Avvisi agli scettici di Hunger Games
Non ho ancora letto la trilogia degli Hunger Games, ho solo visto i film: ho da qualche parte gli e-book ma sono in coda per dopo che finisco la Gerusalemme liberata (che salto!) e magari qualche altra cosa.
Quindi non sono in grado di giudicare della qualità letteraria e della capacità di scrittura della Suzanne Collins, che temo sia abbastanza standard. Però ho visto i film e credo di essermi fatto un’idea sufficientemente precisa delle sue capacità di narratrice e di costruttrice di mondi, che è una cosa un po’ diversa ma che alla fine nella letteratura di genere determina spesso il successo di una serie quanto e più della qualità della scrittura.
Facendo seguito a una discussione dell’altra sera a cena (tutti i presenti sul versante adulto, e nessuno lettore di fantasy) avrei un paio di cose veloci da appuntare qui su Hunger Games e, in parte, anche su altri successi simili come Twilight e Harry Potter (e in generale sul genere a cavallo fra young adult e urban fantasy). Sono magari dei pensieri un po’ sparsi e disordinati, nell’attesa di una elaborazione migliore. Penso però che possano essere interessanti sia per i lettori “esperti” (che magari trovano di solito questo sottogenere un po’ “leggerino”) che per tutti quegli adulti che vedono le figlie girare per casa perse dietro l’ultima avventura di Katniss Everdeen.
E sono pensieri sparsi su cui mi piacerebbe avere un ritorno e dei pareri, in memoria di quelle belle discussioni su it.arti.fantasy.
Una sintesi di quel che vorrei dire in due parole? Fate male a diffidare. Per la versione lunga andate sotto.
Perché non si deve prendere sotto gamba Hunger Games
- Perché i mattoni con cui edifica la sua costruzione sono solidi, solidissimi. Twilight aveva la struttura archetipica della fiaba: l’ingresso nell’età adulta (e l’abbandono del nido familiare) attraverso il primo amore, da portare al successo contro tutto e contro tutti; e anche come svolgimento incrociava pezzi da novanta come La bella e la bestia e Orgoglio e pregiudizio, dandosi la possibilità di richiamare alla mente di qualunque lettore tutta una serie di riferimenti più o meno taciti e costruire così un patto narrativo molto coinvolgente. Hunger Games prende a prestito degli altri bei mattoni fondativi del genere fantastico e fantascientifico: la leggenda dei giovani ateniesi da mandare in pasto al Minotauro, i giochi nell’arena (con tutte le loro varie attualizzazioni, dall’arena dei gladiatori romani a Caccia fatale) e li incrocia con il tema dell’intrattenimento televisivo e i reality (anche qui, ci sono fior di precedenti: da Rollerball a L’implacabile – che era tratto da Stephen King, mica da un cretino qualunque): in ogni caso i giochi gladiatori hanno bisogno del pubblico, per definizione, e servono a intrattenere le masse, quindi la Collins svolge il suo tema in maniera del tutto corretta. Per il resto della narrazione va a pescare altri elementi che sono presenti nell’inconscio (o nelle periferia della consapevolezza) dei suoi lettori: il rischio di involuzione dittatoriale della società, le sperequazioni economiche Nord-Sud, la paura della povertà per masse crescenti di popolazione del Nord, la sensazione che la tecnologia non sia del tutto al nostro servizio, la diffidenza mista a fascinazione per il mondo luccicante ma grottesco della moda.
Anche le protagoniste sono costruite in maniera archetipica: Katniss è una Diana cacciatrice, Bella è Cenerentola. Hermione, in Harry Potter, è madre e sorella: sa tutto, cura e consola (non elenco tutti gli altri archetipi di Harry Potter, se no facciamo notte). Insomma, potete anche pensare che siano romanzetti, ma il materiale che è stato assemblato è narrativamente potente, potentissimo.
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Tutto questi po’ po’ di potenza è messa al servizio di un obiettivo che, ehm, forse i genitori non troveranno del tutto rassicurante: costruire una cornice narrativa che aiuti le ragazze a perdere la verginità in maniera consapevole e rassicurante. Che poi, pensandoci, anche i fantasy che leggevamo noi in fondo giravano dietro a quel sentimento: solo che lo facevano in maniera più indiretta, che uno si doveva radunare il party, sorbire la quest, andare in terre lontane, farsi tradire dal migliore amico, essere mezzo ammazzato nello scontro con il cattivone e, alla fine, una volta riconosciuto come il Principe Perduto Che in Realtà Ha Davvero Diritto a Regnare, solo alla fine gli davano la principessa. Qui le cose sono più dirette, diciamo, e se pensate che questo tema possa non toccare in maniera viscerale (pun intended) le lettrici – e i lettori – vuol dire che avete passato i vent’anni da un po’.
- Contrariamente a quel che si può pensare, non è per niente facile mettere insieme un buon libro pescando a piene mani da archetipi consolidati. La controprova è che se fosse facile milioni di scribacchini che tentano di arrivare velocemente al successo sfornando decine di libri assemblati come prefabbricati sarebbero tutti ricchi e famosi. Invece, come scoprono spesso a loro spese – ci sono tra l’altro parecchi presunti scrittori di genere italiani, nella categoria – le cose non funzionano così. Per emergere serve talento, e la Collins, la Rowlings, la Meyer o la Clare (quella di Shadowhunters) ce l’hanno. Parlo di talento, non di maestria: perché si può benissimo perderlo, il talento, o non riuscire a replicare il momento di grazia: la Rowlings, per esempio, dopo Harry Potter si è rivelata una scrittrice normale (secondo me anche durante, in realtà: la saga è andata in calando). Ma tutte queste saghe contengono, al loro interno, un po’ di imponderabile genio creativo.
