Solo posti in piedi al MAMbo di Bologna
Dei vantaggi comparati di diverse città
Uno dei vantaggi meno noti che una città come Bologna ha nei confronti di altri centri urbani più sfortunati è il fatto che, essendo la sigla della provincia una bella sillaba piena e roBOante, si presta bene a essere inserita in tutta una serie di acronimi: per esempio il progetto di microcredito di Bologna si chiama Micro-bo, per dire.
Naturalmente non è un vantaggio assoluto: per esempio qui a Cagliari la sigla dell’Università è UniCa (ed è appropriato: in effetti non ce n’è un’altra, di università come la nostra – solo che la cosa può essere interpretata in diversi modi), il Festival della musica che si svolge fra Milano e Torino si chiama MiTo (se si fosse svolto fra Torino e Palermo, per esempio, sarebbe stato senz’altro meno – o forse più – suggestivo) e così via. E anche a Bologna farebbero bene a non utilizzare il metodo in tutte le occasioni, dato che non mi sembrerebbe consigliabile chiamare il punto di riferimento turistico TuBo, per esempio (lascio alla vostra fantasia malata i possibili significati di termini come incubo, improbo, reprobo, lavabo, flebo, gazebo e placebo. Va detto che fra le parole che si applicherebbero a Cagliari ci sono amaca, cloaca, cardiaca, sismica, bellica, collerica e sambuca).
Quello che lo zio Rufus fa dopo le riunioni
Tutta questa lunga introduzione serve per spiegare un dialogo surreale che ho avuto ieri con un barista. A Bologna.
Il fatto è che quando terminano le riunioni di Banca Etica tutti se ne vanno a prendere il treno e nel giro al massimo di un’ora sono in viaggio verso casa. Io, che sono l’unico che vive oltre il mare e prendo sempre aerei a notte fonda, rimango.
Per diverso tempo sono andato direttamente all’aeroporto, ma ultimamente mi sono convinto che gli aeroporti sono luoghi malsani, dove ci si abbruttisce fra negozi improponibili, luci al neon e mondi di plastica, e ho deciso di passarci meno tempo possibile. Quindi giro la città in cui mi trovo, o vado in un museo. A Roma, come ho già raccontato, spesso giro per librerie.
Una delle ultime volte a Bologna ero andato a rivedere la chiesa di Santo Stefano, un posto a cui sono molto affezionato. Ieri mia sorella mi aveva avvisato che a Bologna c’era una mostra di Vermeer, e quindi ci avevo fatto da subito un pensierino.
L’unico problema era che non avevo la minima idea di quale museo ospitasse la mostra. L’indicazione del mio amico Alberto Arca: «Sarà in quel museo là, sotto i portici» mi sembrava, diciamo così, un tantino generica, considerato che Bologna ha la maggiore estensione di portici d’Europa.
Così esco dalla riunione, entro in un bar, chiedo un caffè e, al momento di pagare, dico: «Forse mi può dare un’informazione. Sono di passaggio a Bologna e mi hanno detto che in questo periodo c’è Vermeer. Sa mica dov’è?».
E il barista mi fa: «Davvero non saprei. Però se è di passaggio a Bologna qui vicino c’è il mambo. Può vedere Morandi».
Mambo. Uhm. E io penso: che gli devo dire? Cosa penserà, che Vermeer è un ballerino uruguagio? E sono così vecchio all’aspetto che mi consiglia Morandi?! Alla prossima cosa sarà: la balera?
Invece c’aveva ragione, c’aveva. Perché il MAMbo sarebbe il Museo d’Arte Moderna di Bologna. E Morandi ovviamente era Giorgio, non Gianni. E la mostra di Vermeer, oltretutto, apre il mese prossimo.
Visita al MAMbo
E quindi in fondo a via Amendola vado a sinistra in via don Minzoni (sotto i portici, guarda un po’) e mi ritrovo al MAMbo.
