Quel primitivo di Jack London
Ho messo in linea oggi la puntata di Oggi parliamo di libri dedicata a Jack London e al Il richiamo della foresta.
Come ho spiegato in trasmissione la puntata doveva essere dedicata al western e poi ho parzialmente cambiato obiettivo: in London infatti non c’è tanto una riflessione sul West quanto sul sogno americano; solo che le due cose almeno in parte coincidono, e in trasmissione si sono ulteriormente mischiate, fermo restando che un po’ per i miei limiti e un po’ per i soliti problemi di tempo non sono probabilmente riuscito a spiegarmi bene.
Aldilà di questo comunque sono abbastanza contento della puntata, con due limiti che vorrei correggere qui.
L’idea che volevo esprimere in fondo era questa: che mentre altri romanzi di avventura di cui ho parlato in precedenza esprimono il conflitto dell’europeo posto di fronte a culture diverse, come era per esempio in Kim, in London ho trovato l’idea che sulla frontiera un’altra grande realtà mette in crisi l’uomo bianco: non una cultura diversa dalla sua ma la natura stessa, attraverso i grandi spazi, la potenza dei suoi fenomeni, il rigore estremo delle condizioni meteorologiche. Spogliato così degli orpelli sociali l’uomo si confronta coi suoi istinti bestiali, tanto più in condizioni morali ulteriormente estreme come quelle che la febbre dell’oro risveglia. Ma oltre, se riesce a non cedere a tutto questo, l’uomo incontra la nobiltà e la bellezza dello stato di natura perfetto.
Ok, tutto sommato l’ho detto, ma non troppo bene, così adesso l’ho ripetuto. Questa notazione sulla potenza della natura, che secondo me in London tiene un luogo analogo al “buon selvaggio”, è la sfumatura che mi differenza dalla critica che sottolinea l’aderenza di London alle idee del primitivismo americano e la sua reazione agli sconquassi che l’industrializzazione produceva, in America e altrove (come sa chi ha letto Il popolo degli abisso, che è quasi dello stesso anno de Il richiamo della foresta ed è uno straordinario reportage londinese, in cui London si unisce ai vagabondi e ai reietti della metropoli).
L’idea del primitivismo ha strappato un sogghigno al direttore di Radio Kalaritana, Roberto Comparetti, ed ha motivato il brano musicale di pausa, Society di Eddie Vedder, forse il commento musicale più appropriato che ho usato in tutta la serie. Peccato che nella foga della trasmissione mi sia un po’ perso e non abbia spiegato il collegamento con il film dalla cui colonna sonora il brano è tratto (Into the wild, e già dal titolo richiama il libro): d’altra parte chi conosce il film trova le tematiche comuni con facilità, mentre chi non l’ha visto farà bene a recuperarlo di corsa.
Il secondo tema su cui ho dovuto tagliare è stato quello dei nativi americani, perché è vero che gli europei nella loro corsa verso ovest non si confrontavano solo con un intero continente, che mentre lo conquistavano li faceva suoi, ma anche con delle persone in carne ed ossa e con culture che dall’incontro con l’uomo bianco sono state sostanzialmente distrutte. Avevo calcolato, dopo aver parlato de Il richiamo della foresta, di poter avere metà della trasmissione per un po’ di consigli multiformi su questo argomento, invece mi sono perso. Ho fatto in tempo a consigliare Seppellite il mio cuore a Wounded Knee di Dee Brown, un consiglio a mia volta ricevuto da Gianfranco Manfredi, che si è prestato a rispondere a un perfetto sconosciuto su Facebook (al libro di Dee Brown non avevo minimamente pensato). Il ringraziamento in trasmissione mi ha dato anche l’occasione di segnalare la nuova uscita a colori di Magico Vento, la monumentale rilettura del western fatta dallo stesso Manfredi, ma avrei voluto parlare anche di altri fumetti, sia della Bonelli (caspita: c’era Ken Parker, La storia del West, ma anche lo stesso Tex) che della scuola franco-belga: probabilmente recupererò un’altra volta qui sul blog.
Ho consigliato invece, anche se un po’ a malincuore, L’ultimo dei Mohicani, per un’idea ancora diversa della frontiera fotografata in un momento storico differente. Non sono un grandissimo amante della serie di Fenimore Cooper, ma l’ho messa in lista per una rilettura, perché ho da poco letto un saggio nel quale si suggerisce che in realtà Lungo Fucile sia in combutta coi nemici, e questo mi fa sospettare che ci possa essere nel libro più di quanto appaia a prima vista: quando l’avrò riletto ne riparleremo, e in ogni caso sto pensando di tradurre l’articolo in questione.
Non c’è stato il tempo, ma avrei voluto chiudere con il consiglio di una saggio bellissimo (La città di quarzo. Indagine sul futuro a Los Angeles) di Mike Davis, un libro di… boh? urbanistica? sociologia? un po’ tutte queste cose e diverse altre. È forse oggi un po’ datato, ma è il libro attraverso il quale ho capito che il West non era, che so? l’Oklahoma, ma la California, e che le terre selvagge attraversate dai pionieri erano solo una separazione verso quella terra dei sogni che poi, non a caso, produrrà Hollywood. Da questo punto di partenza, dal mito di Los Angeles Davis prende le mosse per raccontare molte cose sull’America degli anni ’90 e sul futuro, e, come per Into the wild, il libro merita di essere letto, oggi, per quello che ci dice sulle idee del vecchio Jack London, il quale a sua volta, ricomparendo in questi posti inaspettati, dimostra di poter parlare ancora anche a noi, e non solo ai ragazzi.
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