Niente cartellino sulla pizza
Venba è un piccolo videogame che racconta la storia di una giovane donna Tamil dell’India meridionale che negli anni ’80 si trasferisce in Canada con il marito e un figlio; durante il viaggio il suo libro di cucina va parzialmente perduto e Venba obbliga il giocatore a ricostruirlo riproducendo man mano le ricette.
Stiamo parlando di un giochino che lavora per puzzle: per ricostruire una ricetta serve una certa manualità nel manipolare cibo e strumenti di cucina ma anche azzeccare quali sono gli ingredienti e in che sequenza metterli in padella. Il gioco ha una forte componente narrativa e mentre si sta là a cucinare si segue la storia della famiglia (e, implicitamente, della diaspora indiana in Canada) fino ai giorni nostri.
Non è difficile immaginare che il gioco abbia una forte componente biografica: l’autore, Abhi, appartiene lui stesso alla diaspora. Non ho giocato ancora a Venba (costa più di dieci euro e quindi va contro le mie regole, aspetto un’offerta), ma ho visto per caso, frugando fra le migliaia di presentazioni che si tengono alla Game Developers Conference, una comunicazione di Abhi molto interessante, che segnalo e consiglio (l’intervento in sé dura una quindicina di minuti più altrettanto di domande del pubblico e relative risposte; ovviamente è in inglese e purtroppo anche i sottotitoli sono in inglese e per giunta anche non buonissimi: lo so che non sono incoraggiante, ma merita).
La segnalazione non vale solo per gli amanti o gli sviluppatori di videogame, ma in realtà per tutti quelli che si occupano di prodotti culturali. Con la sensibilità dell’emigrato di seconda generazione, Abhi si è posto il problema della produzione di un gioco profondamente legato alle caratteristiche della sua cultura di origine ma che non voleva cadesse né in didascalismi né in etnografismi e che non avesse neanche un sapore educativo: durante la conferenza la scelta è giustificata con motivazioni artistiche (una buona narrazione e l’ansia di dare spiegazioni non vanno molto d’accordo, le didascalie tolgono spazio alla narrazione), ma fra le righe del discorso si intravede anche una preoccupazione etica.
Da un punto di vista tecnico, e usando il gergo degli addetti ai lavori, Abhi ha trovato la soluzione trattando i riferimenti culturali come lore (una soluzione che trovo del tutto convincente). Con lore si fa riferimento, di solito, a tutti quegli elementi che l’autore ha creato nel processo di definizione del suo mondo e che non necessariamente comunica al lettore o spettatore o giocatore; per capirci, le genealogie dei Nani di Tolkien sono lore; quando Eco dice che lui conosceva le biografie di tutti i monaci dell’abbazia, anche di quelli che nel romanzo non compaiono mai direttamente, sta descrivendo parte del suo lore.
Parentesi: la Treccani dice che si può parlare di lore solo in contesti del tutto immaginari, e a pelle a me non sembra esattissimo, anche considerando l’esempio di Eco qui sopra che è quanto meno borderline, però anche Abhi si vede che sta ragionando con in testa una contrapposizione fra lore (mondo immaginario) e caratteristiche di culture realmente esistenti (mondo reale).
Comunque, una delle caratteristiche del lore è, tipicamente, che l’autore lo conosce benissimo ma che i giocatori (o altri utenti) lo vengono a conoscere solo nella misura in cui viene loro presentato. Per rimanere ai nostri esempi, nel Signore degli anelli, che pure è bello didascalico per conto suo, molti particolari non vengono mai spiegati, ma sono narrati sulla base della finzione che autore e lettore abbiano le stesse conoscenze – il che è anche parte del registro epico che rende affascinante il romanzo. Nel capitolo del Consiglio di Elrond, nel quale viene offerta una abbondante spiegazione dell’origine dell’Anello e del contesto nel quale è stato perduto, in un paragrafo come:
Fui araldo di Gil-galad e marciai con le sue schiere. Partecipai alla Battaglia di Dagorlad innanzi al Cancello Nero di Mordor, dove la vittoria fu nostra: nessuno infatti poteva resistere ad Aiglos, la Lancia di Gil-galad, e alla Spada di Elendil, Narsil. Vidi l’ultimo combattimento sulle pendici dell’Orodruin, dove morì Gil-galad, e cadde Elendil, e Narsil si frantumò sotto di lui; Sauron in persona tuttavia fu sconfitto, ed Isildur gli tagliò l’Anello dalla mano, con l’elsa della spada di suo padre, e lo prese per sé.