- E quindi stiamo parlando di storie costruite con materiali narrativi ultrapotenti, che parlano alla dimensione più intima dei lettori e sono scritte da autrici di talento. C’è da stupirsi che non vendano più copie (tra parentesi: se rileggete sopra, capite perché Ender, che è un bel libro, al cinema non ha sfondato e non diventerà il prossimo idolo degli adolescenti, nonostante la solidità dei materiali narrativi e il talento dello scrittore: perché l’adattamento ha tagliato tutte quelle dimensioni che avrebbero consentito l’identificazione del pubblico giovanile e anche quelle che avrebbero interessato il pubblico più adulto; la produzione ha fatto lo stesso errore degli scribacchini: ha creduto che bastasse un protagonista belloccio per attrarre il pubblico – ma non funziona così).
- Aggiungo un’altra cosa. È un po’ in sottofondo in Shadowhunters, ma sia in Twilight che in Hunger Games (ed è evidentissimo nel finale di Harry Potter) c’è un altro tema che non è proprio da quattro soldi, ed è quello del sacrificio di sé fino alla morte: Bella si consegna al vampiro cattivo per salvare la madre, Katniss agli Hunger Games per salvare la sorella, Harry a Voldemort per salvare il mondo. Che cosa voglia dire in termini (sto per usare una parola difficile) antropologici o esistenziali non lo so bene, anche perché mi pare un’innovazione rispetto ai canoni del genere, però lo segnalo perché è questo che risuona nella testa delle ragazze che leggono e che evidentemente lo trovano consonante con i loro pensieri: che c’è bisogno per loro di morire per raggiungere il loro obiettivo (perché gli adulti non sono più capaci? Chissà).
- Un’altra cosa sul filone sociologico o antropologico. Nei libri fantasy degli anni ’80 o ’90, che erano diretti a un pubblico di adolescenti maschi, il tema del gruppo dei pari era molto evidente. Talvolta era il party destinato ad accompagnare l’eroe, talvolta c’era una ambientazione militaresca, come nel ciclo della Legione di Turtledove, o in molto Gemmell o, in maniera esemplare, in Ender. C’era molto spazio per temi correlati: il cameratismo o la competizione in un gruppo di pari, l’amicizia virile e così via. Anche la Rowlings, che non a caso non ha un pubblico femminile in testa, rimane su questa linea. Invece alle protagoniste di Twilight, Shadowhunters o Hunger Games il gruppo delle amiche manca quasi del tutto. C’è un surplus di figure paterne, attuali o potenziali, una marea di possibili partner sessuali, diversi compagni di avventura, ma il gruppo delle pari non c’è: quando ci sono figure femminili sono madri o sorelle, spesso inermi, oppure compagne di lotta (le vampire di Twilight, le altre cacciatrici di Shadowhunters) che all’atto pratico è come se fossero maschi: non c’è quasi nessuna distinzione, non sono modelli di riferimento. Oppure ci sono delle nemiche, che sono delle stronze. Anche qui, non so bene cosa voglia dire. Ok, possiamo pensare al complesso di Elettra – tutti questi padri rispetto ai quali definirsi – oppure al fatto che nell’orizzonte della ragazza che matura il possibile compagno sessuale sia l’elemento decisivo, ma secondo me c’è qualcosa di più e segnalerei alle mie amiche femministe questa eclissi della sorellanza dall’orizzonte mentale delle giovanissime. Anzi, se fossi una pensatrice femminista a tutte queste cose butterei un occhio, così per non saper né leggere né scrivere (magari, evitando di controllare come questi modelli femminili si distacchino da ciò che si pensa sia giusto, per concentrasi su quali modelli siano).
- Sono libri o saghe legate a un impoverimento dell’immaginario? Si, probabilmente. Soprattutto in Twilight e in Shadowhunters è evidente (Harry Potter fa un lavoro diverso, di recupero di un diverso codice di riferimento fantastico). Però Hunger Games invece costruisce un immaginario proprio e tutto sommato abbastanza innovativo (non so se l’onnipresente treno dei film è farina del sacco della Collins, però è interessante). E comunque a occhio l’impoverimento del canone non è opera tanto di questa generazione di scrittori, quanto di un passaggio precedente a opera dei compilatori di una serie di riferimenti pop dei tardi anni ’90, dai videogames ai giochi di ruolo.
- Infine, ieri mentre finivo di tradurre l’intervista a Jennifer Lawrence sono rimasto colpito dalla perfetta aderenza della sua vicenda personale ai tratti caratterizzanti del suo personaggio, quelli che colpiscono maggiormente il pubblico. Vale in parte per le altre icone del genere. Voglio dire: qual è l’elemento saliente di Twilight? È una storia di coppia. Che cosa ha fatto presa presso il grande pubblico della vita privata di Kirsten Stewart e Robert Pattison? Che erano una coppia. Una ragazza normale, decisa e determinata e di enorme talento, che si fa largo nel mondo spietato dello star system. È una definizione che si attaglia tanto a Jennifer Lawrence quanto al personaggio che interpreta. Una sofisticata linea di comunicazione delle major? Può essere, naturalmente. Anzi, sarà così di sicuro. Ma secondo me c’è qualcosa di più: la realtà stessa è narrativa, e qui si dispone secondo linee troppo perfette: così perfette da segnalare un bisogno forte di identificazione, o un mood sociale. Anche per questo, diciamo, io Hunger Games (e i suoi fratelli) non li prenderei sotto gamba.
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