Last of the plainsmen
Un po’ di tempo fa ho trovato e installato sul palmare un certo numero di e-books di Zane Grey, profeta del romanzo western all’inizio del secolo scorso, e ho cominciato a leggiucchiarli ogni tanto, ricavandone anche ogni tanto delle sorprese.
Adesso ho finito da poco Last of the plainsmen, che letteralmente sarebbe “l’ultimo degli uomini delle pianure” ma che secondo me è meglio tradotto come “l’ultimo dei pionieri”, perché fa riferimento alle grandi pianure americane e quegli avventurieri che nella seconda metà del XIX secolo vi imposero la legge e la civiltà dell’uomo bianco.
Il libro non è un romanzo: è piuttosto la cronaca di una partita di caccia nell’estate del 1907 in cui un giovane Grey, non ancora scrittore del tutto affermato, accompagna un gruppo – come vedremo piuttosto originale – di cacciatori, guidato da Buffalo Jones.
Buffalo Jones?! Confesso che anch’io, come voi, alla prima lettura ho avuto un attimo di incomprensione: non è Buffalo Jones, quello è Buffalo Bill, giusto?
Non proprio. Wikipedia rivela che il “colonnello” Jones è stato un cacciatore di bisonti, avventuriero, guardiaparchi – il primo guardaparchi di Yellowstone, se non ho capito male – imprenditore, fondatore di città, guida, allevatore. Un personaggio non famoso come Bill Cody, ma a modo suo anch’esso una leggenda del west. Soprattutto perché negli anni si caratterizzò per una certa vena che oggi chiameremmo ambientalista: si occupò di catturare animali selvatici vivi per preservarli e, per esempio, fu lui a introdurre il bisonte a Yellowstone e a assicurare la sopravvivenza di questo animale facendolo riprodurre in cattività. Naturalmente si tratta di un “ambientalismo” dell’epoca, che oggi ci farebbe inorridire: le catture, per dire, servivano a alimentare circhi, zoo e esibizioni pubbliche degli animali in cattività.
La partita di caccia a cui partecipa Grey è quindi del tutto speciale già a partire dalle premesse: è guidata da una leggenda del west, ormai anziana (Jones era nato nel 1844, nel 1907 ha più di sessant’anni, anche se appare ancora temibile), e l’ombra della sua presenza pesa su tutti gli altri cacciatori del gruppo.
Poi si tratta non tanto di una partita di caccia quanto di una spedizione: il gruppo deve fisicamente arrivare sul Grand Canyon con un viaggio di settimane attraverso territori desolati, e la caccia richiede preliminarmente l’attraversamento di un fiume tempestoso e di un deserto, un acclimatamento in alta montagna e infine l’ultima tappa, massacrante, verso il fiume Colorado: la cronaca copre così praticamente un’intera estate di avventure diversissime fra loro.
L’ultima particolarità è data dal tipo di caccia che pratica Jones: il quale vuole catturare vivi gli animali, ed è alla ricerca di puma. Il metodo prescelto è quello di inseguirli a cavallo con una muta di cani, lanciandosi a rompicollo su terreni in cui una caduta di sella può costare la vita, costringere il leone di montagna a rifugiarsi su un albero, prenderlo al lazo, poi legargli in qualche modo le zampe e infine tenerlo al guinzaglio legato a un albero. Potete immaginare che non si tratta propriamente di un metodo di caccia di tutto riposo (e nemmeno particolarmente efficace: ci sono un paio di occasioni in cui i cacciatori si devono scarpinare miglia dopo avere perso i cavalli e tornano al campo con le scarpe sfondate e gli abiti di velluto a pezzi, per non parlare di escoriazioni e contusioni varie).
Una caccia così ha già i contorni dell’eccezionalità: diventa epica perché è vista con gli occhi di Grey che è, dopotutto, più o meno un piedidolci e che sente di vivere una specie di battesimo dell’avventura nel selvaggio west a fianco di una leggenda vivente. Questa sua ingenuità gli fa perdonare qualche lirismo di troppo quando descrive la regione del Grand Canyon e anche la differenza di sensibilità che comunque lo separa dal lettore di oggi e che ci fa trasalire di fronte a qualche giudizio o opinione ormai inaccettabile.
Il tono epico è anche in due lunghi inserti, in cui Jones racconta due episodi per i quali era notissimo: la caccia al bue muschiato ai confini dell’Artico – qui la cronaca di Grey potrebbe confrontarsi col miglior Jack London – e la folle cavalcata dietro la grande mandria dei bisonti per sottrargli i vitelli con cui costituire la sua mandria privata. A questi due racconti di Jones si aggiunge un episodio situato invece nell’estate del 1907, il tentativo di catturare un mustang bianco, un animale leggendario, un episodio molto bello e trascinante.
Il resto del racconto, invece, è molto più legato alla quotidianità: le avversità del terreno da superare, i bivacchi, e soprattutto tutti i topoi di un ambiente molto virile, terribilmente virile, l’ingenua soddisfazione nelle prestazioni dei cavalli e dei cani, l’esaltazione delle cavalcate folli, gli scherzi e le chiacchiere di bivacco, l’eccitazione del sangue versato, l’influenza della natura maestosa che influenza e plasma la vita dell’uomo. Sotto questo punto di vista Last of the plainsmen è una testimonianza storica non da poco che coglie il west in un momento di transizione, in cui è ancora terra dell’avventura anche se non più ignoto e terribile come prima: ma ci sono ancora gli allevatori di cavalli selvaggi, le leggende da raccontare intorno al fuoco e, in generale, un mondo che è ancora radicalmente diverso da quello ben regolato e ormai domato dalla civiltà degli altri territori nordamericani. Sarà proprio sulla base di quelle avventure dell’estate del 1907 che Grey si sentirà capace di scrivere con cognizione di causa avventure western – fino a quel momento si era mosso su una linea molto più simile ai romanzi della frontiera sullo stile di Fenimore Cooper – trasferendo sulla pagina ricordi personali indelebili e l’impressione che gli avevano lasciato uomini e fenomeni della natura: chi legge Last of the plainsmen capisce perché e, anche se rimanesse intellettualmente lontano dalle credenze e dai comportamenti di Jones, Grey e dei loro amici non può evitarsi di desiderare, ogni tanto, di trovarsi lì anche lui, quando i cnai abbaiano nel fitto della macchia, il cavallo si slancia sotto di noi, l’aria ci schiaffeggia la faccia, l’eccitazione della caccia sale ed è bello essere giovani, valorosi e col sangue bollente.
Pingback: I libri che ho letto nel 2013