Augusto De Angelis, il commissario De Vincenzi e il mettersi nei guai per scrivere gialli
Ho deciso di fare una puntata sul commissario De Vincenzi principalmente perché da ragazzino avevo visto gli sceneggiati televisivi con Paolo Stoppa.
Per prepararmi mi sono letto i due gialli di De Angelis che stavano a casa di mia mamma, La barchetta di cristallo e Delitto a Cinecittà, e ho leggiucchiato una ulteriore raccolta su cui ho messo le mani. Ma al momento di andare in onda ero ancora a metà lettura e, non fidandomi troppo delle impressioni, ho preferito concentrarmi sul tema della letteratura gialla sotto il fascismo, che mi sembrava comunque interessante, e evitare di dire potenziali fesserie legate a una lettura incompleta, considerato che in questa stagione qualche imprecisione di troppo c’è già stata.
A lettura terminata posso dire che credo che il focus della puntata fosse corretto: è evidente che i gialli di De Angelis hanno il segno di una letteratura criminale nazionale allo stato nascente, che cerca faticosamente linguaggi e tematiche propri e lo fa in un contesto reso particolarmente ostile dalle pressioni della censura: quindi per parlare dei suoi libri era opportuno parlare del contesto in cui nascevano e del valore “fondativo” che hanno nei confronti del genere (fermo restando che De Angelis non era l’unico che scriveva gialli in quel momento in Italia).
Sotto questo punto di vista ho trovato La barchetta di cristallo certamente più grezzo, con la sua impostazione teatrale (ci sono addirittura i dialoghi interiori dei personaggi resi con degli “a parte” in corsivo) e il suo debito evidente nei confronti della letteratura sensazionalistica – contesse, misteri cinesi, fumatori d’oppio all’ombra della Madonnina – ma più interessante nel suo sperimentalismo de Il mistero di Cinecittà, che è molto più polito ma anche meno interessante come giallo e soffre dei limiti fissati dal regime: anche considerando che siamo a Cinecittà e che ci vengono proposti attori e registi di ogni parte del mondo la quantità di personaggi stranieri – uno dei quali deve essere per forza il colpevole – è davvero esorbitante. Entrambi, d’altra parte, e anche gli altri due gialli della raccolta, sono veramente imperfetti: la trama scricchiola, l’estetismo delle descrizioni prende la mano al racconto, l’enigma è fallace, le soluzioni del giallo del tutto arzigogolate…
Ma anche se costituiscono solo un primo abbozzo di una via italiana al giallo le storie di De Vincenzi rappresentano una operazione interessante, soprattutto perché sono evidenti dei legami con altri movimenti culturali nazionali: ci sono delle pagine de La barchetta di cristallo, per esempio, che possono essere state scritte solo nello stesso paese in cui negli stessi anni si leggevano D’Annunzio o Marinetti (o, probabilmente, Sem Benelli); c’è una frenesia malata che, senza stare tanto a cercare metafore, pure è di un paese tenuto artificialmente sotto adrenalina da Mussolini; c’è una evocazione di un marciume dietro l’imbiancatura dei sepolcri che, anche questa, è troppo suggestiva di una rovina imminente per non essere colta.
Questa cifra personale di De Angelis rende vani – e forse direttamente pretestuosi – i confronti con Maigret e Philo Vance su cui anche in trasmissione ho espresso le mie riserve. Fra Simenon e De Angelis c’è un abisso: non solo per le ambientazioni che ciascuno propone, e che sono comunque totalmente differenti, ma anche per l’approccio ai moti dell’animo dei personaggi, che in De Angelis non è “psicologica” o psicanalitica come talvolta viene suggerito, ma puramente sentimentale, di un sentimentalismo oltrettuto a tinte forti, sovraeccitato – laddove Maigret si muove in un mondo di sfumature (anche fisiche: le nebbie…). E la scrittura di Simenon rivela una comprensione molto più matura del genere, una rotta più precisa senza esitazioni o commistioni fra impostazioni diverse.
Per quello che conosco di Philo Vance anche questo paragone mi pare improprio: perché per quanto possano muoversi entrambi nei saloni dell’alta società De Vincenzi rimane prima di tutto uno sbirro e De Angelis ha cura di far emergere, dentro i contesti fantasiosi in cui ambienta le sue vicende, una “durezza” della realtà, l’abiezione di certi ambienti, che non mi pare avere niente in comune con le storie del dandy statunitense.
Se proprio devo indicare un paragone quello più appropriato a me pare quello con Il pasticciaccio, ed è un paragone che, obiettivamente, torna a svantaggio di De Angelis: perché il percorso verso il realismo assoluto condotto da Gadda appare così tanto più compiuto e importante di quello di De Angelis, anche facendo la tara delle mutate condizioni politiche.
Già, il realismo. Che è alla fine l’elemento più importante da considerare in questi romanzi e che era la considerazione che volevo fare in conclusione della puntata, se non mi fosse finito il tempo. È un po’ la risposta alla domanda: «Ma perché mettersi nei guai scrivendo romanzi gialli, quando si poteva forse confortevolmente sbarcare il lunario con le biografie della Garbo o di Maria Antonietta?».
La risposta sta forse in una cosa che ho pensato da poco dopo aver finito di leggere Traditori di tutti, un romanzo di Scerbanenco (che cominciò a scrivere gialli più o meno alla stessa epoca di De Angelis) con protagonista Duca Lamberti. Ora: l’intreccio di Traditori di tutti non è di quelli che si possano definire indimenticabili, né il tratteggio dei personaggi. E d’altra parte Duca Lamberti (e la voce narrante di Scerbanenco dietro di lui) ha, almeno al mio orecchio, un qualcosa di sgradevole. Lamberti è un investigatore privato come gli eroi dell’hard-boiled: ma se Marlowe o Sam Spade hanno una loro morale, Lamberti è un moralista. Le sue tirate contro l’inefficienza della legge, sull’esiguità delle pene faticano a esprimere una vera indignazione etica, sembrano preludere piuttosto a rigurgiti autoritari: uno si può immaginare Lamberti anziano, sulla panchina, che dice agli altri vecchietti: «Eh, caro lei, quando c’era lui…», ma nessuno potrebbe immaginare Marlowe nella stessa situazione (o, Dio mi perdoni, un qualunque personaggio di Hammett). Eppure Traditori di tutti ha una sua qualità: quale sarà mai, mi sono chiesto. E mi sono detto che è lo sforzo realistico, o meglio il tentativo di dire una parola, a prescindere da quale essa sia, sulla società italiana contemporanea all’autore, quella lì, quella vera, non una qualunque società fittizia. La parola detta può non piacere, ma lo sforzo e la sincerità dell’autore non può essere messa in dubbio.
Per De Angelis è lo stesso, e per quanto paludate e artificiali le sue storie esprimono lo stesso sforzo e la stessa sincerità di fondo. E sono convinto che, alla fin fine, sia stato per questo che De Angelis si è imbarcato nel difficile compito di scrivere gialli: perché li sentiva come un mezzo espressivo popolare che gli consentiva di dire cose “vere” che altrimenti non avrebbe potuto proporre al pubblico.
La musica della puntata
Durante la trasmissione abbiamo mandato in onda Maramao perché sei morto. In realtà però per la puntata avevo scelto un altro brano, meno direttamente legato all’epoca ma che a me piace molto e che faceva un po’ da contrappunto ironico al periodo, Oops I did it again della Palast Orchester.
Poi abbiamo avuto alcune difficoltà a mandarlo in onda e abbiamo ripiegato sul più classico Maramao, ma qui posso recuperare Max Raabe e il suo gruppo e ve li propongo.
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