il brano è del tutto esplicativo, ma una buona parte dei luoghi e dei personaggi rimangono non spiegati: il lettore presuppone che abbiano un significato sulla base degli altri particolari che già conosce e per le spiegazioni che vengono date, e per il resto si fida. E, in ogni caso, altre cose sono lasciate direttamente alla sua immaginazione: chi c’era nell’esercito di Gil-galad ed Elendil? quanta gente ha combattuto? come si è svolta la battaglia? L’autore lo sa, il lettore lo immagina. Allo stesso modo nel Nome della rosa, che pure trasuda cultura da tutti i pori, Eco può descrivere in maniera accurata la vita dei monaci perché ha studiato le fonti storiche sia letterarie che materiali, senza necessariamente indicare la provenienza: il rapporto sessuale di Adso e della ragazza è raccontato con un impasto di testi biblici e cortesi, come dovevano essere familiari a un cadetto entrato in un ordine religioso, ma non è che ci vengano fornite le citazioni esatte a fondo pagina.
Il punto di base di Abhi, nel dire che ambientare un gioco dentro una specifica comunità, con la sua cultura, richiede di trattare i riferimenti culturali come se fossero lore, è che non bisogna tutorializzare l’esperienza culturale, cioè creare una sorta di guida (tutorial) permanente che spiega gli elementi tipici che sono presentati man mano.
Nei libri il bisogno di spiegare è minore (nel cinema, grazie all’apporto dell’immagine, ancora meno); nei videogame la tentazione è più forte perché il gioco è interattivo e quindi il giocatore ha bisogno essere orientato a sapere cosa fare; come Abhi dice benissimo, però, tutorializzare il giocatore vuol dire anche tutorializzare il personaggio, portandolo a comportamenti incoerenti o perfino ridicoli.
Facciamo un esempio locale, così ci avviciniamo anche al motivo per il quale tengo a segnalarvi questa piccola conferenza. Supponiamo che io abbia fatto un gioco ambientato in Sardegna e che i personaggi si stiano per recare a Sant’Efisio, come ogni anno. Nessuno di noi, uscendo di casa, direbbe: «Vieni cara, andiamo a questa processione che si tiene ormai da quattrocento anni, e a cui partecipano gruppi in costume provenienti da tutta la Sardegna», né si aspetterebbe la risposta: «Si, caro, accorriamo, sebbene io di solito preferisca il momento in cui, al termine del suo viaggio, la processione torna a Cagliari, evento che si svolgerà fra tre giorni e che, di solito, è più familiare, più intimo e più sentito dai cagliaritani». Un dialogo più realistico sarebbe: «Senti, ci facciamo due panini qui a casa oppure poi andiamo al solito posto in viale La Plaia?», «No, dai, usciamo subito perché quest’anno voglio arrivare presto e vedere le traccas, e tanto il tempo di prendere il panino c’è sempre mentre cambiano il Santo». Se i giocatori devono credere che certe cose sono familiari ai personaggi, gli autori devono trattarle da oggetti familiari, non da eventi alieni da spiegare, anche se per i giocatori invece sono aliene. Il punto è anche etico: se i personaggi trattano cose che gli sono familiari come aliene, stanno implicitamente comunicando al giocatore che quelle cose possono – anzi, devono – essere osservate con un punto di vista esterno (presumibilmente occidentale), con un discreto rischio di etnografismo o, al fondo, di sottrazione culturale.
