Determinanti
Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa ASCA, il Presidente dell’Azione Cattolica, Franco Miano, commentando i risultati del referendum ha dichiarato che
i cattolici sono stati determinanti.
Ho l’impressione che la frase, per quanto riportata con più o meno evidenza su tutti gli organi di stampa, non fosse particolarmente centrale nel ragionamento di Miano, così come l’altra affermazione, anch’essa ripresa da più parti, che
un voto del genere ha un significato anche politico
non a caso nella nota semi-ufficiale sul sito nazionale queste due affermazioni non si ritrovano, sostituite da riferimenti più generali, tra cui:
i cattolici in Italia hanno e possono avere sempre più un ruolo significativo proprio nella capacità di far crescere la coscienza comune; nello spirito proprio dell’insegnamento sociale della Chiesa, attento alla crescita di ciascuno e del bene comune.
Aldilà dei sofismi, comunque, è evidente che lo smottamento del sistema politico di questo periodo è stato anche determinato dallo spostarsi di larghi strati dell’elettorato cattolico, e dal cambiare di atteggiamento anche della Chiesa nella sua rappresentanza istituzionale, e quindi alla fin fine: si, i cattolici sono stati determinanti.
La domanda però che la comunità ecclesiale si dovrebbe porre, e al suo interno l’Azione Cattolica, è: determinanti per che cosa?
Ci sono stati altri periodi nella storia d’Italia in cui il risvegliarsi del protagonismo cattolico in campo politico e sociale è stato accompagnato da una robusta elaborazione teorica, da una capacità di immaginare e disegnare una società futura. Il caso che sempre si cita è il Codice di Camaldoli, ma non è l’unico, né prima né dopo.
Mi sembra che mentre in altri contesti, a sinistra come a destra, la formazione di nuovi gruppi dirigenti, talvolta composti anche di giovani e giovanissimi, è accompagnata da un robusto lavoro culturale, la comunità ecclesiale sia invece in ritardo; e se non c’è elaborazione culturale, capacità di immaginare scenari futuri, sogni di una città dell’uomo rinnovata, i cattolici saranno forse determinanti masse di manovra per singole battaglie elettorali, ma non potranno certo informare di sé l’Italia dei prossimi anni, con buona pace del Progetto Culturale.
Anche nel nostro contesto locale, suscita rimpianto il fatto che si sia dilapidato il capitale della Scuola di Fede e di Coscienza Politica cresciuta attorno a don Vasco Paradisi; d’altra parte, la stagione delle scuole di formazione politica si è estinta ovunque in Italia durante gli anni ’90. Non è una buona ragione perché l’AC diocesana non possa immaginare di farsi carico, magari con altri, di cominciare a gettare un seme per una nuova ripartenza. Anche altrove piano piano le organizzazioni ecclesiali cominciano a muoversi in questo senso, con iniziative talvolta molto interessanti.
Sarebbe a mio parere una scelta più produttiva di quella degli Osservatori della Realtà riproposti dal Settore adulti anche per il prossimo anno, attività che sinora si è caratterizzata per la mancanza di prospettiva: non basta infatti porsi a osservare la realtà se non si è stabilito preventivamente cosa si sta cercando: il prezzo da pagare è la sensazione che ho vissuto a tutti gli incontri dell’Osservatorio a cui ho assistito, che alla fin fine fosse vera qualunque opinione e il suo contrario. Per non parlare della necessità di evitare di finire a proporre le stesse attività che, con ben altri mezzi, propone il MEIC.
Un’attività come quella di Calascio che ho segnalato poco sopra, a volerla fare, magari ridotta, magari non residenziale, non è fuori della portata dell’Associazione diocesana, e, accoppiata a una rete di attività seminariali come quella di cui abbiamo parlato tempo fa, sarebbe un interessante obiettivo triennale per il costituendo laboratorio della formazione.
La vera difficoltà, temo, non è di ordine tecnico, ma di volontà, come indica la sostanziale inattività della Presidenza e del Consiglio diocesano in occasione dei referendum: nessuno chiede all’AC di scendere in campo, ma di percepire il momento del Paese e di essere capaci di dire una parola di senso, anche pubblicamente, questo si. Se non si è sentita la necessità di farlo, forse vuol dire che la prospettiva associativa è troppo rivolta all’interno. Purtroppo si tratta, nel caso, di una introversione che l’AC diocesana non può più permettersi.
Del 14 giugno 2011