Una mattina di sabato, sotto un magnifico retablo, a discutere di Cagliari
Domande di politica e quel gruppo a cui non viene mai detto di no
Non so se ricordate un articolo di un po’ di tempo fa in cui mi facevo, e facevo a tutti, delle domande su Cagliari. Erano domande politiche, ma nella discussione successiva, sia sulla rete che di persona, sono diventate in realtà delle domande più generali, una esigenza di lettura della realtà della città.
Come capita in questi casi la palla lanciata da uno atterra nel campo di qualcun altro, in questo caso del gruppo “La Pira” che ha deciso di volerci capire di più sulla situazione sociale di Cagliari, e poi man mano la cosa ha rimbalzato un po’ qui e un po’ là e alla fine si trasformata in qualcos’altro: nel caso specifico in una serie di riunioni e discussioni, prima interne, poi che hanno sfruttato la disponibilità di due amici di vecchia data del nostro gruppo che sono (casualmente?) anche consiglieri comunali, Davide Carta ed Enrico Lobina, e che infine diventeranno, spero presto, degli incontri e delle iniziative pubbliche.
Prima però avevamo bisogno contemporaneamente di fare il punto e anche di allargare la riflessione oltre la cerchia del nostro gruppo, e quindi abbiamo deciso di provare a fare una cosa che, di solito, ci riesce bene: sfruttare la disponibilità degli altri (che in realtà, più elegantemente, si potrebbe definire “fare rete”).
Un piccolo inciso: aveva ragione Gesù quando diceva: «Bussate e vi sarà aperto, cercate e troverete». Quando facemmo il bilancio del primo anno di attività constatammo, sconcertati, che «nessuno ci ha mai detto di no», e che avevamo attinto alla disponibilità e al sapere di tante persone diverse. È una cosa che negli anni ha continuato a verificarsi, per esempio nel dossier sull’acqua in occasione del referendum, e che non smette mai di stupirmi. Chissà perché, nessuno ci dice mai di no: fine dell’inciso.
E quindi sabato scorso abbiamo invitato Enrico, Davide e un altro po’ di persone che ci sembravano degne di essere ascoltate e gli abbiamo chiesto di sacrificare una mattinata del week-end per discutere insieme di Cagliari. In una sala del Comune, procurata da Enrico, una delle sale più belle in cui mi sia mai capitato di fare una riunione, sotto un magnifico retablo. Una cosa un po’ imbarazzante, se volete, visto che ci dava l’impegno a produrre qualcosa all’altezza di tanta ambientazione.
Non dovrei dirlo, essendo uno degli organizzatori, ma mi sembra che sia andata molto bene. Certamente abbiamo fatto un raccolto straordinario di temi, problematiche e visioni della città, da cui credo che il gruppo “La Pira” ricaverà carburante per un bel po’.
Non farò il report della mattinata: spetta al gruppo unitariamente farlo e ci stiamo già lavorando, per poterlo mandare a tutti i partecipanti – ci sembra il minimo, vista la generosità con cui ci hanno aiutato a ragionare sulla città. Però qui vorrei dire io personalmente come ho vissuto la cosa e le riflessioni che ho fatto fra me e me.
Il mix, l’occasione e la replicabilità
Le persone che abbiamo invitato sono state scelte, in un certo senso, in maniera assolutamente casuale: erano persone con cui avevamo già lavorato e che conoscevamo, oppure persone legate comunque ad attività che fa qualcuno di noi del gruppo. Abbiamo cioè pescato nel campo esclusivo delle nostre relazioni. Eppure la cosa che mi ha colpito subito è stato come il mix delle persone presenti fosse perfettamente variegato per i nostri scopi, età, sesso, credenti e non credenti, oppure un ventaglio di opinioni politiche diverso, ma anche altre cose che per noi erano importanti: quando abbiamo fatto il primo giro, per esempio, e abbiamo chiesto alle persone di presentarsi dicendo anche dove abitavano, è emersa subito quella dimensione di città metropolitana dai confini labili su cui avevamo già riflettuto: gente che è nata a Cagliari e ora vive a Selargius, Quartu, Elmas, Monserrato, Assemini, gente che per anni ha fatto il pendolare da Oristano, gente che è venuta a vivere a Cagliari da altrove, gente che vive a Cagliari ma lavora fuori, gente che vive fuori ma lavora a Cagliari, gente che ha studiato a Cagliari vivendo altrove, e così via.
