Da Londra
Carissimi durante il fine settimana a Londra con Maria Bonaria alcune delle cose che abbiamo fatto o visto mi hanno suggerito dei pensieri “lapirici” che finalmente, adesso che ho un po’ di tempo, vi rigiro.
Non è quindi un resoconto di cosa abbiamo mangiato o cosa abbiamo visto, ma due o tre pensieri quasi in libertà.
I cartelli fuori dalle chiese
Davanti all’albergo, la bacheca della parrocchia anglicana dichiarava orgogliosamente, sotto il nome della chiesa e l’orario delle funzioni, il nome e i titoli del pastore e soprattutto “1662 Prayer Book used for all functions” (“si usa il testo liturgico del 1662 per tutte le celebrazioni”). Il che mi è parso un po’ strano, come se davanti alle nostre chiese scrivessimo “si usa il Messale Romano” (che altro vuoi usare?).
Così mi son messo a guardare i cartelli davanti alle chiese, e l’ho trovata una cosa piuttosto interessante.
Intanto, la maggior parte delle chiese non usa il Prayer Book del 1662 – non conosco abbastanza la storia della Chiesa Anglicana da capire cosa usano, ma comunque è evidente che non c’è una unità liturgica, il che mi ha molto colpito, considerato che comunque la Chiesa anglicana è una chiesa gerarchica, in cui esistono per esempio i vescovi. Magari me lo potevo immaginare, ma scoprirlo direttamente mi ha fatto effetto.
Un’altra cosa scoperta guardando le bacheche è che la maggiore attività pastorale delle varie chiese è il counselling, cioè in parole povere se non sai a che santo votarti là trovi qualcuno che ti ascolta (talvolta il pastore, talvolta dei volontari, o una équipe). Meritorio, ovviamente, e indice di un disagio sociale, ma veramente c’è poco di tipicamente cristiano. In certe bacheche, a parte una funzione settimanale, non era indicata alcuna attività diciamo catechetica (che qui chiamamo christian course).
L’ultima cosa che saltava all’occhio era la mancanza delle tipiche dimensioni associative delle nostre parrocchie: da nessuna parte orari di riunioni di gruppi giovanili, dei catechisti, di qualche gruppo di interesse. Ovviamente quanto detto vale per le chiese che si riconoscevano bene, le quali erano tutte anglicane: sospetto fortemente che le sale metodiste o di altre confessioni evangeliche avrebbero esposto bacheche ben diverse. Fatta questa distinzione, il tessuto cristiano londinese mi è apparso, dal mio miserissimo punto di osservazione, molto slabbrato.
Poi naturalmente c’erano dei cartelli impagabili, come la chiesa che è ortodossa il giovedì e la domenica e anglicana il venerdì e il sabato, per esempio, o quella in cui la pastora è un ex-avvocato e perciò è specializzata nel fare da cappellano agli studi legali della City e nella tutela di casi di maltrattamento familiare…
Body Shop vendesi
Le prime pagine dei giornali, nei giorni in cui eravamo a Londra, erano occupate tra l’altro dalla notizia che la proprietaria e fondatrice storica della catena dei Body Shop (negozi specializzati in erboristeria e cosmesi “naturale”) ha venduto le sue azioni a L’Oreal per la bella sommetta di 626 milioni di sterline. Consumatori e fan della catena esprimevano preoccupazione per il mantenimento della impostazione tipiche della catena: niente sperimentazioni su animali, packaging riciclabile, prodotti naturali etc, tutte cose di cui a L’Oreal non è mai fregato niente e di cui non si pensa che gliene importerà adesso. Molti organi di stampa notavano anche che si tratta dell’ennesima acquisizione di realtà etiche da parte di aziende global: si citavano almeno quattro casi molto importanti negli ultimi due anni.
In realtà, attività o enti di beneficenza (charities) o dimensioni etiche delle aziende o prodotti biologici sono diffuse in Inghilterra in maniera impensabile per noi: basti dire che Starbucks, che sta al bar come McDonald sta al ristorante, offre il caffè del commercio equo. Ma dappertutto il “marketing sociale” è presente in maniera impressionante, quasi ossessiva. Il che naturalmente lascia perplessi: perché non si ha proprio l’impressione che grazie a questa diffusione “abbiamo vinto”, e nemmeno pareggiato, e allora ti chiedi di che cosa sia il segno tutto questo impegno etico delle aziende. Io onestamente non lo so, ma scruto un pochino in Italia e mi pare che la tendenza sia abbastanza simile anche qui.
Le facce della multiculturalità
Londra è una città multiculturale, senza dubbio: una babele di lingue, cibo in offerta di tutte le parti del mondo, facce di tutti i generi.
Però se ti fai un po’ attento, ti accorgi che le facce non sono mischiate, ma stanno tutte al loro posto.
Quelle scure, africane, asiatiche, mediorientali, mediterranee, sono quelle che vedi più spesso per strada, ma rigidamente in ruoli subalterni: il tassista, il controllore della metro, la donna delle pulizie, il portiere dell’albergo, il barista, tutti quelli che fanno “i servizi”.
Le uniche facce scure “di successo” che ho visto sono un conduttore indiano della BBC (che c’è perchè è politicamente corretto avercelo) e un medico di un ospedale, intervistato alla TV per non so cosa. Le uniche facce bianche “popolari” i due impiegati di un macello di campagna, che avevano oltrettutto l’aria allucinata dei potenziali assassini seriali, per cui forse comunque alla City non ce li avrebbero voluti.
Mi è tornata alla mente la teoria della società multiculturale americana, che forse funziona anche qui: c’è chi dice che l’America è un melting pot, un crogiolo di fusione in cui razze e culture si mischiano fino a diventare indistinguibili, e chi propone invece l’immagine della salad bowl, la zuppiera dell’insalata, dove i pezzettoni degli ingredienti rimangono ciascuno separato e indipendente, sebbene mischiati. Da quello che ho visto, Londra è una zuppiera in cui gli ingredienti sono accuratamente tenuti divisi per strati.
L’esperienza più adatta al gruppo “La Pira”
A qualcuno l’ho già raccontata a voce: è successo quando siamo andati a teatro (e non un teatro qualunque, un teatro “serio”) convinti di sentire un concerto (al costo di 23 sterline a testa) e ci siamo trovati nel mezo di un raduno evangelico, in cui «Tutti in piedi! Cantiamo insieme le lodi del Signore!!», con maestro del coro con funzioni di evangelizzatore, pastore in smoking che faceva l’omelia (io furbissimo inizialmente credevo che fosse il comico per le parti “leggere”), parrocchiani sulle gradinate che mormoravano compitamente alla fine di ogni brano «Yeah; hallelujah!», e signore pachistane con le braccia levate a invocare lo Spirito Santo; esperienza insomma spaesante ma divertentissima e… in verità, bella.
Un post un po’ trasognato del marzo 2006 sulla lista del gruppo “La Pira”.