Il maestro di go
Sto (ri)leggendo Il maestro di go di Kawabata Yasunari (Oscar Mondadori, 1995, ora credo ripubblicato da Einaudi). Kawabata è uno scrittore importante, il primo giapponese a vincere il premio Nobel: probabilmente è corretto considerare Il maestro di go una sua opera minore e tuttavia si tratta di un romanzo breve che in Occidente gode di un seguito e di un successo relativamente maggiori rispetto ad altri suoi libri più importanti. Fra i giocatori, in particolare fra quelli che praticano giochi di scacchiera, Il maestro di go arriva allo status di un vero e proprio cult.
Il romanzo racconta di un episodio realmente successo: la partita di go in occasione del ritiro dalle competizioni di Shūsai, ai tempi considerato il più forte giocatore giapponese (e quindi del mondo). La partita fra il maestro e il giovane Kitani Minoru – che per il privilegio di giocare questa partita aveva battuto in torneo tutti gli altri più forti giocatori di go – doveva servire a celebrare la carriera di Shūsai e a chiuderla con un’ultima, epica competizione.
Il racconto prende le mosse però due anni dopo la conclusione della partita, con la morte del maestro; Kawabata, scrittore già affermato che come inviato del giornale che sponsorizzava la partita del ritiro aveva seguito e raccontato al grande pubblico il match e ne conosceva bene i protagonisti, si trova casualmente nella stessa località in cui Shūsai muore ed è coinvolto nei preparativi del funerale: alla vista del morto è portato a ricordare l’occasione della loro conoscenza reciproca e senza sforzo introduce nella narrazione il racconto in retrospettiva della famosa partita, che diventa il paradigma dell’arte, della vita e della morte del maestro:
Parve allora, infatti, che fosse stata la partita stessa a sottrarre vita al maestro. Non si riprese mai più e un anno dopo morì.
Per chi non sapesse cosa sia il go
Il go è un gioco di scacchiera, originario della Cina ma che ha avuto il suo massimo sviluppo in Giappone, dove in analogia con le arti marziali è considerato una via. Per usare le parole di Kawabata stesso:
gioco di elevata spiritualità nella penetrazione delle leggi dell’universo e dell’uomo attraverso la via delle trecentosessantuno intersezioni.
Prima di ascrivere la cosa alle solite esagerazioni dei giapponesi vale la pena di ricordare che è comune in Cina ricordare che Mao era un forte giocatore di go e che si ritiene che la sua strategia durante la guerra civile cinese fosse modellata su concetti tipici del gioco.
Del resto la capacità della scacchiera di rappresentare il mondo è stata notata a tutte le latitudini (se guardate la definizione di gioco di Huizinga vi accorgerete che funziona meglio di tutte coi giochi di scacchiera) e la sua attitudine a influenzare i grandi uomini è un luogo comune della letteratura: se Mao giocava a go Majakovskij ricorda che Lenin da parte sua giocava a scacchi
come noi che diciamo: «Il bigliardo mi esercita l’occhio»,
egli apprezzava il gioco degli scacchi.
A me il go piace molto, anche se sono un giocatore mediocre. Non so se, come dice Raffaele Rinaldi nell’appendice, il go abbia sottigliezze e portato filosofico maggiori degli scacchi, esprimendo la maggiore complessità e in fondo civilizzazione dell’Oriente rispetto all’Occidente, un gioco banale di aggressione e sterminio contrapposto a un gioco che rende possibili coesistenze e codipendenze e non solo sopraffazione. È certo però che Kawabata ne è abbastanza convinto, o comunque che vede nel go non solo una vera e propria forma d’arte ma una disciplina che deve riempire di sé tutta l’esistenza – anzi, il gioco determina perfino l’aspetto fisico (il goban è la scacchiera da go):
La maestosità della figura davanti al goban è probabilmente un qualcosa che si acquisisce verso la mezza età, sebbene ormai non si dia più molto peso a simili questioni di forma: basta guardare come si contorcono i giovani giocatori, indulgendo in atteggiamenti a dir poco bizzarri. Una delle situazioni che mi ha colpito maggiormente, per la sua assurdità, fu quando un giovane IV dan, durante un torneo dell’associazione, aprì sulle ginocchia una rivista letteraria mettendosi a leggere disinvolto mentre il suo avversario meditava sulla mossa. E quando infine questi si decise, lui sollevò la testa per riflettere, mosse a sua volta, e mentre l’altro tornava a meditare lasciò nuovamente cadere l’occhio sulla rivista con aria indifferente. Sembrava prendersi gioco dell’avversario, che infatti apparve molto offeso. In seguito mi giunse voce che quel giovane era impazzito poco dopo. Doveva essere una mente già malata…
Insomma, Shūsai e Kitani sono come i sacerdoti di un credo esoterico che si accingono a prendere parte a un’azione eroica.
