Quel che penso della lingua sarda
Mi prendo una pausa dai racconti delle avventure papali per tornare sul tema della lingua sarda, a cui ho accennato ieri: si vede che un po’ è un tema che mi brucia.
Siccome sulle questioni del sardo si intrecciano abitualmente discussioni cruente in cui si versa in misura uguale l’inchiostro e il sangue mi sembra opportuno chiarire le premesse.
Prima di tutto: mi fa piacere sentire altre opinioni. Mi fa sempre piacere, ma in questo caso di più: sentitevi incoraggiati a commentare e discutere.
In secondo luogo: io sono uno di quei sardi che non parla sardo. Lo capisco abbastanza, ma non lo parlo. Soprattutto, non penso in sardo, e credo in questo di essere nella stessa condizione della stragrande maggioranza dei miei conterranei. Non credo cioè che in Sardegna ci sia una maggioranza di persone che hanno il sardo come prima lingua.
Nonostante questo riconosco volentieri che il sardo è una lingua ancora viva e credo che sia un tesoro culturale che vada preservato.
Il problema mi pare come preservarlo. E perché, soprattutto. E credo che gli strumenti culturali con cui si guarda spesso alla questione del sardo soffrano di una dipendenza da schemi mentali, politici e culturali di impronta otto-novecentesca che sono del tutto inadeguati.
Vecchi arnesi del passato
Per esempio il tema della lingua sarda (o meglio del bilinguismo) sembra spesso affrontato come se fosse una questione di minoranza linguistica: come per i tedeschi dell’Alto Adige, per dire.
Il problema è che questa minoranza linguistica non è più, se pure è mai esistita. Non si tratta quindi di garantire diritti a una parte dei cittadini che altrimenti, non potendosi esprimere nella propria lingua, non potrebbe esercitarli: non c’è nessuno oggi in Sardegna che senza i cartelli stradali in sardo non riuscirebbe ad arrivare da qualunque parte, o che che non sia in grado di leggere un modulo in un ufficio pubblico (o meglio: c’è un sacco di gente che non sa leggere i moduli, ma purtroppo non dipende dal sardo).
È una trappola mentale comoda quella di ragionare per dualismi: i sardi che parlano sardo e gli italiani che parlano italiano, ma semplicemente non regge all’esame dei fatti.
Naturalmente non è solo una trappola mentale: è anche un utile schema per chi ci vuole marciare politicamente. C’è una visione dell’indipendentismo che ragiona con schemi politici ottocenteschi e che ha bisogno di sollevare la questione linguistica: perché nel Bignami dell’indipendentismo fai-da-te hanno scoperto che le questioni nazionali sono passate spesso per il tema della lingua, dall’Ungheria all’Irlanda (e infatti citeranno sempre il caso recente della Catalogna) e quindi la questione linguistica gli serve per costruire una visione nazionale che altrimenti non saprebbero mantenere: ma è una visione strumentale, uno stratagemma (per l’esattezza, è il quattordicesimo dei trentasei stratagemmi cinesi: prendere a prestito un cadavere per rifondervi lo spirito. Fine della divagazione).
L’altro grande equivoco politico fa appello non a un concetto ottocentesco ma a un tema del secolo successivo: l’anticolonialismo. Secondo questo schema l’italiano è una lingua imposta e per liberarsi del dominio coloniale dell’oppressore italiano occorre anche liberarsi della sua lingua. Ancora una volta, si agisce per parallelismi con altre situazioni storiche, solo che anche queste sono teorie che non reggono a una disamina storica seria: non c’è mai stato in Sardegna, da parte dello Stato, uno sforzo di “desardizzazione” anche lontanamente comparabile con quanto fatto dagli inglesi, per dire, in Scozia o in Irlanda, per non parlare del fatto che si è costretti a immaginare uno stato primigenio della Sardegna, prima della sua incorporazione nel Regno dei Savoia, il che è un assurdo, considerato che in precedenza la Sardegna era inserita in una altro sistema culturale, politico e anche linguistico, quello spagnolo, molto più ampio dell’isola.
