Fumetti da non perdere (e no)
Una segnalazione su un’uscita in edicola imperdibile per tutti gli appassionati di fumetti e un paio di altri aggiornamenti. Ma andiamo con ordine:
Almanacco dell’Avventura Bonelli 2014
L’Almanacco è dedicato a due artisti scomparsi relativamente di recente: Sergio Toppi, uno dei più grandi illustratori, disegnatori e sceneggiatori italiani, e Decio Canzio, sceneggiatore di fumetti ma soprattutto per decenni direttore editoriale della Bonelli – sotto la sua certosina supervisione redazionale sono passate per anni e anni tutte le pubblicazioni della casa editrice.
L’ho preso principalmente perché l’Almanacco contiene tre storie inizialmente pubblicate nella famosa collana Un uomo, un’avventura: quelle dedicate alla rivolta del Mahdi (L’uomo del Nilo), alla rivoluzione messicana (L’uomo del Messico) e alla guerra fra USA e tribù Seminole (L’uomo delle paludi). I primi due sono disegnati da Toppi e sceneggiati da Canzio, che era l’ideatore della collana, il terzo è tutto di Toppi. Anche se sono storie inizialmente pubblicate in un formato molto più grande le magnifiche tavole di Toppi non soffrono oltre misura e la resa del colore è ottima: basterebbe questo a raccomandare l’acquisto.
Devo dire che mi piace anche molto l’impostazione dell’Almanacco così “monografica”: non ci sono cioè le solite rubriche sulle uscite dell’anno di libri, film e così via sull’argomento; in alcuni casi sono state segnalazioni utilissime, ma in altre occasioni sono cose un po’ meccaniche – tutto gettato in un unico contenitore – e perciò non sempre interessanti.
Gli articoli redazionali di questo Almanacco, invece, sono dedicati ad approfondire (affettuosamente) le figure di Toppi e Canzio e a gettare un po’ di luce sul ruolo che quest’ultimo ha avuto nella storia della casa editrice e perciò sostanzialmente del fumetto italiano: un ruolo magari noto agli appassionati ma meno al grande pubblico e quindi finalmente l’Almanacco rende a Canzio ciò che gli è dovuto. Anche la scelta di ricordarlo attraverso le storie scritte per Toppi è indovinata: sono stato molto stupito di notare che le sceneggiature – avevo sempre considerato Canzio uno scrittore piuttosto tradizionalista – non sono per niente datate. O meglio: sono evidenti le influenze del periodo (un certo stile Corriere dei ragazzi), ma sono non solo tuttora molto godibili ma anche molto efficaci se confrontate con quelle di sceneggiatori recenti considerati più “avanzati”.
Sarà anche merito di Toppi e del suo modo di sfracassare la “gabbia” bonelliana di tre file di tre vignette, ma non è solo questo. Mi pare che sia importante l’approccio di Canzio (e ugualmente di Toppi nel caso de L’uomo delle paludi) nel trattare periodi storici notissimi e moooolto battuti dai narratori: uno stile asciutto e oggettivo, nessun compiacimento, nessun intento “didattico” (è appunto la lezione del Corriere dei ragazzi, credo, che educava senza darsi arie), nessun citazionismo fine a se stesso: in L’uomo del Messico il classico topos dell’americano inviato a uccidere Zapata è trattato senza nessun compiacimento e non è il centro della storia, piuttosto un elemento accessorio.
E parlando di citazionismo…
Orfani di Roberto Recchioni
Tradizionalmente la Bonelli, si sa, pubblica in bianco e nero. Il colore è riservato ai classici “numeri 100” (e successivi: 200, 300…) e a pochi altre occasioni speciali. Poi ci sono le ristampe di Repubblica, ma quella è un’altra storia: la filosofia della casa editrice è sempre stata legata al bianco e nero, al contrario per dire dei fumetti supereroistici americani o della scuola franco-belga.
Orfani è invece una nuova serie mensile che parte fin dal principio con lo scopo di sfruttare il colore, ed è perciò una piccola rivoluzione nel mondo del fumetto italiano. “Sfruttare il colore” vuol dire, ovviamente, non fare delle tavole come si farebbero in bianco e nero e poi colorarle ma cambiare del tutto l’impostazione, avendo a che fare con un mezzo espressivo del tutto diverso. Sotto questo punto di vista Orfani è molto interessante e il lavoro di sceneggiatura di Recchioni (ormai un autore affermato dopo John Doe e la presa in carico di Dylan Dog), per quel che ne posso capire io, molto buono, anche se la contemporaneità di lettura rende il confronto con Toppi impietoso: alla fine il colore ha qui ancora quasi sempre uno scopo didascalico, di commento alla storia, mentre lì è mezzo narrativo principale.
