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Intorno al politicamente corretto

Ho visto l’altro giorno su Twitter – e questo dimostra che Twitter serve ancora a qualcosa – la segnalazione di una bella intervista di Alessandro Lolli a Raffaele Alberto Ventura, formalmente sul politicamente corretto ma in realtà, direi, sui limiti della libertà di espressione in tempi di guerra civile permanente a bassa intensità.

L’intervista è pubblicata su Il tascabile e ne consiglio vivamente la lettura – a me ha dato molto da pensare e mi ha anche in parte riconciliato col Tascabile, che ultimamente avevo smesso di leggere quasi del tutto. Lo trovo soprattutto un articolo estremamente benvenuto, a partire dalla smentita iniziale, che è già provocatoria:

AL: Noto nel mondo progressista una tendenza un po’ nevrotica a negare l’esistenza di alcuni fenomeni culturali, quali il politicamente corretto, la cancel culture o la sensibilità woke, chiamandoli frame della destra, derubricandoli insomma a invenzioni retoriche dell’avversario. Secondo te esistono? […]

RAV: Questa cosa è davvero insopportabile, non trovi? Abbiamo letto per anni articoli che insistevano sul fatto che anche solo usare parole come woke, cancel culture o politicamente corretto significava essere di estrema destra. Se mi chiedessero di definire che cos’è il “gaslighting” userei precisamente questo esempio: intellettuali che spiegano alle altre persone che la loro percezione del mondo è distorta e moralmente deplorevole. 

Anche io penso che l’argomento esista e sia pressante e pertanto vada discusso, soprattutto vada discusso a un buon livello di riflessione, come quella di questo articolo, tanto più prezioso perché invece spesso la discussione è davvero di basso livello, quando non direttamente mistificatoria, come detto. Del resto l’invito a discutere, parlare, svelare i meccanismi comunicativi è ricorrente nella discussione ed è, secondo me, la parte più forte del ragionamento di Ventura (e quella sulla quale Lolli si trova più d’accordo).

E con questo potrei chiudere questo articolo, che dopotutto sta nella sezione Segnalazioni. Ma non sarei il vostro amabile Rufus di quartiere se non mi spingessi a commentare criticamente roba scritta da gente più importante di me, e quindi aggiungerò alcune veloci riflessioni – si vede che l’intervista ieri ha continuato a scavarmi dentro – che temo alla fine si risolveranno direttamente in cialtronata, secondo tradizione.

Mi sembra che il punto essenziale di contrasto fra Lolli e Ventura è questo: Ventura sostiene che, in una guerra civile eccetera, occorre neutralizzare – non nel senso di eliminare, ma appunto nel senso di rendere neutrale, spazio percorribile – almeno parte del discorso pubblico, sottrarlo alla contrapposizione altrimenti non se ne esce mai,

RAV: […] Questa costruzione politica della neutralità è necessaria per mettere al riparo alcune cose da una negoziazione permanente che sarebbe troppo costosa, troppo faticosa, troppo logorante per il corpo sociale. Ma perché questo spazio esista stabilmente, è necessario un potere stabile, è necessario un monopolio che tenga in piedi (con una certa dose di violenza almeno simbolica) quella finzione. […]

Oggi alla crisi di questo monopolio del potere simbolico, determinata dalla disintermediazione, corrisponde anche una crisi della neutralità: è il collasso della finzione su cui regge la pace civile dai tempi della nascita dello Stato moderno. Se usciamo da questo paradigma, ci ritroviamo in mare aperto e tutto può succedere. Come scriveva un certo giurista tedesco: “In tempi tranquilli si formano zone neutre e ameni parchi a tutela della natura, dello spirito e dei monumenti. In tempi inquieti, tutto questo ha fine”

e quindi, insomma, ben venga il politicamente corretto come nuovo monopolio simbolico (sia pure con notevoli precisazioni).

Devo dire che è un approccio che fra un attimo criticherò spietatamente (ehm), ma che a scanso di equivoci ha molti meriti: inserisce nella riflessione la teoria del conflitto e ragiona sugli spazi negoziali sociali e ne richiama la necessità, il che di questi tempi non solo non è poco, è moltissimo. Ma andiamo avanti.

Lolli obbietta che il politicamente corretto non è il campo di negoziazione ma uno degli attori:

AL: Allora ti avanzo la mia obiezione centrale: tu ti poni l’obiettivo di neutralizzare il conflitto e sei persuaso che questa piattaforma – che chiami gioco ma possiamo chiamare politicamente corretto – sia il mezzo per farlo, a patto che si conoscano e si seguano le sue regole. Io sono invece persuaso che questo gioco non sia una piattaforma neutra in grado di mediare il conflitto, sia invece un attore in campo del conflitto stesso! Il gioco e le sue regole sono accettate da una parte della società e rifiutate dall’altra.