Ci sono pagine di Kawabata sulla loro trasfigurazione davanti al goban, sull’assunzione di una posa in cui appaiono più grandi della realtà, che ricordano le scene che si vedono nei cartoni animati prima che l’eroe in incognito si trasformi nella sua controparte eroica.
Dal 177 al 180 nero Ōtake (pseudonimo di Kitani, NdRufus) sembrò in trance, immerso in pensieri di straripante profondità, il volto tondo simile a quello di un buddha, la stessa pienezza. Era un viso meraviglioso, di indicibile bellezza, perso nell’estasi dell’arte.
La partita del ritiro dovrebbe essere una sorta di metafora di tutto ciò che il go è e rappresenta, e se, come abbiamo detto, il go è a sua volta una metafora la partita assume per forza una dimensione paradigmatica: la metafora della metafora della vita.
Solo che va tutto storto.
Una partita con molti livelli
La partita si svolge nel 1938, un’età di passaggio anche dal punto di vista del gioco. Shūsai è l’ultimo degli Hon’inbō, un termine che indica tanto la più antica e la più importante delle famiglie cui tradizionalmente era riservata nel Giappone feudale la pratica professionistica del go, quanto il capo della casata, cioè praticamente il pater familias dei giocatori di go. In più è anche meijingodokoro, una carica a vita che nel Giappone feudale corrispondeva a una sorta di ministro imperiale del go, precettore ufficiale dello shōgun e arbitro supremo della disciplina e che anche nel Giappone degli anni ’30 portava con sé un prestigio enorme e grandi privilegi.
Però la trasformazione sociale sta arrivando. Un tempo un giocatore del calibro di Shūsai avrebbe avuto diritto durante la partita a una serie di cortesie e privilegi; invece questa volta lo sfidante chiede e ottiene garanzie: ogni giocatore ha dei limiti di tempo prefissati per le mosse, ad ogni interruzione l’ultima mossa viene messa in busta chiusa, per non avvantaggiare nessuno, e così via. Chi conosce la storia degli scacchi vi riconoscerà il passaggio dal gioco aristocratico alla sua interpretazione come sport: anche per il go la partita del ritiro assume il senso ulteriore del passaggio di consegne fra due forme differenti di gioco.
Il passaggio alla modernità è segnato anche dalle caratteristiche mediatiche dell’evento: “mediatiche” rispetto alle caratteristiche del Giappone industrializzato degli anni ’30, ovviamente. La partita è sponsorizzata da un grosso giornale, ci sono firme prestigiose come quella di Kawabata che raccontano il confronto, c’è addirittura un concorso a premi che invita i lettori a indovinare che mossa sarà giocata in determinati momenti critici. Il successo e la risposta del pubblico stupisce perfino gli organizzatori. Per noi che viviamo in un’epoca televisiva è facile dimenticare che questi erano i fenomeni di massa al tempo della radio e dei giornali.
In questo senso la trasformazione del go è figura della trasformazione del Giappone stesso: dopo l’abolizione del bakufu feudale e del sistema di sovvenzioni statali alle quattro famiglie storiche l’arte si era pressoché estinta ad alto livello, rimanendo affidata al solo meijingodokoro, cioè Shūsai, che adesso invece grazie alle sovvenzioni dei giornali e a un atteggiamento “imprenditoriale” sta contribuendo a traghettare il gioco nel Giappone moderno. Il go diventa così simbolo di tutte le antiche tradizioni giapponesi che il nuovo paese industrializzato ricicla per costruire la propria identità moderna.