Abhi fa una serie di esempi efficaci. Per esempio, l’immagine qui sopra è riferita a un livello in cui si devono produrre diversi piatti uno dopo l’altro, in fretta, continuamente. Molti playtester hanno segnalato che sarebbe stato utile avere i nomi dei piatti, perché sono molto accattivanti e avrebbero voluto cercare le ricette on line. Gli sviluppatori stavano per accettare, poi si sono chiesti: ma se stessimo facendo lo stesso gioco ma con pietanze locali, avremmo scritto la didascalia pizza, hamburger, toast, spaghetti? Ovviamente no. Neanche alla tavola calda ci sono i cartellini, no?
Ci sono diversi altri particolari, alcuni anche molto tecnici, come il modo piuttosto sottile con cui viene evidenziato quando i personaggi parlano in Tamil ma il gioco, ovviamente, propone direttamente la traduzione inglese, e quando i personaggi parlano inglese, e stanno mentalmente traducendo dalla loro lingua madre, e una riflessione interessante su come lavorare sui riferimenti culturali come lore permetta di porsi in una condizione win–win: chi coglie i riferimenti culturali li apprezzerà, chi non li coglie percepirà l’esistenza di un enigma stimolante e intuirà che il mondo di gioco ha una sua profondità che va oltre l’immediatamente percepibile.
Sono, come accennavo prima, riflessioni interessanti per chiunque si proponga di creare un prodotto culturale collegato a una realtà culturale o geografica, come per esempio la Sardegna, perché se Abhi ha ragione due modi con cui spesso si curano questi prodotti non sono necessari o talvolta dannosi.
Il primo è quello per il quale si pensa che per vendere la Sardegna
(se vendere la Sardegna non vi piace diciamo: presentare la Sardegna)
per presentare la Sardegna sia necessario non tanto creare una storia interessante quanto una mitologia. Venba dimostra che le dimensioni cultuali sono (possono essere) interessanti in quanto tali, senza bisogno di mistificarle, enfatizzarle, mitizzarle o sostituirle: basta raccontare una cultura così com’è. Dice: «bella scoperta», ma in realtà non è così, nell’esperienza quotidiana che facciamo e nel modo con cui si vend… propone la Sardegna.
L’altro giorno guidavo sulla 131 e verso Bauladu mi si è presentato uno scorcio di panorama che evocava cavalieri che si stagliassero contro il sole sul crinale della collina. «Guarda», ho detto a Maria Bonaria. «Cosa?», mi ha fatto. «Adesso niente, ma c’era un sardo, a cavallo di un muflone, bello nella sua ancestrale fierezza. Bellissimo. Non lo vedi perché adesso è sceso dall’altra parte».
Ecco, non c’è bisogno, no? Eppure è lo stile con cui tante volte raccontiamo la Sardegna, che Dio perdoni la costante resistenziale.
Ma Venba segnala anche un altro pericolo, questa volta sul versante etico, e cioè che quando noi mistifichiamo, enfatizziamo, mitizziamo o sostituiamo le nostre caratteristiche culturali, implicitamente stiamo dicendo che secondo noi al naturale non sono abbastanza interessanti e hanno casomai bisogno di essere trattate con anabolizzanti, e in definitiva che secondo noi non hanno abbastanza valore: e se non crediamo noi alla nostra cultura, perché dovrebbero crederci gli altri?
Lo stesso vale per i momenti in cui tutorializziamo o musealizziamo le nostre caratteristiche culturali: perché implicitamente stiamo dicendo che si tratta di elementi che non sono in grado di comunicare da soli ma che devono essere comunicati; dalla necessità di comunicarli fino alla curiosità etnografica un po’ bizzarra il passo è brevissimo (e pericolosissimo).