Ora, secondo me in questo scambio manca Gramsci e l’ideologia ma immagino che sia fuori dei riferimenti culturali di entrambi. Il punto però mi pare che entrambi pecchino per difetto: in questa confusione fra metodo e contenuti Ventura non prende in considerazione che si possa costruire la neutralizzazione citata su altre basi, non necessariamente più accettabili ma altrettanto forti simbolicamente – eppure l’integralismo religioso o la transizione ecologica sono giusto lì dietro l’angolo, per dire (certo, non lo stesso angolo) – e Lolli nell’ansia di rifiutare il politicamente corretto non riesce a dirlo, che ci potrebbe essere altro su cui impostare il processo.

Tanto più che questo altro potrebbe essere, anche, un politicamente corretto di destra. La distinzione su cui si basa la discussione, che il politicamente corretto è oggi di sinistra e la libertà di espressione di destra, è speciosa e artificiosa: come dimostrano le liste di libri gender da eliminare, metodi come il boicottaggio, il deplatforming e la cancellazione dell’avversario non sono esclusivi di una parte – al massimo una li ha popolarizzati e poi sono filtrati dall’altra parte – e, mentre lo stesso Ventura precisa, all’inizio,

RAV: Tu poni la questione della neutralità che è un concetto cruciale. La neutralità è sempre una costruzione politica, insomma la neutralità non è neutra: è lo spazio attivamente sottratto al confronto delle opinioni.

e conclude ammettendo di non essere un partigiano di questa operazione:

Nel frattempo, è pur vero che ritengo abbastanza inevitabile questo giro di vite nelle spinte di “securitarizzazione” comunicativa: la società moderna, nel suo movimento secolare di distruzione dell’ecosistema ambientale e morale, ha posto le condizioni perché la distopia sia l’unica alternativa rimasta. Io non posso far altro che testimoniare.

la securitizzazione non è esattamente la neutralizzazione, ma non è questo il punto: il punto è che tutto il ragionamento si preoccupa troppo poco dei rapporti di forza reali soggiacenti a questa realizzazione e dà per scontato che i contenuti siano questi, cioè questo noioso politicamente corretto così tipico di elite di sinistra sclerotizzate ma insomma, tutto sommato accettabile e meglio delle possibili alternative – su Twitter vedo che ad alcune critiche qualcuno ha replicato dicendo che l’alternativa sono i nazisti che bruciano le biblioteche. In realtà la possibilità reale, se si abbandona il dualismo del ragionamento, è che i nazisti si facciano le loro biblioteche che siano le uniche ammesse: e allora, francamente, non si capisce perché l’obiettivo non possa essere che ci facciamo noi le nostre, né quelle naziste né quelle politicamente corrette – se qualcuno deve comandare e definire la neutralità, perché non noi (chiunque sia noi)?

Il tema dei rapporti di forza svela un’altra debolezza del ragionamento: in tempi di individualismo spinto, di identità sovra-affermate, non è semplicemente possibile limitare il politicamente corretto solo ad alcune categorie, perché tutti, a partire dalle loro identità, per quanto marginali, pretenderanno equità di trattamento e quindi pretenderanno di determinare anche loro di definire cosa sia neutrale e sottratto alla critica e cosa no – ci sono un paio di esempi ovvi, dalla proliferazione delle lettere dell’alfabeto al moltiplicarsi di –ismi discriminatori a proprio uso e consumo – ma non è politicamente corretto farli, quindi mi astengo. Ventura parte da un obiettivo alto e nobile e tutto sommato condivisibile:

RAV: Ma certo che a monte c’è il conflitto di valori, il punto di partenza è proprio quel conflitto di valori, il fatto che viviamo in una società multiculturale caratterizzata dal politeismo dei valori. Cioè diversità di forme di vita e di assetti materiali. Ma questo è un dato di fatto, non un “problema” che si possa risolvere, a meno di non perseguire attivamente un ritorno a un modello monoculturale con politiche assimilazioniste. Ma poi bisognerebbe comunque capire come farlo, e a che costo. Per quello io dico che il problema è comunicativo, perché – fatta pace con le condizioni storiche in cui ci troviamo – si tratta di capire come gestire quella diversità, come comportarsi a fronte di questa diversità, negativizzarla, perlomeno nella misura in cui non riusciamo a riassorbirla. Ad esempio uno Stato può investire un massimo di risorse per contrastare le mutilazioni genitali femminili, se considera questo una priorità condivisa, ma oggi non sarà realisticamente in grado di sradicare tutte le forme patriarcali che regolano i rapporti all’interno delle comunità. Quella diversità deve quindi giocoforza essere tollerata. Da una parte quindi, si tratta di neutralizzarla in canali in cui potrebbe innescare un’escalation di conflitto tra minoranze, e d’altra parte di recepire le domande contrastanti all’interno del dibattito democratico, magari in altri canali e in altre forme. Esempio diverso: il corpo sociale deve negoziare sui limiti generali dell’intrusione della medicina nella sfera privata soprattutto presso i minori, penso alla questione del trattamento farmacologico precoce della disforia di genere; ma deve evitare che la negoziazione sfoci in conflitto diretto.