Su tutto questo, che già rappresenta una dimensione abbastanza complessa, si abbatte la malattia del maestro. Inizialmente il match doveva seguire l’antico rituale del ritiro: i due giocatori vanno in una località appartata, con il seguito, i funzionari dell’Associazione nazionale del go, gli arbitri e così via. L’esigenza di un albergo isolato è legata ai ritmi, del tutto diversi da quelli degli scacchi: un giorno di gioco – circa dodici mosse al giorno – e quattro di riposo, in considerazione dell’età del maestro, in un luogo di villeggiatura dove non possano giungere suggerimenti o distrazioni. Tempo previsto di gioco: tre mesi. Anche per la partita del ritiro, sono tempi che già i contemporanei giudicano smisurati.
Solo che il maestro è cardiopatico e quei giorni di riposo così dilatati, invece di favorirlo, lo stroncano, o così racconta Kawabata.
È tuttavia inconcepibile poter tollerare così a lungo la concentrazione della gara, la continua tensione agonistica: è un attentato alla salute dei giocatori. In gara, il goban ti perseguita ovunque, nel sonno e nella veglia, e quegli intervalli di quattro giorni fra un incontro e l’altro servirono a logorare i nervi, più che a riposare.
Una volta che la malattia è conclamata, l’evento si avvita su se stesso. Ognuno dei protagonisti è chiuso in un dilemma. Il maestro palesemente non ce la fa, potrebbe morire da un momento all’altro. Kitani non vorrebbe continuare – non è onorevole giocare contro un giocatore malato, teme che tutti diranno che ha vinto solo perché l’avversario era debilitato – ma contemporaneamente se si assumesse lui l’onere di interrompere la partita, privando il maestro di quest’ultima occasione, anche questo non sarebbe onorevole. Funzionari, organizzatori, arbitri sono tutti prigionieri di argomentazioni del genere, o forse prigionieri della partita stessa, un dramma che non possono interrompere, che è di grande successo all’esterno ma che al contempo dall’interno li divora. Possono solo sperare che finisca presto, e nel frattempo devono collaborare perché prosegua. In alcune pagine del romanzo il go diviene una specie di idolo antropofago, e la sua vittima, il suo martire, è il maestro, il quale da parte sua invece segue gli eventi con indifferenza, una specie di rassegnazione zen al lasciarsi trasportare dagli eventi, a immergersi totalmente nella partita anche se questa dovesse essere la sua rovina. Alla fine, contando anche le pause per il ricovero in ospedale di Shūsai, la partita durerà circa sei mesi (Kawabata scriverà in tutto più di sessanta reportage sull’incontro).
La conclusione di tutto questo rovello, alla fine, è veramente anticlimatica e giocata del tutto sul tono della malinconia: come se Kawabata avesse raccontato di un temporale che si va addensando per ore e che poi non si scatena ma si scioglie da solo; d’altra parte il romanzo racconta eventi reali e se la partita è andata in un certo modo e il maestro non è morto sul palcoscenico come Molière non ci si può far niente. Di fatto Kawabata è spinto a ricordare molti episodi che sono successivi alla fine della partita.
Prima della lunga conclusione c’è tempo, però, per un episodio anch’esso malinconico. A un certo punto Kitani gioca una mossa che forse è scorretta. Non una mossa scorretta nel senso delle regole del gioco, e neanche un errore, ma una mossa furbetta, un approfittare del meccanismo delle interruzioni per guadagnare tempo. Da nuove regole nascono nuove scelte tattiche. Questa è una mossa inutile. Per i maestri di go, per i quali ogni mossa deve sempre servire a dare il massimo, è una grave caduta di stile. In una occasione unica come la partita del ritiro è imperdonabile. Lascio la parola a Shūsai:
«La partita è finita, rovinata dall’ultima mossa in busta chiusa di Ōtake. Ha gettato inchiostro sul quadro che avevamo dipinto con tanta amorevole cura…» esordì a bassa voce ma in tono fiero il maestro, mentre noi ci stavamo accomodando. «Non appena ho visto la mossa, il primo impulso è stato quello di andarmene».
La partita come opera d’arte collaborativa fra due campioni, sporcata da quella mossa. Potete capire come mai fra i giocatori occidentali questo passaggio, considerato vera espressione dell’animo giapponese e dello spirito del go, sia citatissimo.
La scrittura di Kawabata
La prima volta che ho letto Il maestro di go ero più attento alla descrizione del gioco e della sua filosofia. Questa volta sto seguendo di più la scrittura di Kawabata.
