Cosa c’entra la noviolenza col Museo Nivola di Orani?
Un’ascendenza fortemente sentita
Non so se ho mai raccontato qui sul blog di essere mezzo oranese – Delitala da parte di madre, e fierissimo di questa ascendenza – e quindi dotato di solidissime radici barbaricine.
Se Cagliari è la mia città del cuore, senza merito perché vi sono nato e cresciuto, Orani è il paese che mi sono voluto scegliere, decidendo a un certo punto della mia vita di frequentarlo, di usare la casa di famiglia, di farne un luogo dove ritornare periodicamente.
Una volta, lo confesso, ho iniziato perfino una poesia, che faceva così
Benedetto monte dei padri,
Gonare…
poi per fortuna di tutti lo spirito razionale ha prevalso e non sono mai andato oltre il terzo verso. Per fortuna. Però, sarà perché di terzo nome faccio Gonario (non lo sapevate, scommetto) a un certo punto della mia vita ho deciso di riappropriarmi di un pezzo di passato familiare che fino a quel momento avevo un po’ ignorato, e quindi sono legatissimo a Orani.
Il che vuol dire, naturalmente, che se mi piace l’opera di Costantino Nivola un po’ è per un aspetto razionale, cioè riconosco il grande artista, un po’ è per un’affinità estetica che è ovviamente inspiegabile e un po’ è per motivi affettivi, perché c’entra con la mia storia: un artista oranese, di sinistra, per un periodo (brevissimo, credo) oltretutto allievo di Mario Delitala. Come potrebbe non piacermi?
Tutta questa lunga introduzione per dire che quando si annuncia che il museo Nivola di Orani è a rischio chiusura mi sento toccato su più livelli. Come cittadino (come?! il museo dedicato al più importante artista di origine sarda del ‘900 rischia di chiudere? ma siamo matti?!), ma soprattutto per questioni affettive: il museo è praticamente una tappa obbligata ogni volta che porto amici ad Orani, ci sono stato un sacco di volte e poi, appunto, è la gloria del paese dei miei nonni, e questo è un motivo più che sufficiente perché non debba chiudere.
Parentesi: sul motivo della chiusura non mi dilungo, ma certo uno non può che chiedersi come venga gestita la politica di sostegno alla cultura da parte della Regione, quali ragionamenti stiano dietro a riduzioni prima del 20 e poi del 50% dei fondi erogati a una istituzione come il Museo. Fine della parentesi.
Tutta questa lunga introduzione per dire che il 9 marzo, domenica, sono andato a Orani. Perché un gruppo di cittadini sardi ha avuto la bella idea di organizzare una gita a Orani che fosse anche manifestazione di solidarietà nei confronti del Museo, una specie di flashmob di visitatori provenienti da tutta la Sardegna, e per me è stata l’occasione di manifestare solidarietà a una realtà culturale da cui ho imparato molto e anche il pretesto per tornare con amici al paese dei nonni dopo un po’ che non ci ero più andato, far vedere la casa a chi non l’aveva mai vista, accendere il camino, farci due spaghi (all’amatriciana, appena un chilo di pasta e una sleppa di guanciale grande così per sei persone in tutto) e insomma annaffiare di nuovo le radici.
Ma il centro della giornata, ovviamente, è stata la visita al Museo, il giro per il paese sulle tracce delle (bellissime) gigantografie delle foto scattate mentre Nivola decorava la facciata della chiesa de Sa Itria e ora appese nelle stesse piazze dove furono scattate negli anni ’50. E una sosta, immancabile, davanti alla stessa facciata.
Doverosamente abbiamo fatto l’abbonamento annuale per sostenere il Museo. Il mitico Pino, addirittura, siccome non era potuto venire, ha incaricato Maria Bonaria di comprare due biglietti in più, da parte sua, per fare anche lui la sua parte. Due biglietti intonsi che terrà per ricordo.
Abbiamo incontrato un sacco di vecchi amici cagliaritani e con loro ci siamo sentiti parte di un unico abbraccio nei confronti del Museo. Abbiamo chiacchierato con i dirigenti della Fondazione e abbiamo capito meglio i loro problemi e la schizofrenia della Regione, che prima spende tanto per ampliare la struttura ma poi taglia i fondi proprio quando le spese di gestione, a causa della struttura ingrandita, sono aumentati.
Insomma, abbiamo fatto la nostra parte. L’idea di sostenere il Museo in questo modo, con questa gita, era bellissima. La giornata era bellissima e siamo stati molto bene. C’eravamo, siamo stati lì, ci siamo compromessi, abbiamo pagato (un pochino) di persona. Sentivamo che non potevamo non esserci e ci siamo stati.
E mentre guidavo verso casa sulla 131 mi sono venuti un sacco di dubbi.
E finalmente arriviamo alla nonviolenza…
Pensavo: abbiamo votato col portafoglio.
Votare col portafoglio è quell’idea di attivismo dei consumatori per cui premiano coi loro consumi attori economici positivi e penalizzano quelli con un’attività economica negativa: inquinante, eticamente riprovevole e così via. Per esempio facendo la spesa al commercio equo (e premiando le così le Botteghe) e non comprando invece (cioè punendo) i prodotti di una nota multinazionale che causa la morte di migliaia di bambini nel Sud del mondo. Prima o poi la multinazionale se ne accorge, perché la quota di mancate vendite finisce per farle male, ed è incentivata a cambiare comportamento. Nel frattempo sostenere le Botteghe ha avuto l’effetto di premiare i pionieri etici che fanno innovazione sociale e di dimostrare che un’alternativa è possibile.