Non l’avevamo fatto apposta, e non so bene cosa voglia dire, ma mi ha colpito e mi è sembrato interessante: non tanto perché confermava quell’idea di identità plurale che ci eravamo fatto sulla città, quanto perché mi ha dato modo di riflettere sul microcosmo complesso che sono le relazioni di ciascuno di noi, e tanto più quelle di un gruppo, che è già per definizione una rete di relazioni e che oltretutto, fa parte di una realtà territorialmente stratificata com’è l’Azione Cattolica. In un certo senso la complessità delle relazioni (non la complicazione, eh!) è diventata il punto di partenza del nostro lavoro su Cagliari: ho l’impressione che sarà anche il punto d’arrivo e, se devo anche dirla tutta, mi pare in generale una risorsa per la città ancora tutta da sfruttare. Non so bene come dirlo: diciamo che sabato mattina ho penato che in fondo per una città delle nostre dimensioni ci si conosce abbastanza poco, e che se le relazioni fossero più curate la vita della città cambierebbe.
Ad ogni modo pescando fra le relazioni cittadine del nostro gruppo sono venuti a sedersi alla nostra tavola, sotto il bel retablo del Comune, un sacco di problemi, di vissuti, di opinioni, di esigenze diverse. E credo che questa multidimensionalità confermi un passaggio degli scritti di La Pira:
Entro la cerchia del!e mura cittadine i problemi del tempo presente assumono una dimensione umana perfettamente comprensibile.
Ah, già, perché a tutti i partecipanti avevamo dato, scelto a caso, un brano degli scritti di La Pira: un piccolo scherzo, uno spaesamento, che mi sembra sia stato gradito.
L’altra cosa che mi ha colpito è che mi è sembrato che l’occasione di confrontarsi, di parlare con altri, sia stata gradita e si sia rivelata piacevole. Vedo nascere in giro un gran numero di cenacoli, di diverse occasioni in cui la gente si mette attorno a un tavolo e ha piacere di confrontarsi, a un livello più semplice che non quello di un convegno formale e mi sembra un segnale interessante e un motivo di riflessione anche per noi: avevamo pensato l’appuntamento di sabato come un’occasione singola, finalizzata a un obiettivo ulteriore che ci eravamo posti: in realtà magari invece il piacere dell’incontrarsi vuol dire che avrebbe senso semplicemente riproporre periodicamente dei momenti in cui le persone possono esprimere le riflessioni del periodo, il loro sentire, i fenomeni che sentono più importanti. Ci sarebbe qui un gran ruolo per la comunità cristiana, direi: sabato mi è venuto in mente che si potrebbe fare qualche incontro in meno in cui spiegare (la dottrina sociale, la catechesi, e questo e quello) e qualche incontro in più in cui far parlare, rendere protagonisti e, vivaddio, ascoltare. Un incontro ogni sei mesi in ogni parrocchia in cui ci si mette in venti attorno a un tavolo e ci si racconta ciò che si vede capitare intorno a sé, nel quartiere, nella comunità, nella rete di relazioni attorno alla propria chiesa sarebbe proprio una gran bellezza, credo.
Parola d’ordine: ambivalenza
L’altra cosa che mi ha molto colpito è l’ambivalenza con cui tutti quelli che eravamo lì sabato guardiamo a Cagliari, o così mi è sembrato. Mi spiego con un esempio: durante il giro iniziale di presentazioni abbiamo chiesto ai partecipanti di dire, oltre che dove abitavano, una cosa che gli piaceva di Cagliari e una cosa che non gli piaceva (come vedete, abbiamo usato tecniche di animazione semplicissime). In questi giri c’è sempre qualcuno che dice la stessa cosa come pregio e come difetto: «Il mio pregio? he sono testardo. Il mio difetto? Che sono testardo». È un modo bolso di non scoprirsi che usano quelli che si credono furbissimi. Anche nel nostro primo giro di presentazioni è successo lo stesso, ma non era un trucchetto, era una lettura di sostanza, molto precisa e per nulla retorica. L’idea è che Cagliari è piena di potenzialità ma non le sfrutta, diciamo. Una certa impazienza condivisa nei confronti di un tesoro di città che però troppo spesso si ferma al: «vorrei ma non posso» e che dilapida i tesori, ambientali soprattutto, di cui è dotata.
Siccome io sono di solito un partigiano sfegatato di Cagliari, e un suo difensore a oltranza, questa ambivalenza, che era peraltro ben motivata, mi ha molto colpito. Naturalmente come sapete nel mio pianerottolo vive anche mia sorella, che dice che tornare a Cagliari da Prato le ha cambiato la vita. E sabato c’era Gaetano che è venuto a Cagliari da Bari e ne è felice. Ma il sospetto che mi porto via da sabato è l’idea che Cagliari sia una città a misura d’uomo, con un’alta qualità della vita… a certe condizioni. Condizioni di cui magari il sottoscritto, maschio, bianco, che vive in centro città, (relativamente) garantito, più o meno sano, gode: ma chi non ha tutte queste caratteristiche forse trova Cagliari un po’ meno spassosa da vivere.