Sul piano della trama, invece, Orfani ha parecchi problemi in più, anche considerando che è un numero 1 e che perciò deve scontare il problema di introdurre la storia e i personaggi. Dal punto di vista della scorrevolezza niente da dire, anche se il gruppo dei ragazzini attorno a cui ruota la storia è troppo numeroso e troppo poco caratterizzato per ricordarsi da subito chi è chi e cosa fa: ma questo è appunto il numero 1 e ci sarà tempo per presentare in profondità tutti i vari personaggi – o almeno per caratterizzarli individualmente – e d’altra parte questa confusione è controbilanciata dall’interesse di avere a disposizione un cast vasto che potenzialmente può dare origine a un fumetto corale come se ne sono visti raramente in Italia.
Il problema non è nemmeno che la storia abbia abbastanza buchi nella coerenza interna che ci passerebbe comodamente un raggio sonico vasto come le porte di Tannhäuser: alcune incongruenze potrebbero trovare una spiegazione logica nel seguito e sciogliersi da sole, e per il resto Recchioni è probabilmente in grado di mettere in campo abbastanza adrenalina da distrarre a sufficienza il lettore; per esempio la battaglia finale non ha capo né coda da un punto di vista tattico, ma colpo di scena dopo sorpresa il lettore (quasi) non lo nota.
Ho molti più dubbi, invece, su una certa impostazione supereroistica che mi pare di intravedere, e che mi ricorda certi tentativi di Serra su Nathan Never, andati peraltro malissimo. Recchioni è credo un autore di tutt’altro calibro, ma è questo genere di storie che per quel che ne capisco non funziona e tende a richiedere obbligatoriamente l’uso di scorciatoie narrative di basso livello per sopravvivere. Staremo a vedere.
Quel che invece mi pare già chiaro, e che francamente non apprezzo, è il citazionismo sparso a larghe mani. Sto seguendo diversi autori Bonelli su Facebook e quindi sono su questo un po’ meno reciso di quanto sarei stato altrimenti, nel senso che ho letto da poco Moreno Burattini (l’autore di Zagor) raccontare divertito di quanti hanno creduto di individuare con sicurezza nelle sue storie la citazione di questo o quel libro, che lui non aveva mai letto. Può essere anche in questo caso, e forse ha ragione Gianfranco Manfredi che contrappone il citazionismo grafico, per immagini, di Orfani al didascalismo di certe cose di altri autori Bonelli, soprattutto quelli del genere della reinterpretazione storica (anche in rapporto a questi Canzio mi è sembrato modernissimo).
Può essere: però si potrebbe tranquillamente raccontare la trama del primo numero di Orfani dicendo che inizia come Il gioco di Ender finché compare l’orso di Barbara, poi si attacca un pianeta come in Fanteria dello spazio e infine arrivano gli X-Men. Il fatto è che leggendo Orfani ho pensato che gli anni ’90 sono finiti da un pezzo e non è più questione di dividersi fra quelli che copiano pedissequamente e quelli che sanno gestire con abilità l’assemblaggio di materiali narrativi già visti più e più volte: ormai il citazionismo sa di stantio, non diverte più e basta, anche se fatto con abilità – non diverte neppure più in Tarantino, per dire. Forse gli autori di fumetti italiani dovrebbero fare in questo senso un passo avanti e lasciarselo alle spalle del tutto: e spero che Recchioni, che della capacità di interpretare e reinterpretare mille volte la cultura pop ha fatto una cifra stilistica, non pensi a Orfani in questo senso.
Spero, ma non lo credo fino in fondo: prenderò comunque i prossimi numeri perché sono intrigato e anche per le splendide copertine di Massimo Carnevale.
E parlando di copertine…
Dragonero numero 5, Il raduno degli scout
Introdotto da una bellissima copertina molto evocativa di Giuseppe Matteoni il numero 5 di Dragonero mi ha quasi convinto (quasi) a smettere di comprare la serie.
Magari gli darò un’altra possibilità, ma certo dopo averlo letto mi sono sentito truffato dei miei soldi: per tutto l’albo non succede niente. Non poco, proprio niente: un indecoroso allungare il brodo nel più classico degli albi riempitivi, destinato a fare da collegamento fra due cicli narrativi e, già che ci siamo, utilizzato per presentare, nella maniera più barbosa, didascalica e verbosa possibile, una serie di comprimari, nonché a mettere in campo un paio di oscure profezie destinate a titillare la curiosità dei lettori.
Per qualcuno funziona, magari: ho dato un’occhiata a un paio di siti per appassionati e vedo commenti ovunque positivi. Sarà. Io l’ho trovato… indecoroso, appunto, e non mi vengono altre parole: quando l’ho finito non volevo crederci. Che poi: almeno i comprimari presentati o le situazioni esposte fossero state interessanti. Non si chiede l’azione a tutti i costi, ma un centro narrativo e degli elementi di interesse che invitino a continuare a leggere almeno si: per dire, il famoso raduno degli scout non ha mai un momento retorico, di commozione, o ironico. Però c’è una fase a metà fra una riunione di condominio e l’assemblea sindacale (non scherzo) ed è noto che chiunque compra fumetti sulle assemblee sindacali e le riunioni di condominio, è ovvio.
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