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Violenza banalizzata

Ferma il bastardoL’altro giorno Un altro genere di comunicazione ha pubblicato (in anteprima, la campagna è uscita oggi) il titolo e le immagini della nuova campagna della Yamamay (la vedete qui a fianco). Una campagna apparentemente “sociale”, dedicata al tema della violenza contro le donne.

La redazione di Un altro genere di comunicazione osserva che si tratta di una campagna molto ambigua e ho deciso di segnalare l’articolo perché lo condivido quasi parola per parola (in un altro intervento Annamaria Testa critica la campagna dal punto di vista specifico del marketing, ma la cosa mi interessa meno) anche se concentrandosi sull’immagine (la classica “donna con l’occhio nero) mi sembra trascuri l’elemento più interessante, quello del linguaggio. Ho l’impressione infatti che Ferma il bastardo, una frase così aggressiva, serva a vendere alle giovani e giovanissime che sono le clienti tipiche di Yamamay un'(auto)immagine di sé come indipendenti, capaci di badare a se stesse e perfino pericolose (“ti faccio vedere io”) che è di fatto mistificatoria.

Lo è perché numeri e dati di fatto ci dicono che le donne devono confrontarsi quotidianamente con dinamiche di oppressione (non solo fisica, ma anche) che semplicemente non possono essere risolte con un po’ di aggressività o di autostima in più (esattamente come nessuno potrà mai, per esempio, sconfiggere la “casta” tirando un po’ di monetine al primo politico che passa per strada: sono cose che soddisfano la pancia, ma non intaccano i rapporti di potere).

Yamamay sposaLo è anche perché, come tante altre aziende, Yamamay collabora alla costruzione di un’immagine di donna che pone come valori preminenti la desiderabilità, la giovinezza, la bellezza. Con tutto il rispetto per l’autostima e il saper badare a se stesse alla fine sono tutte cose che servono per il piacere di un uomo, non per stare bene con il proprio corpo. È un po’ lo stesso tipo di mistificazione su cui era stata messa in crisi Victoria’s Secret nella controversia della falsa linea di mutandine di cui ho raccontato in un articolo di un po’ di tempo fa (e infatti mi chiedo come reagirebbe Yamamay a uno scherzo simile): perché c’è differenza fra essere padrone della propria sessualità ed essere civette, e lo scherzo svelava che Victoria’s Secret immaginava clienti civette pronte a farsi cogliere dal maschio di turno. Ferma il bastardo evoca predatrici urbane dure come l’acciaio che poi presumibilmente per la prima notte di nozze (viva i valori tradizionali) si comprano il completino qui a lato: c’è qualcosa che non torna.

Del resto tutta la campagna ha qualcosa di troppo costruito e di artefatto: sulla sua pagina Facebook ho trovato l’annuncio di una serie di flashmob in giro per l’Italia previsti per settembre che onestamente mi sono sembrati un’autoparodia (tuttora ho il dubbio): se invece si fa sul serio resta confermata l’idea di una campagna social un po’ malaccorta e piuttosto invasiva.

Non è un fenomeno nuovo: la nuova frontiera del marketing sociale prevede che i brand si pongano in termini di rappresentanza di vasti settori della società, fino ad assumerne anche la direzione politica o para-politica (vedi Steve Jobs): è un fenomeno più diffuso per le aziende che operano sul web o nella tecnologia, ma niente vieta che lo faccia anche chi produce intimo, come Yamamay. Che poi lo faccia bene, o che questa frontiera sia davvero fruttuosa, quello è un altro discorso, ma chi lavora per rappresentare gli stessi segmenti sociali (come in questo caso il movimento femminista) dovrebbe stare attento a respingere operazioni che, come scrivono le redattrici di Un altro genere di comunicazione, rappresentano una banalizzazione e un depotenziamento delle proprie istanze.

Naturalmente, per riprendere un altro vecchio articolo sul tema non tutto può essere attribuito agli esperti di marketing d’assalto: l’articolo di Un altro genere di comunicazione ha un passaggio molto efficace:

Di femminicidio e di violenza oggi si parla molto, e questo è un bene, ma spesso se ne parla male. Questa attenzione mediatica nei confronti della violenza contro le donne è spesso voyerismo e intrattenimento e il rischio di banalizzazione è dietro l’angolo. Come scrivevo qui: Entrati nei grandi circhi mediatici femminicidi, stupri e violenze diventano dibattiti da salotti del pomeriggio, dove tra le foto delle “famose” in vacanza e l’intervista alla vip semisconosciuta che racconta come sia tornata in forma dopo la gravidanza e quanto l’esperienza della maternità l’abbia fatta sentire veramente donna, compare il servizio sul femminicidio, solitamente quello che ha avuto maggiore risonanza mediatica, e tra lo psichiatra che sforna diagnosi, Alessandra Mussolini che invoca le forche, la telecamera che si sofferma sulla maschera di dolore sul viso della conduttrice per poi scendere indugiando sul suo tacco 12, va in scena la “banalità del male”.

però ci si dovrebbe anche chiedere quanto il compito sia stato facilitato al circo mediatico e quanto non si dovrebbe aggiungere di contenuti più di “peso” per rendere il tema indigesto a qualunque forma di manipolazione.

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