In realtà il voto col portafoglio fa parte di una vasta gamma di attività dal basso che compongono quella categoria di azioni che nel dibattito culturale e politico italiano vengono riassunte con il termine di voice, facendo riferimento a Hirschman. Io personalmente ho l’impressione che nell’opera originale il termine avesse un senso diverso, ma comunque la voice sarebbe il segnale mediante il quale, con proteste, azioni dirette e altro l’opinione pubblica reclama un cambiamento e segnala la propria disponibilità a coinvolgersi in quella direzione. Per esempio l’iniziativa di domenica assomigliava molto al cashmob, in cui un gruppo di consumatori attua un acquisto di massa presso un rivenditore che si vuole premiare.
Il segnale domenica a Orani era chiarissimo. E per darlo abbiamo speso del nostro, quindi certamente abbiamo votato col portafoglio.
Tutto bene, dunque? Non sono sicuro.
La domanda da porsi è: basterà? E l’impressione che ho è: presumibilmente no. Perché certamente, per quanto si possano comprare biglietti (e la mia famiglia ha certamente fatto la sua parte) il Museo non può sostenersi solo con quelli. E perché sebbene si sia mandato un segnale politico molto preciso questo certamente non era sufficiente: anche se si è ottenuta una buona visibilità sui giornali, il giorno dopo era già un’altra storia e non eravamo abbastanza numerosi da fare realmente la differenza. Diciamo che abbiamo dato un po’ più di forza contrattuale ai dirigenti della Fondazione, ma non tanta, e probabilmente in realtà le trattative con la Regione non terranno tanto conto del sostegno che abbiamo dimostrato ma di mille altre cose.
Occhio: non sto dicendo che si è fatto male a organizzare la cosa. Chi l’ha organizzata ha fatto benissimo. E penso che chi ha partecipato ha fatto ancora meglio (io fra loro).
Sto dicendo che mentre guidavo avevo un dubbio e appena arrivato a casa sono andato a rileggermi Gandhi, trovando conferma dei miei dubbi, e che discutere dell’iniziativa pro Museo Nivola offre l’occasione di ragionare su come fare, e non fare, la lotta politica.
Mi pare che secondo Gandhi la lotta nonviolenta comporta sempre la presenza di un conflitto, che eventualmente viene portato allo scoperto o esplicitato, e un conflitto comporta sempre una controparte. Nel caso della manifestazione di domenica la controparte non è chiara e il conflitto non è esplicitato, quindi chi agisce si preclude la possibilità di porsi (e porre alla controparte) degli obiettivi da raggiungere.
Il che non vuol dire che dovevamo andare a manifestare sotto la Regione piuttosto che a Orani: la lotta nonviolenta conosce tutta una serie di azioni dimostrative diverse, in cui la visita al Museo si inserirebbe perfettamente. Ma le azioni dimostrative sono un mezzo di una lotta prolungata, non un fine.
Non ci avevo mai pensato, ma questo tipo di ragionamento spiega anche perché un cashmob ha molti più problemi, è meno efficace e probabilmente non è un gran strumento di lotta rispetto allo slotmob (in cui ci si riunisce per sostenere un tabaccaio o barista che ha rimosso le slot machine): perché nel primo caso ci sono esattamente gli stessi problemi della gita a Orani, mentre nel secondo caso si fa pressione diretta (altro caposaldo della lotta nonviolenta) sull’avversario: se non la smetti, ti avviso, ti toglieremo i tuoi punti vendita e i tuoi baristi uno a uno.
Valeva lo stesso la pena di fare la manifestazione a favore del Museo Nivola e di parteciparci? La mia risposta la conoscete, perché ci sono andato. Ho l’impressione che Gandhi sarebbe meno possibilista di me. Perché agire il conflitto serve anche perché ogni conflitto che viene lasciato sedimentare, e quindi affrontato con tattiche dilatorie, rinviato o esorcizzato, peggiora. E una manifestazione di solidarietà che rafforza il Museo temporaneamente ma che non affronta il nodo del problema (cioè le politiche culturali della Regione e i criteri di assegnazione dei fondi) tende a rinviare nel tempo il momento in cui i nodi dovranno arrivare al pettine.
Il problema, scopro, è che Gandhi ha una visione in fondo dirigista della lotta nonviolenta. Perlomeno: ogni lotta ha la sua leadership, degli obiettivi e un gruppo che li persegue. Domenica non era chiaro chi conducesse la… lotta (la dirigenza della Fondazione Nivola? un gruppo spontaneo di cittadini e amanti della cultura?) e senza questo gruppo protagonista non c’è nessuno che si faccia carico della gestione del conflitto e possa fare sia da interlocutore della Regione sia da interlocutore per i cittadini che sono disposti a sostenere l’obiettivo (la sopravvivenza del Museo) con le loro forze. L’autorganizzazione dal basso che non esprime una leadership si condanna cioè all’impotenza, anche se è in grado di esprimere cose bellissime come la festa di domenica scorsa.
(Vedi le cose che si imparano a Orani, comunque, altro che piccola Atene quegli altri là)
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