Tre fili rossi
Il che ci porta direttamente ai tre temi con cui io riassumo la mattinata: sono i miei temi, nel senso che per esempio si è parlato tanto di abitare, fin dal primo giro di cui ho parlato, ma nel mio personale riassunto non entra, sebbene sia importantissimo.
- Il primo è quello della povertà. Lascio al report complessivo l’elenco di tutti i vari temi che sono stati sollevati e i vari modi con cui si declina la povertà in città. Qui basta dire che è stato un tema ricorrente ed evocato da troppe parti per poter essere ignorato. Devo dire che vado via dal workshop con una idea della città, anche sotto questo punto di vista, molto meno rassicurante di quello che mi piacerebbe. Poi è chiaro che parliamo di fenomeni che non sono solo di Cagliari, sono globali, parliamo di fenomeni che riguardano la Sardegna e che si scaricano su Cagliari come il prezzo da pagare per il privilegio di essere la capitale regionale, parliamo di situazioni che non hanno la gravità che hanno in altre città d’Italia, però, però, però… sono meno rassicurato.
Quando si parla di povertà c’è sempre da ricordare che non c’è solo quella materiale, e questo conduce al secondo punto:
- I centri abitati ma soprattutto le città sono, per definizione, i luoghi della civiltà: i luoghi dei templi, del sapere, della cura. Civiltà è, del resto, etimologicamente, un termine legato a città. E la vita civile è una vita, come dire? gentile, o forse più esattamente umana. Uno degli interventi che abbiamo ascoltato metteva l’accento sulla difficoltà ad accettare un banale progetto sull’educazione alla differenza. Ascoltando riflettevo che non è solo povera una città in cui un progetto del genere (aldilà della discussione sui contenuti del progetto, che onestamente non conosco a fondo): evidenzia una pecca nella sua civiltà. E questo è un filo che lega lo squadrismo per cui si tirano i sacchetti di spazzatura contro casa di Soru (un episodio che è venuto in mente a me, ma che sabato non è stato citato), la tranquillità con cui complessivamente si accetta che ci siano migranti che per diversi giorni dormono all’aperto (un tema che sabato, invece, è stato citato), il tema dell’illegalità crescente (anch’essa citata) e che passa, probabilmente, per una manchevolezza complessiva, storicamente, delle classi dirigenti della città. Una città in cui bisogna lottare per la civiltà e la gentilezza del vivere. È per me solo un abbozzo di riflessione, per il momento, ma diciamo: mi sento ulteriormente poco rassicurato.
- Insomma: sorprendentemente, dentro un quadro di grande affetto per la città, sono emerse delle pecche e delle ombre. A un certo punto c’è stato un passaggio molto interessante sul quartiere della Marina, sui suoi meccanismi di rilancio e sulla possibilità di replicarli altrove ed Enrico Lobina diceva: «La subalternità non si autorganizza» (ovviamente, altrimenti non sarebbe subalternità). E allora chi dovrebbe accendere la scintilla dell’emancipazione nei quartieri, mi chiedevo? Non possono essere persone che vengono da fuori – Cagliari ha vissuto l’esperienza degli intellettuali di sinistra in missione a Sant’Elia, negli anni ’60 e ’70, e rimane un’esperienza tutto sommato piuttosto controversa. D’altra parte la città avrebbe bisogno, davvero, di alcuni meccanismi di rilancio nei quartieri, di maggiore umanizzazione, di cura delle relazioni, di sviluppo, e di mille altre cose.
Dirò una cosa apparentemente ingenua da morire: in realtà un luogo che potrebbe fare da scintilla c’è in tutti i quartieri, ed è la parrocchia (appunto: parà oiké, in mezzo alle case). Il terzo filo rosso che mi proto via dal seminario di sabato è del tutto ecclesiale, e pastorale: una cura per la povertà della città che non sia caritativa, ma di costruzione di circuiti virtuosi di relazioni di quartiere, di emancipazione, di quella che un tempo di sarebbe chiamata “promozione umana”. Mi sembrerebbe una pista interessante di lavoro.
E andando via mi sono chiesto: «Ma se invece di amici del gruppo “La Pira” avessimo messo attorno al tavolo, a fare lo stesso lavoro, venti parroci della città, cosa ne sarebbe venuto fuori?«. Sarei davvero molto curioso di scoprirlo. Quasi quasi propongo al gruppo “La Pira” di farlo.