ma questo problema non è comunicativo: è un problema di affermazione delle proprie identità e in fondo al cammino dell’affermazione assoluta della propria identità non c’è il politeismo permanente, c’è il monoteismo esclusivo che aspira al potere per definire blasfeme tutte la altre identità non compatibili – non se ne esce, o perlomeno non se ne esce con la comunicazione. Il ritorno al modello monoculturale è nelle cose, nel senso che è l’aspirazione naturale di ogni identità affermata in maniera assoluta – il problema è depotenziare strutturalmente il politeismo, e per questo non basta la comunicazione.

Detto in altro modo: Ventura pone il problema di un contratto sociale, o di un nuovo contratto sociale; ora, i primi teorici del contratto sociale ragionavano ai tempi delle guerre di religione, e delle sconfessioni reciproche fino al rogo: ma la soluzione trovata non è stata il dialogo ecumenico (che comunque, sempre sia lodato), ma il relegare progressivamente i valori religiosi alla sfera privata, preservando lo spazio pubblico dal conflitto; e, incidentalmente, l’altra faccia della soluzione del problema è stata la teorizzazione del sovrano assoluto, che è sempre una soluzione che si muove nell’ambito del ragionamento sul potere. Ho citato prima il passaggio sulla necessità di «un certo grado di violenza, almeno simbolica»: la mia impressione è che sia tutto too little, too late, che la disintermediazione lasciata a se stessa abbia una spinta entropica inarrestabile e che l’evocata eleganza del gioco comunicativo da padroneggiare sia, sostanzialmente, una pia illusione; se si vuole evitare un alto tasso di violenza, presumibilmente assolutamente non simbolica, il problema è arrestare il meccanismo delle identità – cioè, a spanne, ridurre la carica individualistica della società, e quindi teorizzare in qualche modo un’uscita dal capitalismo e ricostruire un tessuto di corpi intermedi deputati a gestire la negoziazione del conflitto fra le aspirazioni personali; se non avessi predicato per anni che si deve cambiare il mondo senza prendere il potere e non mi facesse specie usare termini vetero-marxisti, direi che questo si fa con il conflitto di classe e la presa del potere: non è che anche questo non sia un libro dei sogni, ma almeno è un’ipotesi di società per la catastrofe, che richiederà forzatamente forme solidaristiche ben al di là della negoziazione delle identità.

Mi fermo qui perché divento – mi sa che sono già diventato da un po’ – saccente.

Quindi è tempo di diventare direttamente cialtrone, come preannunciato.

Ieri, dopo letta l’intervista, mi sono un po’ innamorato di Ventura e ho comprato il libro, in e-book. Poi ho fatto macerare l’intervista e ho tirato fuori i dubbi che avete letto, però nel frattempo ho cominciato a leggere. Devo dire che il primo capitolo, che pone le basi e gli assunti del ragionamento, è del tutto insostenibile per chi abbia mai vissuto nel XX secolo in qualunque paese barbaricino, ma non è questa la riflessione che mi è venuta; del libro parlerò casomai più avanti. Piuttosto, ho pensato che questi sono tempi in cui per essere stimolati bisogna rivolgersi ai filosofi – forse sono sempre tempi in cui ci si deve rivolgere ai filosofi – e mi sono ricordato, a suo tempo, di avere trovato molto stimolante Zhok che ho anche citato qui sul blog. A distanza di cinque anni si può riflettere sul fatto che si è visto che le posizioni libertarie di Zhok avessero le gambe corte e che, come tutte le posizioni libertarie, hanno fatto presto a frasi cooptare dal capitalismo dominante – come si è visto durante la pandemia – e a strizzare l’occhio alla destra-destra – come si è visto a proposito della guerra in Ucraina.

Ecco, non voglio offendere nessuno ed è un ragionamento (quasi) del tutto gratuito, ma ho avuto un brivido analogo su Ventura, chiedendomi se fra cinque anni non saranno evidenti dei limiti che dovremmo considerare palesi già da ora.

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