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Videogame d’impatto (sociale)

Adesso che, per la prima volta dopo molti anni, non ho più incarichi formali in Banca Etica ho deciso di dedicarmi un po’ di più ai giochi (e magari a finire il libro di giochi sui conflitti ambientali, che da aprile ha fatto ben pochi progressi). Fra le tante cose che dedicarsi ai giochi comporta c’è anche il fatto che l’altro giorno, sulla scorta dell’annuncio che i Fabbricastorie organizzeranno anche quest’anno la Global Game Jam ho aggiornato la mia pagina LinkedIn e il Twitter di Thisisnotafunnygame, mettendo il follow a tutta una serie di protagonisti del mondo del videogame italiano, tutta gente interessante che sinora non avevo particolarmente calcolato, in favore, talvolta, di sconosciuti americani. Già che c’ero, ho iniziato a seguire anche una serie di case di produzione, anche molto grandi, o le loro consociate italiane.

Devo dire che immediatamente le mie notifiche su LinkedIn sono diventate molto più vivaci, ma non è di questo che voglio parlare.

Stamattina, mentre andavo al lavoro con l’autobus, ho interrotto un attimo la lettura di Mimesis per vedere appunto le notifiche di LinkedIn, e ho visto un post di una di queste grandi case, la Riot Games, che ha attirato la mia attenzione perché parlava giustappunto di videogame e di impatto sociale:

Il denaro, che deriva da acquisti totalmente o parzialmente messi a disposizione dall’azienda a fine di beneficenza, non è poco: globalmente sono disponibili più di sei milioni di dollari e ogni realtà selezionata ha come minimo diritto a 10 000 dollari; il meccanismo di allocazione è complesso: per ogni paese interessato (un’ottantina in tutto il mondo) sono stati selezionati tre enti benefici (fondazioni, associazioni…) che saranno votati dai giocatori: il più votato di ogni paese riceverà una quota di donazioni maggiore; se i votanti non si sentono a proprio agio con le scelte del proprio paese di origine possono selezionare una delle tre scelte proposte per un altro paese. A occhio non ci sono filtri: io non ho votato perché non ero sicuro di avere mai comprato un prodotto a pagamento della Riot, ma dalla piattaforma mi sembra che avrei tranquillamente potuto.

Non ho il tempo di elaborare particolarmente sulla notizia, che trovo molto interessante, mi limito a elencare velocemente alcuni punti di riflessione da approfondire per chi fosse interessato:

  • il primo, e più ovvio, è che non c’è niente di strano nel fatto che una grande azienda faccia beneficenza, quindi perché non una casa produttrice di videogame? Eppure, per quanto continuiamo a ripeterci che quella dei videogame è un settore industriale ormai consolidato, la notizia continua ad avere un nonsoché di inaspettato, cosa magari sottolineata dal fatto che normalmente i bracci benefici delle grandi aziende si ammantano di prati fioriti, delfini gioiosi e baci e abbracci e non presentano il logo di un pugno che mena (e peraltro non evocano nemmeno la sommossa col proprio nome). Nella sorpresa mia – e figuriamoci in quella di tanti altri attivisti nel campo dell’economia alternativa che non vedono videogame nemmeno col binocolo c’è ancora il segno di un ritardo che sarà bene recuperare (più avanti tornerò sull’argomento);
  • il meccanismo delle votazioni a me piace parecchio, devo dire, e mi sembra più fondato di quelle cose nelle quali i vari enti di beneficenza mobilitano i propri sostenitori: capiterà anche in questo caso, immagino, ma l’idea che sono i giocatori ad averci messo i soldi e quindi sono i giocatori che votano mi pare molto partecipativa nel senso giusto e mi piace;
  • non avrei vissuto in Banca Etica tutti questi anni se non mi fossi chiesto, immediatamente, dove ha tenuto la Riot questi milioni di dollari per tutti questi mesi: magari erano su un conto corrente dove se ne sono andati in giro di notte a fare danni prima di essere usati, invece, per fare del bene, e infatti l’ho chiesto in risposta alla nota su LinkedIn; anche impatto sociale è un termine abbastanza preciso, che evoca una misurabilità di cui – ma forse sono io che ho guardato male – non ho trovato traccia: questo non l’ho chiesto perché senno l’impressione del Pierino fastidioso si faceva irresistibile – sono un boomer, non posso essere woke per definizione, Dio guardi – ma un po’ l’impressione che ci sia spazio perché certe scelte della Riot diventino ancora più incisive certo l’ho avuta. Riprendendo il discorso che facevo più sopra, il problema non è della Riot, più probabilmente è nostro: voglio dire, in Banca Etica sono anni che lavoriamo per raffinare strumenti di analisi sul l’impatto sociale, nostro e di altri, e sicuramente abbiamo gli strumenti per far sì che i soldi che ci danno i clienti di note se ne stiano buoni a comportarsi bene, eppure magari quando pensiamo a partnership su questi argomenti una casa produttrice di videogame non è esattamente il primo candidato che ci viene in mente;
  • a proposito di impatto sociale, ho dato un’occhiata agli enti benefici che si potevano votare sia in Italia che altrove, e vedo che tendono a rientrare più o meno nelle stesse categorie: assistenza diretta a categorie svantaggiate, sensibilizzazione a problemi sociali collettivi (salute, direi, soprattutto) e sensibilizzazione o azione sui temi della parità di genere; le tre realtà italiane, peraltro, sono tutte milanesi e un po’ mi è sembrato un tipo di situazione comune ad altre realtà nazionali. Ci sono qui una serie di dilemmi interessanti: per esempio, sono categorie di beneficiari che è difficile che i giocatori votanti trovino controverse (peraltro, la Riot ha avuto nel 2018 una controversia molto nota sulla (scarsa) qualità delle relazioni sul posto di lavoro, soprattutto in merito alla parità di genere e al trattamento delle lavoratrici, comprese alcune accuse di molestie sessuali, quindi quella della parità di genere è evidentemente una attenzione che ha valore strategico per voltare pagina); d’altra parte presentano una sorta di standardizzazione delle scelte etiche che potrebbe rivelarsi riduttiva (non c’è molta lotta ai cambiamenti climatici, per dire; il beneficiario di punta per gli USA è peraltro il WWF, che comunque non è propriamente Fridays for Future); certo, selezionare tre charity di Milano permette un contatto diretto con l’azienda che elargisce il denaro e una possibilità di conoscerle e monitorarle nel tempo direttamente e con continuità molto maggiore che se fossero, poniamo, a Reggio Calabria; d’altra parte, è evidente che l’Italia non è solo Milano. Anche qui, non lo dico per fare quello che cerca la pagliuzza, piuttosto perché l’esercizio di chiedersi: «come farei io, se mi trovassi a gestire la faccenda? A cosa rinuncerei e cosa terrei fermo?», mi sembra sia un esercizio mentale interessante e formativo e anche, diciamolo, un salutare bagno di umiltà, cosa che non fa mai male.
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