E anche prima di parlare di colonialismo, magari, sarebbe il caso di andarci piano.
Scribi e farisei
Il peso di queste due strumentalizzazioni politiche fa venire in mente una frase di Gesù, se è consentito:
Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.
Lasciare la guida del lavoro di valorizzazione, salvaguardia e diffusione del sardo a chi ci lavora sopra per fini strumentali vuol dire che spesso si fanno le scelte sbagliate, o inutili.
Per esempio: la standardizzazione del sardo serve, unicamente, per renderlo lingua ufficiale negli atti pubblici. Avere il sardo come lingua ufficiale negli atti pubblici serve per dare visibilità a una fantomatica “seconda comunità”, quella dei parlanti in sardo, che semplicemente non esiste, ma della quale ci si potrebbe a quel punto ergere a rappresentanti. In compenso la standardizzazione comporta l’emarginazione o la perdita di tutta una serie di forme secondarie e di particolarità locali, che sono una ricchezza – evidentemente secondo alcuni sacrificabile.
Per non parlare del fatto che nessuno può ignorare che lo sviluppo naturale del sardo ha subito una cesura importante, e che pretendere di piegare la lingua a utilizzi per i quali non ha lessico sufficiente vuol dire violentarla e, in ultima analisi, impoverirla: la maggior parte dei termini utilizzati per nominare in sardo cose che appartengono alla modernità o alla post-modernità non sono altro che calchi malriusciti dell’italiano, come il famoso elettrotzeraccu per dire “elettrodomestico”.
Identità liquide
Io penso che questo tipo di visioni, sostanzialmente nazionalistiche, non siano più adeguate al ventunesimo secolo. Se si parla di identità mobili in una società liquida questo dovrebbe valere anche per le dimensioni linguistiche, e questa visione mi sembra anche più adeguata alla realtà dei fatti.
Non c’è in Sardegna una minoranza linguistica: c’è una totalità di persone che sono bilingui, in varia misura, o direttamente multilingui. Il riferimento migliore non mi pare l’Ottocento con la sua rivendicazione di identità esclusive, ma se proprio la devo sparare, la tarda Repubblica romana con le sue appartenenze multiple: in cui magari Cicerone lavorava e svolgeva la propria vita pubblica in latino, parlava osco o sannita coi propri contadini e discettava in greco coi membri del proprio ceto. Fosse stato di antica stirpe etrusca avrebbe anche parlato etrusco coi propri familiari.
A me sembra che ragionare in questo modo, senza l’assillo di una parificazione artificiale fra sardo e italiano, sia a un tempo più rispettoso della stessa molteplicità di identità della lingua sarda, più ricco culturalmente e anche più fruttuoso nell’attrezzarci tutti per i tempi che viviamo.
Mi sembra che le energie che si sprecano sulle questioni linguistiche potrebbero essere meglio impiegate nel pensare lo spazio del sardo in un tipo di sistema multilinguistico: è la lingua della campagna? La lingua degli affetti? La lingua della satira e dello scherzo? La lingua della poesia? Anche uno solo di questi risultati a me sembrerebbe sufficiente, e definire un obiettivo, culturale, non politico, del genere permetterebbe di uscire dalla finzione che col sardo si possa fare qualunque cosa e focalizzare meglio le risorse, anche economiche, che si spendono per la valorizzazione della lingua sarda: serve avere i cartelli stradali in sardo? Probabilmente si. Serve finanziare cartoni animati in sardo? Magari si, magari no. Serve premiare chi parla il sardo nei concorsi pubblici? Probabilmente no. Serve finanziare premi letterari in sardo? A certe condizioni. E così via.
