Film a metà – 2
Allacciate le cinture (Ferzan Özpetek, Italia 2014)
Se Her è un film che lascia perplessi perché non riesci a capire quanto sia un maledetto capolavoro e quanto un’operazione furbetta studiata a tavolino (alla fine decidi: un po’ e un po’, e più passa il tempo e meno capolavoro rimane), Allacciate le cinture sembra un film del tutto scombinato nel quale però, man mano che si sedimenta nel ricordo, non riesci a individuare esattamente cosa ci sia che non va.
La prima volta che ho visto un film di Özpetek è stato con Harem Suare: ritrovo in Allacciate le cinture il gusto del giocare col tempo della narrazione, stravolgendolo, violentandolo, creando una storia circolare della quale non è facile individuare quale sia il punto iniziale e quale quello finale o come proceda. È una cosa che evidentemente a Özpetek piace fare e che è sottolineata anche dal trailer, in cui vediamo scorrere all’indietro una parte degli avvenimenti.
Il problema è che perché non sia soltanto un esercizio intellettuale questo stravolgimento deve, in qualche modo, essere al servizio del racconto, approfondirlo, fornirgli chiavi di lettura inaspettate e migliori: non voglio dare troppe anticipazioni sulla trama ma diciamo che qui spostare brutalmente in avanti la storia di tredici anni, introdurre una circolarità che consente ai personaggi di sfiorare quasi i se stessi più giovani, giocare con le premonizioni e le visioni del futuro o col ricorrere in momenti diversi degli stessi luoghi non aiuta lo spettatore ma anzi lo confonde. E la sensazione di spaesamento genera tanta più fatica perché il film non sembra avere un suo nucleo narrativo forte, ma piuttosto essere stato concepito come un affastellarsi di materiali narrativi diversi, episodi slegati fra loro, i consueti personaggi bizzarri e le consuete situazioni un po’ al limite di Özpetek, senza un centro comprensibile: e se a tutto questo si aggiunge pure lo stravolgimento dei tempi narrativi si può uscire dalla sala un po’ trasognati e chiedersi, con sincerità, se non si è assistito a uno spettacolo ben girato e ben interpretato, per carità, ma del tutto senza capo né coda.
Per fortuna di Özpetek se uno ci ripensa il giorno dopo, però, un qualche centro gli sembra di intravederlo, e la scombinatezza generale sembra diluirsi man mano che il ricordo rende sfocato il film e ne mantiene solo gli elementi principali. Il che naturalmente può essere esattamente quel che il regista voleva, o un colpo di fortuna inaspettato, e complessivamente sembra un consolazione un po’ amara: come avrebbe detto Catalano ci si può accontentare di fare un film che si salva perché diventa impossibile mettergli il sale sulla coda, ma certo sarebbe meglio fare un film che invece di scappare si volti verso lo spettatore, lo acchiappi e se lo divori in un solo boccone.
Buona parte della capacità di resistenza di Allacciate le cinture dipende dal fatto che, come spesso gli capita, Özpetek si mette al servizio di una donna. Non semplicemente di un personaggio femminile, anche dell’attrice che lo interpreta, indagata e scrutata nella sua bellezza e nella capacità di fornire sentimenti, sensibilità, finezza di tratteggio al personaggio che interpreta: credo che ogni brava e bella giovane attrice meriterebbe un regista come Özpetek che ti regala inquadrature e scene memorabili, una specie di dichiarazione d’amore via macchina da presa.
Qui Kasia Smutniak fa un figurone e se il suo personaggio non riesce a ancorare del tutto il film non dipende da lei. Il fatto è che, per esempio, la parabola di crescita personale di Giovanna Mezzogiorno in La finestra di fronte, fino a prendere in mano la sua vita e farne qualcosa di diverso e di bello, o di Margherita Buy ne Le fate ignoranti, fino a trovare pacificazione con se stessa e col mondo, o la lucida progressione verso la santa follia fino alla dazione totale di sé di Barbora Bobulova in Cuore sacro era costruita in modo esattamente speculare rispetto alla sfida che Elena, il personaggio della Smutniak, deve affrontare.
Quelle tre erano messe a confronto con delle persone (il vecchio demente, la comunità di omosessuali, la bambina) e grazie all’irruzione di costoro nella loro vita giungevano a scavare dentro se stesse e a trovare, nascosto in fondo, il nucleo più vero di se stesse.
Dall’interno di Elena irrompe invece ciò che non è voluto e distrugge (cerco di non dare anticipazioni sulla trama) e questo ridetermina i suoi rapporti con le persone: il percorso non è da dentro a fuori, ma da fuori a dentro. Un meccanismo che però avrebbe richiesto una maggiore profondità nella scrittura degli altri protagonisti, meno silenzi, meno non detti, la promozione invece dei comprimari – soprattutto Antonio, il marito – a protagonisti assoluti, cosa che non avviene perché tutta l’attenzione è su Elena: non perché gli altri attori non siano tutti bravi ma proprio perché la sceneggiatura è costruita per tenerli nel cerchio esterno. Mi è venuto da pensare che il film avrebbe dovuto essere girato seguendo il punto di vista di Antonio, ma probabilmente avrebbe avuto gli stessi problemi: il film è sul rapporto fra lui e lei, e entrambi avrebbero avuto diritto alla stessa attenzione. Peccato che invece questa dimensione venga messa in ombra da una serie di orpelli molto caratteristici di Özpetek ma piuttosto inutili, soprattutto i siparietti fra Carla Signoris ed Elena Sofia Ricci e il personaggio sopra le righe di Paola Minaccioni.