non si risale e dai dubbi legittimi si arriva a farsi arruolare a destra per direttissima.
Non è necessario avere per forza un’opinione
Quando ho fatto la visita per il servizio militare al momento di scegliere la specialità preferita ho lasciato in bianco la domanda. Quando, nel successivo colloquio, il capitano o quello che era mi ha chiesto perché ho risposto che avevo deciso di fare obiezione (perché ero cattolico). Non so bene cosa mi aspettassi che mi dicesse, comunque c’è stato questo momento di stereotipi: «Ah, quindi se io adesso le do uno schiaffo lei mi porge l’altra guancia?». Io, non sapendo bene che dire, me ne sono stato zitto. Sapevo grosso modo quel che (non) volevo fare, ma parole non ne avevo tante.
Oggi mi sento un po’ in quella situazione: l’unico punto su cui sono fermo è che non sarei disposto a mandare armi, per un assoluto etico che in realtà non saprei bene come giustificare. E sono abbastanza certo che tutte le dottrine che, dietro lo schermo delle garanzie sulla sicurezza, postulano l’esistenza di aree di interesse e di riserve imperiali, siano abiette.
Per tutto il resto, la realtà è dilemmatica (come dice anche Zerocalcare in una posizione a cui mi sento molto vicino): diritti di difesa, aspirazioni nazionali legittime, militarismi, autodeterminazioni, soppressioni delle libertà individuali, aristocrazie, povera gente che fa la fame fra i vincitori come fra i vinti, nazisti, tutto si mischia in maniera, appunto, dilemmatica. Ho letto questi giorni il dialogo fra Ateniesi e Meli e l’ho trovato di grandissima attualità (sono anzi stupito di non averlo visto citato da nessuno), ma se perfino il grande Tucidide non può che limitarsi a narrare e a mettere in scena il problema etico, senza dare soluzioni, che ne so io?
Soprattutto, provo dolore. E credo, come dicevo in uno dei primi giorni della guerra a una sorella nella fede, che alla fin fine non sia necessario per forza avere un’opinione. Può bastare il dolore. Soprattutto, non credo sia necessario proporre un’opinione, e mi sento lontanissimo dall’ansia di tanti compagni e compagne che con estrema sicurezza distribuiscono torti e ragioni in comunicati politici, hanno gli slogan pronti alle manifestazioni – che magari hanno organizzato – e così via. Anche qualcuno di loro fiuta l’occasione di regolare i conti: per esempio prendersela con le basi militari in Sardegna non c’entra niente con la situazione attuale (d’altra parte, è sempre cosa buona e giusta). E un po’ la vecchia storia del gorgo di Mantinea: le guerre, soprattutto quelle epocali, attraggono tutto al loro interno, e lo consumano.
Le guerre chiamano all’arruolamento: di solito dall’una o dall’altra parte, ma talvolta anche in terze, quarte o quinte parti, ma sempre inquadrati nella truppa. Se non arruolati direttamente dall’una o dall’altra parte quanto meno irregimentati contro qualcuno. Con buona pace dei compagni, di quelli che reagiscono per schismogenesi e di quelli che amano regolare i conti con qualche altro, farsi arruolare è sempre un errore: quando si decide di marciare, alla testa della colonna c’è sempre il nemico. Voler avere un’opinione a tutti i costi, bearsi dell’opinione e dell’azione, è già arruolamento. Avere nemici, peggio che peggio.
Sento già l’obiezione, Gramsci, l’essere partigiani, prendere parte, gli indifferenti eccetera. Ma fra schierarsi e farsi arruolare passa la stessa differenza che c’è fra essere attivi e farsi attivare, e non è sottile. Nei confronti dell’arruolamento occorre sempre essere renitenti: preferisco di no.
Chiuso nel dolore per la guerra, preferisco di no.