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Sospesi (e degli imprevisti nessi fra Brecht, la catastrofe e Cristo vincitore della morte)

Mi sono ricordato che non ho fatto gli auguri di Pasqua. Così vi racconto una cosa.

Il giorno di Pasqua, dopo avere molto mangiato, siamo usciti a fare una passeggiata digestiva, io, Maria Bonaria, mia sorella e mia nipote Agnese.

C’era un sole magnifico. Abbiamo accompagnato mio suocero, il mitico Pino, per un pezzo di strada verso casa sua. Poi siamo andati a Su Siccu, a vedere la barche, perpetuando un rito familiare: anche a me da bambino mi portavano al molo, e ancora adesso se devo sbentiare vado a vedere il mare.

Abbiamo spiegato ad Agnese il concetto di “àncora”, il fatto che le barche hanno dei nomi, e perché il palo delle vele si chiama “albero”. Abbiamo scoperto che le cozze si attaccano alle gomene delle ancore e che c’erano un sacco di pesci: ma tanti, addirittura un piccolo banco di acciughine.

C’era molta pace.

Per contrasto pensavo alla storia dei saggi nominati da Napolitano (una porcheria da vecchia politica che veramente ti farebbe passare all’antipolitica). Mi è venuto un presagio di disastro imminente, per non parlare del fatto che non è che nel mondo le cose vadano poi così bene a prescindere.

Il contrasto mi ha fatto tornare in mente l’amato Brecht, in un paio di versi che non avevo mai veramente capito:

L’Imbianchino parla di grandi tempi avvenire.

Le foreste crescono ancora.
I campi sono fertili ancora.
Le città ci sono ancora.
Gli uomini respirano ancora.

La descrizione perfetta di un attimo fissato nel tempo prima della catastrofe?

Non so. Cioè: si. O forse no.

Le città ci sono ancora. È lo stesso Brecht a formulare una profezia generale sulle nostre città (nella ballata Del povero B.B., che peraltro merita di essere letta tutta), e in questo caso prescinde da Hitler (l’imbianchino):

Siamo vissuti noi, volubile schiatta,
in case che credemmo indistruttibili.
(Così abbiamo costruito gli edifici dell’isola di Manhattan.
e le antenne sottili che attraversano l’Oceano ).

Di queste città non rimarrà che il vento che le attraversa.
Siamo esseri effimeri.
E dopo di noi ci sarà: nulla degno di nota.

Questo è, diciamo, il lato disperante. Gli alberi respirano ancora, i campi crescono ancora, ma di queste città che ci sono ancora resterà solo il vento che ora le attraversa.

Domenica c’era un maestralino da niente, che diciamo faceva una bella sponda con la memoria che richiamava alla mente i versi.

Che fare?

Oltretutto era Pasqua, vittoria della vita e della speranza.

Per continuare il ragionamento insieme con Brecht, mi sono ricordato dell’albicocco.

Domenica di Pasqua (primavera 1938)‎

Oggi, domenica di Pasqua, presto
un’improvvisa tempesta di neve
si è abbattuta sull’isola.
Tra i cespugli verdeggianti c’era neve. Il mio ragazzo
mi ha portato verso un piccolo albicocco attaccato alla casa
strappandomi ad un verso in cui puntavo il dito contro coloro
che preparavano una guerra che
può cancellare
il continente, quest’isola, il mio popolo,
la mia famiglia e me stesso. In silenzio
abbiamo messo un sacco
sopra all’albero tremante di freddo.

Con calma, ho fatto notare alla bambina un cavaliere d’Italia che andava a pesca. Purtroppo però non si è tuffato: sarebe stato bellissimo.

Buona Pasqua (fino alla fine dell’Ottava penso di essere in tempo).

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