Secondo me sarebbe un passo avanti.
il sardo serve primariamente per insultare: chiunque mastichi anche pochissimo il sardo si rivolgerà all’interlocutore da insultare quasi esclusivamente in sardo (e penserà anche in sardo gli improperi da lanciargli)
Hai abbastanza ragione anche in senso scientifico. Approfitto del tuo commento per segnalare una ricerca interessante che mi sono andato a cercare dopo alcuni commenti su Facebook. Si trova sulla Sardiian Digital Library a questo indirizzo e vi si trovano cose sorprendenti (occorre però non fermarsi ai primi numeri).
Carissimo Roberto,
tutto sommato la pensiamo allo stesso modo. Anch’io ritengo il sardo una ricchezza da un punto di vista culturale, inserito proprio nell’ambito di tutto un patrimonio di tradizioni da salvaguardare. Io il sardo, almeno la variante campidanese, lo parlo decentemente e capisco discretamente anche varianti parlate nel centro nord Sardegna (denuncio palesi difficolta’ col Gallurese e con il Sassarese, ma non si puo’ avere tutto dalla vita), ma proprio per questo condivido il concetto che volerlo cristallizzare in un unica parlata significa in realtà impoverirlo. Per non parlare dei problemi che avrebbe una lingua sarda codificata ad assere accettata, oltre che capita, dalle varie componenti isolane.
Pur con tutte le sue variante, tuttavia il sardo è una lingua che mi piace, e non solo per la variopinta potenzialità turpiloquiale, della quale talvolta non nego di aver fatto uso, ma anche per una certa lirica d’altri tempi che ha ancora un ché di “selvatico”, passami il termine. Purtroppo il binomio “lingua sarda – teorie più o meno indipendentiste” invece che agevolare un percorso culturale di tutela della lingua, ha sempre determinato l’attribuzione di etichette politiche che a tutto servono fuorché a valorizzarle o almeno salvaguardare la lingua sarda.
C’è chi si riempie la bocca di “lingua sarda nella pubblica amministrazione” per poi sedersi a tavola a mangiare un piatto di “pastasciutta cun su sugu”…roba che avrebbe fatto digrignare i denti ai miei nonni e che suscita in me reazioni simili a quelle dell’utilizzo (o mancato utilizzo) “creativo” che viene fatto del congiuntivo in italiano!
Se si riportasse la tutela della lingua sarda su un piano esclusivamente culturale privandola di certe connotazioni politiche, sono convinto anch’io che si potrebbero ottenere risultati più significativi.
Scusa per l’attacco di logorrea e complimenti per l’articolo.
So di andare fuori tema (non vogliamo fare una raccolta di espressioni infelici in sardo), ma la “pastasciutta cun su sugu” mi ha fatto venire in mente la seguente clip su Youtube: A sa moda campidanesa in cui verso 1:33 il primo improvvisatore dice “e unu filu logicu stenda”. Mio padre dopo questa frase non ha voluto sentire il resto …
Come dargli torto?
Ho una piccola esperienza dell’Austria, e sono rimasto estremamente sorpreso da quanto dialetto si parli. Un piccolo sommario delle cose che ho notato nei due posti austriaci che ho visitato (Linz e una piccola citta’ del Vorarlberg); ovviamente non pretendo di essere generale, soprattutto quando dico “mai”:
– si parla molto dialetto anche all’Universita’. Un professore universitario mi ha detto che lui parla tedesco solo quando fa lezione. Nel Vorarlberg all’Universita’ in mensa fra colleghi ho sentito parlare quasi solo dialetto.
– sono entrato in un ufficio pubblico e gli impiegati parlavano fra loro in dialetto
– non esistono segnali stradali bilingui (sono solo in tedesco), e per quanto ho capito fino ad adesso nessuno se ne preoccupa
– il dialetto non viene mai usato per le comunicazioni scritte; il nome con cui ho sentito le persone riferirsi al dialetto e’ “Mundart”, che traduco come “Varieta’ parlata”
– il dialetto di Linz e’ radicalmente diverso da quello del Vorarlberg, non ho sentito nessuno parlare di standardizzazione
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