La prima sorpresa è che al momento c’è anche una mostra temporanea. È esposta una selezione della collezione d’arte di Unicredit, il che è un po’ bizzarro, dopo aver passato la giornata a fare cose per la finanza etica. E un po’ mentre giro per la collezione – bellissima e meravigliosamente varia, con la commistione fra acquisizioni di chissà quando e recentissime, arte concettuale, grafici del XXI secolo e pittori barocchi tutti messi insieme (e con un allestimento del tutto pretestuoso, sulla magia, tzé) – misuro fisicamente una cosa che qualche volta ho sentito dire, in Banca Etica.
Che sarebbe questa: negli ultimi anni abbiamo avuto percentuali di crescita mostruose, in certi settori anche superiori al venti per cento. Eppure se anche supponessimo di mantenere queste percentuali – il che sarebbe impensabile – e le proiettassimo nel futuro, per raggiungere le dimensioni di Unicredit dovremmo mantenerle per settanta anni. Settanta.
E mentre ammiro un Klimt (e che Klimt: bellissimo) o un De Chirico (mi pare di ricordare, comunque era orrendo, che Dio mi perdoni) mi chiedo: «Quanti anni ci vorrebbero perché noi si abbia un Klimt esposto nella sede principale di Banca Etica?». Probabilmente più di settanta. Poi penso alla collezione di foto di Letizia Battaglia e mi dico che forse non è proprio così, e che la bellezza segue comunque le buone opere. O spero.
Il quadro più bello, secondo me, non era nemmeno Le ninfe di Klimt, ma Il lamento dell’ora di Jean Baptiste Greuze, un pittore di cui non avevo mai sentito parlare (lo ammetto) ma che ho trovato di una impressionante forza espressiva.
Nel museo vero e proprio ho la terza sorpresa della serata. Perché a fianco al Funerale di Togliatti di Guttuso (datato, oh quanto datato, ma anche questo quanto a potenza non scherza per nulla) ci sono due tappeti sardi di Roberto Sebastian Matta. Strano come si reincontri la Sardegna, ogni tanto, sulla testa di Unicredit e a fianco a Guttuso.
Inquietudine
La collezione Morandi vera e propria è ovviamente bellissima e io me la godo in totale solitudine: sono praticamente l’unico visitatore.
Man mano però il piacere dei colori, di quelle meravigliose nature morte – e soprattutto dei paesaggi, anche se immagino che andrò controcorrente, qui – è turbato da una strana sensazione. Perché non sono proprio solo: ovviamente c’è il personale di servizio, i custodi e le custodi, praticamente uno per ogni sala. I quali, essendoci solo io, ovviamente non hanno granché da fare. E, altrettanto ovviamente, stanno seduti. Ma deve esistere una qualche regola di servizio del MAMbo che prevede che all’approssimarsi del visitatore ci si alzi in piedi. E quindi io entro e quelli si alzano, poveretti. Esco e si risiedono. Torno nella sala perché mi è venuto un dubbio e voglio confrontare un quadro e subito si rialzano. Sbaglio sala e rientro dove sono già stato e scattano in piedi. Pian piano diventa angosciante: mi sento come Case nell’albergo di Istanbul in Neuromante:
Si frugò in una tasca piena di lire turche, infilando una dopo l’altra le monete piccole e opache, vagamente divertito dall’anacronismo di quella procedura. Il telefono più vicino a lui squillò.
Per puro riflesso automatico sollevò il ricevitore.
— Sì?
Un suono vagamente modulato, minuscole voci quasi impercettibili accavallate in un qualche collegamento orbitale, e poi un fruscio simile al vento.
— Ciao, Case.
Una moneta da cinquanta lire turche gli cadde di mano, rimbalzò e rotolò lontano attraverso la moquette dell’Hilton.
— Invernomuto, Case. È ora di fare quattro chiacchiere.
Era la voce di un chip.
— Non vuoi parlare, Case?
Riappese.
Mentre tornava nell’atrio dell’albergo senza aver comprato le sigarette, Case fu costretto a ripercorrere per tutta la lunghezza il corridoio con la fila di telefoni. Uno dopo l’altro, squillarono tutti al suo passaggio.
Attorniato da nature morte percorro corridoi deserti. Al mio passaggio i custodi fanno la ola.
Visto che a Bologna il museo è sotto ai portici? confesso non sapevo che si chiamasse mambo