Non so molto della scuola “neopercezionista” alla quale aderiva. Anche un dilettante come me però si rende conto che il suo stile è molto moderno (a me ricorda il Joyce di Gente di Dublino, fatte le debite differenze). C’è una grande attenzione ai dettagli che si fissano all’attenzione del narratore per la loro stessa forza, non per uno sforzo cosciente dell’osservatore; una specie di flusso di coscienza che porta a intervallare la cronaca delle partite con i ricordi del rapporto fra Kawabata e il maestro e gli altri giocatori di go; episodi apparentemente casuali capitati al narratore che si mischiano con la partita e la illuminano in un tutto armonico; cose che Kawabata sente il bisogno di dirci senza spiegarci cosa c’entrino con la narrazione, salvo lasciare che siamo noi a capirlo. Lo stile è piano, indugia sui particolari, in certi casi sembra “pittorico”: come se fosse più attento a dipingere un quadro che a narrare avvenimenti. Dopo questa lettura sarei molto tentato di affrontare uno dei suoi romanzi maggiori.
Certo mi rimane il dubbio su questa sua insistita rappresentazione dello spirito giapponese, della realtà del go come arte, che potrebbe nascondere anche delle mistificazioni: molti degli episodi narrati nel libro hanno spiegazioni che non sono elevate come quelle che propone Kawabata, ma richiederebbero il ricorso a valori meno elevati: avidità, orgoglio, piccineria, puntiglio, desiderio di sopraffazione; anche per chiarirmi le idee su questo sono tentato da una lettura più “seria” di Kawabata, per controprova.
Una bella edizione
La mia edizione de Il maestro di go è di Mondadori, come ho detto, ma temo non sia più in circolazione. È comunque basata sull’edizione SE, che dovrebbe essere ripresa in maniera identica anche dalla nuova edizione Einaudi. È, secondo me, una bellissima edizione, che contiene numerosi diagrammi con l’evoluzione della partita, un discreto apparato di note, un glossario sul go, la cultura giapponese e i nomi menzionati nel romanzo e, infine, una bellissima appendice a cura di Raffaele Rinaldi sul go, con la spiegazione delle regole e soprattutto della filosofia di gioco e un ulteriore apparato di note.
Sotto questo punto di vista, a prescindere dai meriti letterari, Il maestro di go è una lettura pressoché obbligatoria per gli appassionati di giochi e gli amanti della cultura orientale.
Per tutti gli altri è una lettura piacevole e ingannevolmente semplice che può rappresentare una incursione a sé stante o un primo passo dentro una cultura e dei valori piuttosto differenti, nonché l’occasione per conoscere un grandissimo letterato.
Leggevo «Fregatene! Tanto ci pensa Johnny» con il sorriso e la mente da un’altra parte. Era rimasta incollata al link «il maestro di go». Così sono andata a leggerlo. Mi ha fatto tornare in mente non una ma due cose. La prima, quella per me più importante, è la “forma” (nell’articolo si parlava della forma che si assume davanti alla tavola, per esempio). Un tempo avevo acquisito una sensibilità particolare per la forma (le forme, la disposizione nello spazio della materia, per intenderci) e l’importanza che questa disposizione ha anche sotto un profilo scientifico e quanto sia sfuggente e sottovalutata (lo so, detto così e vago e non si capisce una mazza, ma per spiegarlo mi ci andrebbe troppo spazio). Poi, come capita, di questa cosa della forma me ne ero scordata. E questa è la prima… reminescenza. La seconda è che pur non giocando a go da anni (ero la peggior giocatrice del mondo) mi emoziona ancora.
E visto che ci sono ti dico che ho sbirciato anche un altro articolo che hai scritto sull’importanza dei giochi in generale e mi trovi perfettamente d’accordo, io ne ho fatto una pratica di vita : )
franci
Si, nel go la forma è tutto, ed è un’altra delle metafore potenti che questo gioco riesce a mettere all’opera (credo di averti capito, anche se io sono più attento alle narrazioni e tendo a pensare che la realtà si disponga secondo forme narrative, e non spaziali). E si, il go emoziona, ma forse questo è di tutti i giochi…
: )))
Ps. Un saluto a te e a tutti quelli che con te giocano a gdr.
(Noi siamo in cinque/sei e ci giochiamo da trent’anni!)
L’avevi visto l’articolo con idee per giochi di ruolo?
P.S. A cosa giocate?
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